Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 27 febbraio 2014, n. 21621

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 12 aprile 2013 il Tribunale del riesame di Reggio Calabria ha confermato il decreto di sequestro preventivo della FRA.VE.SA. s.r.l., società avente di fatto sede legale in Melito Porto Salvo alla via Caredia n. 2, emesso dal G.i.p. presso quel Tribunale in data 18 marzo 2013, sul presupposto che la stessa si trovi al vertice di un cartello di imprese che gestiscono la totalità degli appalti pubblici nel comprensorio di Melito Porto Salvo e Comuni limitrofi, rappresentando una "figura cardine per gli affari economici della cosca di Tripodi Giovanni cl. 71", sulla scorta delle direttive impartite da Remingo Iamonte, quale figura apicale del sodalizio.

Il provvedimento cautelare è stato adottato nell'ambito di un procedimento penale relativo alle seguenti ipotesi di reato: a) artt. 110-416-bis, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 6, c.p. e 3-4 della l. n. 146/2006 (capo sub A-bis della rubrica provvisoria), commesso in Melito Porto Salvo ed altre zone della provincia reggina, in epoca antecedente e prossima all'anno 2005 e sino alla data odierna; b) artt. 81 cpv., 110, 513-bis, commi 1 e 2, c.p. e 7 della l. n. 203/1991, commesso nella medesima località su indicata, in data antecedente e prossima all'anno 2005 e fino all'anno 2010 (capo sub B); c) artt. 110, 81 cpv., 323, 476 c.p. e 7 della l. n. 203/1991 (capo sub B-bis), commesso nella medesima località su indicata tra il 31 maggio ed il 1° giugno 2009; d) artt. 110, 81 cpv., 323, 476 c.p. e 7 della l. n. 203/1991 (capo sub B-ter), commesso nella medesima località su indicata in data 29 aprile 2008.

2. Nell'interesse della predetta società, in persona dell'amministratore unico e legale rappresentante Laganà Carmelo, i difensori, Avv.ti Loris Maria Nisi e Domenica Tripodi, hanno proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame, deducendo la violazione dell'art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., in relazione agli artt. 321 c.p.p., 240, 416-bis, comma 7, c.p.

2.1. Si lamenta, in primo luogo, l'insufficienza e l'irragionevolezza dell'apparato argomentativo, avendo il Tribunale erroneamente recepito le valutazioni espresse dal G.i.p. sulla base del provvedimento interdittivo originariamente emesso dalla Prefettura di Reggio Calabria nei confronti della FRAVESA s.r.l.

Non è stata operata, in particolare, alcuna valutazione circa la concreta possibilità di eventuali ingerenze e condizionamenti sul nuovo assetto societario da parte dell'organizzazione criminale in esame, avuto riguardo al fatto che, il 28 aprile 2010, a seguito del provvedimento prefettizio di interdizione per il sospetto di infiltrazioni mafiose, i soci hanno costituito il Trust "Tricalò", liberandosi delle loro quote ed affidandole ad un trustee con il compito di detenerle e, successivamente, destinarle ai beneficiari individuati nel relativo atto notarile.

A seguito dell'istituzione del trust, l'amministratore unico della FRAVESA s.r.l., Giovanni Tripodi (cl. 82), si spogliava del proprio incarico, comunicando le sue dimissioni, ed il trustee, divenuto socio unico della predetta società, in data 10 luglio 2010 provvedeva, all'esito di assemblea ordinaria, alla nomina di un nuovo amministratore unico in persona dell'odierno ricorrente, che, da quel momento, ha amministrato la società con attività gestionale limitata, poiché, essendo ancora vigente la predetta informativa prefettizia, stante il pronunciamento sfavorevole del giudice amministrativo, ha svolto esclusivamente attività edilizia in favore di clientela privata.

Nulla viene contestato, infatti, successivamente alla costituzione del trust, la cui irrevocabilità, per come risulta dall'atto costitutivo, consente di affermare che non possa trattarsi di uno "sham" trust al solo scopo di aggirare le norme di prevenzione.

2.2. Si deduce, inoltre, che il Tribunale ha confermato, sulla base dell'art. 416-bis, comma 7, c.p., il sequestro di una società segregata nel trust e, pertanto, intestata a soggetti non indagati, senza individuare alcun collegamento, né la presenza di alcuna relazione specifica e stabile, tra la società ricorrente ed i soggetti indagati per i reati di associazione mafiosa.

3. Con motivi aggiunti, depositati in Cancelleria in data 21 febbraio 2014, l'Avv. Loris Maria Nisi, difensore di fiducia della società sopra indicata, ha dedotto vizi di violazione di legge per assenza di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. c), in relazione all'art. 321 ed all'art. 125, comma 3, c.p.p., svolgendo ulteriori argomenti a sostegno delle già prospettate omissioni motivazionali.

