Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 15 maggio 2014, n. 28009

RITENUTO IN FATTO

1. È impugnata l'ordinanza del 9 gennaio 2014 con la quale il Tribunale di Torino, in funzione di giudice del riesame, ha confermato il provvedimento restrittivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, in data 5 dicembre 2013, nei confronti di Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Mattia Zanotti e Chiara Zenobi.

1.1. Il provvedimento cautelare si riferisce all'attacco recato da oltre venti persone, poco prima dell'alba del 14 maggio 2013, al cantiere del cd. cunicolo di Chiomonte, aperto nell'ambito delle opere concernenti la linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione.

Il cantiere era stato attaccato da più lati simultaneamente, con il lancio di fuochi pirotecnici, bombe carta e bottiglie con liquido infiammabile. Uno dei gruppi, in particolare, era entrato nel cantiere previa effrazione di un cancello, lanciando una quindicina di bottiglie incendiarie. Aveva preso fuoco, di conseguenza, un compressore collocato nel piazzale antistante al tunnel, nel cui interno, al momento dei fatti, stavano lavoravano oltre dieci operai del turno di notte, raggiunti dai fumi tossici causati dall'incendio.

Gli assalitori si erano poi allontanati, lasciando sul posto un mortaio artigianale per il lancio di razzi ed ulteriori bottiglie incendiarie.

1.2. In relazione ai fatti indicati, sono state elevate contestazioni cautelari relativamente ai delitti seguenti:

a) Attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280, commi 1 e 3, c.p.) e atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (art. 280-bis, commi 1, 2 e 4, c.p.), aggravati ex art. 112, comma 1, numero 1, c.p.

b) Distrazione o sottrazione di armi ed esplosivi (artt. 21 e 29 della legge n. 110/1975), aggravati a norma degli artt. 61, numero 2, e 112, comma 1, numero 1, c.p.

c) Fabbricazione, detenzione e porto di armi (artt. 1, 4 e 7 della legge n. 895/1967), aggravati a norma degli artt. 61, numero 2, e 112, comma 1, numero 1, c.p.

e) Violenza o minaccia a pubblico ufficiale, pluriaggravate (artt. 336, comma 1, e 339, commi 1, 2 e 3, c.p.).

1.3. Le ipotesi di identificazione che sottendono alle contestazioni cautelari sono state formulate a partire dalla individuazione di una serie di utenze telefoniche cellulari, in parte almeno attivate spendendo false generalità, ed utilizzate in via quasi esclusiva nel corso dell'azione. Una di tali utenze era oggetto di intercettazione, ad opera della polizia giudiziaria bolognese, nel momento in cui era stata usata per comunicazioni pertinenti all'assalto di Chiomonte. La conseguente verifica sulla sequela dei contatti intrattenuti ha poi condotto ad identificare ulteriori linee telefoniche, con una progressiva (per quanto parziale) emersione di notizie sulle persone coinvolte nell'attacco.

Le voci degli odierni ricorrenti sono state dapprima riconosciute da funzionari di polizia, e poi identificate a mezzo di perizie foniche, condotte ponendo in comparazione le voci registrate e le tracce lasciate dagli indagati nel corso di conversazioni tenute con le proprie utenze personali, sottoposte ad intercettazione anche per questo specifico fine.

Si sono infine raccolti, con ulteriori indagini, elementi di prova ritenuti confermativi.

2. Dopo una analitica esposizione delle questioni poste con i ricorsi per riesame e nell'ambito della conseguente udienza, il Tribunale ha illustrato le ragioni che l'hanno indotto a disattendere le prospettazioni difensive. Gran parte delle indicate questioni vengono riproposte con gli odierni ricorsi, e conviene dunque anticipare una sintesi delle relative decisioni.

2.1. Infondata l'eccezione di nullità dell'ordinanza cautelare per difetto di motivazione, ancorché il provvedimento sia largamente basato sulla citazione di testi predisposti dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero, poiché non manca una valutazione critica delle risultanze da parte del Giudice.