Si lamenta, in particolare, l'assoluta mancanza di verifica degli elementi che possano supportare il quadro accusatorio a seguito della costituzione del trust, sì da avallare il sospetto, ipotizzato dalla Prefettura e richiamato sia dal G.i.p. che dall'organo del riesame, circa l'influenza della locale cosca di "ndrangheta" sulle relative scelte gestionali, pur dopo la segregazione in trust della società sopra indicata.

Il Tribunale del riesame, peraltro, avrebbe operato un travisamento del fatto laddove afferma che, dall'atto costitutivo del trust, risulterebbe che i beni sarebbero tornati ai disponenti in esito allo scioglimento: tale circostanza è erronea, poiché all'art. 2 dell'atto costitutivo si dà atto dell'irrevocabilità dello strumento e all'art. 6, nel contempo, si prevede la possibilità di esclusione dei beneficiari - discendenti dei capostipiti - qualora non forniscano sostegno rilevante all'attività della società, con la successiva divisione delle quote, tra discendenti dei capostipiti e dei beneficiari, una volta sopraggiunto il termine finale del trust (almeno quaranta anni).

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato per le ragioni di seguito esposte e precisate.

5. L'impugnata ordinanza, invero, è sorretta da un apparato argomentativo del tutto congruo e logicamente correlato al complesso delle emergenze indiziarie, le quali sono state compiutamente apprezzate e valutate tenendo conto dei rilievi difensivi - nel caso di specie motivatamente disattesi - e nel pieno rispetto di un quadro di principi esattamente interpretati ed applicati.

Sulla base di numerosi elementi documentali e del contenuto di svariate operazioni di intercettazione telefonica ed ambientale, il Tribunale del riesame ha dettagliatamente analizzato i passaggi più rilevanti delle complesse vicende storico-fattuali oggetto dei temi d'accusa provvisoriamente enucleati nelle rispettive imputazioni, ed ha conseguentemente posto in rilievo una serie di dati indiziari, partitamente e specificamente vagliati, dai quali ha tratto il motivato convincimento di un pieno coinvolgimento di Remingo Iamonte nella gestione della società di costruzione edile in esame - già destinataria di un provvedimento interdittivo antimafia emesso il 23 dicembre 2009, la cui proprietà era suddivisa fra Tripodi Giovanni (cl. 1982), quale amministratore unico e detentore della quota nominale di 33.000,00 euro, e Tripodi Demetrio, detentore a sua volta della quota nominale di euro 67.000,00 - spiegando come il ruolo direttivo esercitato dal primo, da un lato, debba ritenersi riconducibile al proprio ruolo di reggente l'omonima organizzazione criminale, e, dall'altro lato, si esplichi attraverso precise disposizioni eseguite dal coindagato Tripodi Giovanni (cl. 1971) - cugino dell'omonimo Giovanni e fratello di Demetrio (cl. 1981) - già titolare della carica di procuratore della FRA.VE.SA. s.r.l. e reale dominus della società, solo formalmente intestata ai suoi congiunti, in quanto preposto alla sua diretta gestione sulla base delle direttive impartite da Remingo Iamonte.

Il Tribunale del riesame ha quindi evidenziato come il mutamento societario formalmente intervenuto a seguito dell'istituzione del trust denominato "Tricalò", avvenuta per atto notarile del 28 aprile 2010 attraverso il trasferimento delle quote di partecipazione detenute nella FRA.VE.SA. dai predetti Tripodi Giovanni (cl. 1982) e Demetrio, con la nomina di un amministratore unico e di un trustee, che ne ha assunto la qualità di socio unico, operante nell'interesse dei capostipiti e dei beneficiari, non abbia fatto venir meno le forme di controllo esercitate sulle relative attività societarie da parte delle su menzionate persone sottoposte ad indagine.

Dagli accertamenti esperiti presso l'I.N.P.S. è inoltre emerso che i disponenti (Giovanni Tripodi e Demetrio Tripodi) risultavano dipendenti della società, continuando, in tal modo, a controllarne dall'interno le relative attività, mentre si è motivatamente escluso che sulla vicenda storico-fattuale oggetto della provvisoria contestazione articolata in sede cautelare potesse esercitare alcuna concreta incidenza la successiva risoluzione del rapporto lavorativo, avuto riguardo alla derivazione del trust dalla FRA.VE.SA. s.r.l. ed ai legami soggettivi ed oggettivi tra la vecchia e la nuova configurazione societaria, siccome ritenuti sintomatici della continuità degli interessi gestionali dei precedenti titolari anche nell'ambito del cd. trust "Tricalò".