2.2. Infondate le questioni poste riguardo alla motivazione del decreto di convalida dell'intercettazione disposta in via d'urgenza a Bologna per l'utenza cui sopra si faceva riferimento. Il decreto è motivato per relationem con riguardo ad una annotazione di polizia giudiziaria. La Difesa di Zanotti ha chiesto una copia di tale annotazione, che non sarebbe stata rilasciata in tempo utile. Secondo il Tribunale, la richiesta in questione sarebbe stata proposta tardivamente. D'altro canto, farebbe capo alle parti l'onere di provare i fatti processuali dai quali dovrebbe essere dedotta, anche di ufficio, una conseguenza in punto di utilizzabilità della prova.

2.3. Infondata una questione relativa alla mancata trasmissione di tabulati concernenti posizione e contatti degli apparecchi telefonici già sopra citati. I tabulati sarebbero stati posti a disposizione delle difese su supporto digitale, e comunque trascritti negli atti di polizia.

2.4. Infondate le questioni concernenti intercettazioni effettuate nei confronti di Zanotti e Zenobi, anche in quanto le stesse rileverebbero solo per l'acquisizione dell'impronta vocale degli utenti a fini di comparazione. In ogni caso, le voci degli indagati, come registrate sulle utenze oggetto di indagini, sarebbero state direttamente riconosciute da funzionari di polizia giudiziaria.

3. A proposito dei gravi indizi di colpevolezza per i delitti in contestazione, il Tribunale osserva, in sintesi, quanto segue.

3.1. La gran parte delle bottiglie incendiarie era stata deliberatamente lanciata nel piazzale antistante al tunnel di Chiomonte, senza che gli autori dell'assalto potessero vederlo, data l'esistenza di un'alta recinzione. Le bottiglie avevano provocato, anche per l'incendio di alcuni oggetti, un fumo acre, che aveva costretto alla fuga, con qualche difficoltà, gli operai presenti nel tunnel. La presenza di maestranze nella zona prescelta era senz'altro nota agli agenti. Dunque sussiste l'idoneità della condotta a porre in pericolo la vita o l'incolumità personale dei lavoratori e degli operatori di polizia, e sarebbe adeguatamente provata la consapevolezza, in proposito, da parte dei responsabili dell'assalto.

La finalità di terrorismo è desumibile tra l'altro dal contesto dell'azione (cioè dal complesso delle attività di contrasto alla realizzazione della linea ferroviaria), il cui apprezzamento, sebbene i numerosi episodi consimili non siano addebitabili agli indagati, è legittimato dal disposto dell'art. 270-sexies c.p. Rilevano inoltre la complessità dell'azione e dei preparativi, ed il ricorso ad armi con potenzialità micidiali.

Il fine, considerato pacifico, di impedire o ritardare l'avanzamento dei lavori si risolve sul piano obiettivo - secondo il Tribunale - nella potenziale causazione di un grave danno per il Paese, anche alla luce delle sollecitazioni provenienti dalle Istituzioni europee in rapporto ai ritardi nella progressione dell'opera ed alle conseguenze che potrebbero sortirne quanto ai finanziamenti dell'Unione europea.

Vi sono comunque anche danni attuali, di immagine per l'Italia e di carattere economico, connessi questi ultimi alle spese sostenute dallo Stato per la garanzia dell'ordine pubblico.

3.2. Relativamente alle ulteriori contestazioni il Tribunale rileva tra l'altro come sia ammessa comunemente la considerazione delle cd. bottiglie molotov quali armi da guerra, e come i razzi utilizzati nella specie, alla luce delle consulenze effettuate, vadano qualificati come materie esplodenti micidiali, data l'elevata potenzialità.

Il reato di violenza verso i pubblici ufficiali è integrato per l'azione mirata ad impedirne od ostacolarne l'uscita dal cantiere e dunque ad evitare il dovuto contrasto all'azione di assalto.

4. In punto di esigenze cautelari, il Tribunale evidenzia il segnale di pericolosità promanante dai fatti, attuati con modalità paramilitari, certamente preceduti da approfondite ricognizioni, e realizzati mediante una complessa organizzazione logistica, comprendente l'acquisizione di telefoni ed automobili. Tale segnale sarebbe nei casi di specie così univoco da rendere ininfluente finanche la presunzione di ricorrenza delle esigenze cautelari connessa alla qualificazione giuridica dei fatti (su questa base il Tribunale ha stimato irrilevante una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Difesa in relazione al comma 3 dell'art. 275 c.p.p.).

5. Un primo e diffuso ricorso, articolato in otto motivi o gruppi di motivi, è stato proposto dal Difensore, avv. Claudio Novaro, nell'interesse di tutti i quattro ricorrenti.

5.1. Si deducono anzitutto vizio di motivazione e violazione di legge - a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. - in relazione agli artt. 280 e 280-bis c.p.

5.1.1. Le censure difensive muovono dalla lettura della definizione normativa di reato commesso per finalità di terrorismo (art. 270-sexies c.p.), con particolare riferimento alla rilevanza del «contesto» per la loro valutazione, ed alla nozione di grave danno per il Paese.

Nella prima prospettiva, i Giudici della cautela avrebbero dato ampio spazio ad un lungo elenco di attentati ed atti di sabotaggio che hanno complessivamente riguardato l'opera TAV, in ciò commettendo un grave errore di merito, non potendosi attribuire agli indagati alcuna responsabilità diretta od indiretta per eventi cui non sono collegati da alcun elemento di prova, e che in generale sarebbero stati indebitamente accorpati, dipendendo invece dalle più varie contingenze. Secondo il Difensore, il «contesto» cui si riferisce la norma in esame può essere solo quello direttamente connesso all'azione dell'agente. Correlativamente, l'idoneità a provocare un danno grave al Paese dovrebbe essere misurata in rapporto all'azione indicata, e non ad una pletora di avvenimenti eterogenei sparsa lungo l'arco di molti anni. In proposito, l'ordinanza impugnata sarebbe priva di qualsiasi motivazione.

La stessa ordinanza andrebbe poi censurata anche per l'identificazione del danno potenzialmente recato dall'azione degli assalitori. Il danno all'immagine è apprezzato dal Tribunale, ancora una volta, in base alla resistenza complessivamente opposta all'opera, mentre avrebbe dovuto spiegarsi in che modo il brevissimo ritardo dei lavori procurato dai fatti di causa avrebbe potuto pregiudicare i rapporti tra l'Italia e l'Unione europea. Un pregiudizio, per altro verso, che sarebbe stato desunto dalle dichiarazioni di un singolo Commissario, in un contesto ove la stessa Francia avrebbe degradato il livello di priorità dell'opera. Non una parola, inoltre, vi sarebbe nel provvedimento impugnato sul connotato di gravità del danno.

Più radicalmente, la rilevanza conferita ad un danno di immagine contrasterebbe con la qualità degli eventi e dei beni giuridici cui si riferisce la decisione del Consiglio 2002/475/GAI del 13 giugno 2002 sulla lotta contro il terrorismo, che costituisce la matrice della legislazione nazionale in considerazione.

Sarebbe infine illogico addebitare agli odierni ricorrenti il costo complessivamente sostenuto dallo Stato per assicurare l'ordine pubblico in relazione al compimento dell'opera di cui si tratta.

5.1.2. Anche in punto di dolo, a parere della Difesa, il Tribunale avrebbe addossato ai singoli responsabili dell'episodio in contestazione una dinamica semmai riferibile al complesso dei movimenti e delle azioni che si oppongono alla realizzazione della linea ferroviaria. D'altra parte - questo pare il concetto espresso - agli oppositori schierati sulla stessa linea dei ricorrenti non interessa esercitare pressione sulle istituzioni, così come sostiene l'accusa, ma solo ostacolare la progressione dei lavori, come si ricaverebbe da varie ed ampiamente citate pubblicazioni interne al «movimento». La conclusione del Tribunale sarebbe dunque contraddetta dalle fonti di prova.