In tal senso, infatti, è stato posto in rilievo il dato inerente ad una comunanza di interessi economici fra il trust in oggetto e le società "M.T.FRA.", "C.G.FRA." e "Consorzio Annunziata", tutte operanti nel medesimo settore edile, partecipate dalla stessa "FRA.VE.SA." ed amministrate proprio dal precedente amministratore unico di quest'ultima, ossia Giovanni Tripodi (cl. 1982). Peraltro, dalla disamina dell'atto è emerso che gli stessi disponenti (Tripodi Giovanni, cl. 1982, e Tripodi Demetrio) figurano tra i beneficiari del trust - cui pertanto sono destinati gli utili derivanti dalla gestione - unitamente allo stesso Tripodi Giovanni (cl. 1971) e ad altri componenti la medesima famiglia, con la correlativa permeabilità della nuova gestione al quadro degli interessi economici riconducibili alla precedente amministrazione dell'organismo societario, che di fatto ne conserva ancora, sia pure indirettamente, la piena disponibilità.

6. Discende da tali considerazioni che il Tribunale del riesame ha fatto buon governo delle regole e del quadro di principii da questa Suprema Corte elaborato (Sez. 6, n. 47080 del 24 ottobre 2013, dep. 26 novembre 2013, Rv. 257709; Sez. 1, n. 3392 del 16 luglio 1993, dep. 23 settembre 1993, Rv. 195180; Sez. 1, n. 2380 del 25 settembre 1985, dep. 19 novembre 1985, Rv. 171098), allorquando ha stabilito che, ai fini del sequestro funzionale alla confisca dei beni di un'azienda di fatto amministrata da un soggetto indagato del delitto di partecipazione ad un'associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare l'esistenza di una correlazione tra i cespiti e l'ipotizzata attività illecita del soggetto agente.

Un criterio direttivo, quello or ora menzionato, che l'impugnata ordinanza ha mostrato di apprezzare alla stregua di una valutazione coerentemente e linearmente esposta in punto di fatto, e come tale immune da possibili censure in questa sede formulabili, attraverso la congrua indicazione della presenza di concreti e significativi elementi di collegamento fra la gestione dell'azienda assoggettata al vincolo cautelare reale e l'ipotizzata appartenenza degli indagati ad un sodalizio criminale di stampo "'ndranghetistico".

Nella nozione di disponibilità dei beni da parte dell'indagato, invero, si fa comunemente rientrare la sussistenza di una relazione effettuale con essi, in quanto tale connotata dall'esercizio di poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Sez. 2, n. 22153 del 22 febbraio 2013, dep. 23 maggio 2013, Rv. 255950).

Ne consegue, pertanto, che ai fini del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente ben possono rilevare tutte quelle situazioni, giuridiche o di fatto, nelle quali i beni stessi ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi (arg. ex Sez. 3, n. 15210 dell'8 marzo 2012, dep. 20 aprile 2012, Rv. 252378).

Al riguardo, inoltre, giova richiamare, per l'affinità dell'epilogo decisorio, la sostanza della linea interpretativa già tracciata da questa Suprema Corte (Sez. 5, n. 13276 del 24 gennaio 2011, dep. 30 marzo 2011, Rv. 249838), allorquando ha avuto modo di affermare, sia pure in relazione alla diversa ipotesi della confisca di cui all'art. 11 della l. n. 146/2006 e del sequestro preventivo ad essa direttamente funzionale, che sono assoggettabili al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente beni rientranti nella disponibilità dell'indagato, ancorché conferiti in trust, che l'indagato trustee continui ad amministrare conservandone la piena disponibilità.

Si è infatti osservato, sul punto, che il trust, tipico istituto di diritto inglese, si concreta nell'affidamento ad un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale "proprietario" (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente.

Presupposto coessenziale alla stessa natura dell'istituto è che il disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l'effetto segregativo che gli è proprio.

Nell'ipotesi or ora menzionata si è avuto modo di precisare che quella situazione di mera apparenza, che sul versante civilistico sarebbe causa di radicale nullità, era stata argomentatamente ritenuta dal giudice della cautela, per inferire che, al di là delle forme, l'imputato, trustee egli stesso, continuava ad amministrare i beni, conservandone la piena disponibilità. Di tal ché, la costituzione in trust aveva rappresentato un mero espediente per creare un diaframma tra il patrimonio personale e la proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie dei terzi, ivi comprese quelle erariali.

7. Nel caso in esame, l'atto di costituzione del trust ha previsto un espresso richiamo all'applicazione delle disposizioni della Convenzione de L'Aya del 10 luglio 1985 - ratificata nel nostro ordinamento in forza della l. 16 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore il 1° gennaio 1992 - ed ha impresso formalmente una precisa finalità all'atto di destinazione, laddove ha stabilito che i disponenti, ossia i predetti Tripodi Demetrio e Tripodi Giovanni, hanno inteso spogliarsi delle rispettive partecipazioni nella società in modo che un soggetto indipendente le gestisca in piena autonomia, prevenendo "il ripetersi di circostanze che possano fare sospettare l'esistenza del pericolo di infiltrazioni mafiose, destinando la partecipazione o il ricavato della sua alienazione, al termine del rapporto, ai discendenti dei disponenti e ad altri membri della famiglia Tripodi".

Finalità, questa, la cui previsione appare, sulla base delle su indicate emergenze indiziarie (v., supra, il par. 5), non lecitamente connotata e sostanzialmente frustrata, dunque, dalla valutazione di non meritevolezza della tutela degli interessi che l'atto di destinazione intende realizzare, ove si consideri che il requisito della meritevolezza dello scopo non rappresenta solo un motivo di opponibilità del vincolo in tal modo costituito, ma anche un elemento di validità della destinazione, trovando la sua giustificazione proprio nel fatto che tale forma negoziale sottrae beni dal patrimonio del disponente e, dunque, dall'area della garanzia generica dei creditori ex art. 2740 c.c.

Incidendo negativamente su tale sfera, è necessario che siffatto modello negoziale persegua fini socialmente utili al punto tale da giustificare la conseguenza dell'eccezionale compressione dei diritti dei creditori.

Il fenomeno della destinazione, infatti, per sua natura comporta, sul versante civilistico, che il patrimonio separato diventi insensibile alle vicende personali del soggetto cui formalmente appartiene, atteso che i beni oggetto del vincolo sono sottratti alla garanzia patrimoniale generica incombente sull'intestatario di tali beni.

La funzione destinatoria, invero, deve costituire la legittima espressione dell'esercizio di un potere dispositivo di cui il cd. negozio di destinazione costituisce l'atto programmatico iniziale, con la conseguenza che siffatto potere ordinante, nel conformare l'uso del bene, non si esaurisce nel solo momento programmatico, ma si articola attraverso un procedimento attuativo che, pur diversamente graduabile a seconda delle concrete vicende negoziali, deve comunque rendere effettiva e rilevante la destinazione anche nei confronti dei terzi. La destinazione, infatti, quale indice essenziale del collegamento fra patrimonio ed attività, costituisce, in generale, una tecnica di funzionalizzazione dei beni ed acquista oggettività quando è attuata in fatto, ossia attraverso la manifestazione di una concreta attività che ne realizzi il vincolo.

Dal provvedimento impugnato, di contro, è emersa con evidenza una serie di dati sintomatici (segnatamente rivelati, in difetto di specifici elementi fattuali di segno contrario, dalla coincidenza fra beneficiari e disponenti del trust, dalla comunanza di interessi economici con società riconducibili al precedente amministratore unico della FRA.VE.SA., dalla continuità del controllo attraverso lo schermo di un rapporto lavorativo e dalla presenza dello stesso Giovanni Tripodi (cl. 1971) fra i beneficiari dell'atto), il cui globale vaglio delibativo ha motivatamente indotto il Tribunale a ricavare la presenza di un persistente collegamento fra il trust in tal guisa costituito e gli originari disponenti e titolari della Società che in esso risulta esser stata conferita.

Deve dunque affermarsi il principio secondo cui sono assoggettabili al sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all'art. 416-bis, comma 7, c.p., partecipazioni a società trasferite in un trust, quando sussistono elementi indiziari sintomatici di una correlazione tra l'oggetto di tale atto di destinazione e l'ipotizzata attività illecita, che consentono di ritenere fittizia l'operazione negoziale in ragione della persistente disponibilità dei beni in capo ai precedenti amministratori della società.

In definitiva, a fronte di un congruo ed esaustivo apprezzamento delle emergenze procedimentali, esposto attraverso un insieme di sequenze motivazionali chiare e prive di vizi logici, il ricorrente non ha individuato passaggi o punti della decisione tali da inficiare la complessiva tenuta del discorso argomentativo delineato dal Tribunale, ma vi ha sostanzialmente contrapposto una lettura alternativa delle risultanze processuali, facendo leva sull'apprezzamento di profili di merito già puntualmente vagliati in sede di riesame, la cui "rilettura", evidentemente, non è sottoponibile al giudizio di questa Suprema Corte.

8. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 27 maggio 2014.