Ancora in punto di dolo, la Difesa sostiene che il finalismo della condotta verso un effetto di costrizione dell'autorità pubblica a sospendere la realizzazione dell'opera dovrebbe essere apprezzato non solo in una dimensione psicologica, ma anche sul piano della potenzialità obiettiva di realizzazione dell'evento, come la giurisprudenza più avvertita avrebbe chiarito a proposito della finalità di terrorismo, in applicazione del principio di necessaria offensività. Il diverso approccio del Tribunale, oltreché la corrispondente violazione di legge, avrebbe implicato carenza assoluta di motivazione circa le potenzialità dell'episodio in contestazione rispetto all'evento posto sullo sfondo della fattispecie.

Sarebbe erronea, inoltre, una lettura dell'art. 270-sexies che prescinda, come quella dei Giudici della cautela, dalla necessità che l'agente persegua anche un obiettivo di intimidazione riguardo alla collettività dei consociati, oltre che un fine di causazione del danno o di costrizione nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni. La finalità di provocare un generalizzato effetto di intimidazione farebbe nella specie completamente difetto e, comunque, non sarebbe stata neppure evocata dai provvedimenti in considerazione.

5.1.3. Infine, dopo diffuse considerazioni sulla struttura materiale dei delitti di attentato, volta ad evidenziarne la necessaria assimilazione al tentativo in base ai principi di tassatività ed offensività, il Difensore dei ricorrenti assume l'incompatibilità delle relative previsioni con l'ipotesi del dolo eventuale, che invece, e comunque in modo sommario, il Tribunale avrebbe riferito al ricorrenti.

5.2. Vengono ulteriormente dedotti, in relazione alle lett. c) ed e) del comma 1 dell'art. 606 c.p.p., vizi di motivazione e violazione della legge processuale (art. 270, comma 1, c.p.p.), relativamente ai fatti contestati al capo E della rubrica.

Le intercettazioni disposte a Bologna, pertinenti ad un procedimento diverso da quello presente, sarebbero inutilizzabili a fini di accertamento dei fatti indicati, per i quali non vi sarebbe previsione di arresto obbligatorio in flagranza. Sarebbero quindi inutilizzabili le consulenze foniche attuate a partire dalle relative registrazioni, con conseguente annullamento del quadro indiziario pertinente alla contestazione.

La risposta del Tribunale - secondo cui le intercettazioni sono utilizzabili quanto al reato sub A, dalla cui commissione si desumerebbe la consumazione concomitante di quello sub E - realizzerebbe una indebita elusione del divieto normativo.

5.3. Il provvedimento impugnato viene censurato, ex art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., per violazione della legge processuale, in relazione all'art. 273 c.p.p.

La Difesa aveva puntualmente eccepito l'omessa trasmissione al Tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni disposte a carico di Chiara Zenobi, dalle quali sono state ricavate tracce foniche utili per la comparazione. Il Tribunale ha superato la questione in base all'assicurazione, resa in udienza dal pubblico ministero, che le intercettazioni erano state autorizzate. In realtà l'omessa trasmissione comporterebbe l'inutilizzabilità delle risultanze acquisite, con la conseguenza che l'accusa sarebbe retta solo dai riconoscimenti operati dai funzionari di polizia, che il ricorrente considera da soli inadeguati a sostenere il quadro indiziario.

5.4. Vengono dedotte - in applicazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. - carenze di motivazione e violazioni di legge, in rapporto agli artt. 274 e 275 c.p.p., per quanto attiene alla sussistenza di esigenze cautelari ed alla ritenuta adeguatezza esclusiva della custodia in carcere.

Il Tribunale si sarebbe limitato ad un generico riferimento alla gravità dei fatti, senza distinguere il ruolo degli interessati e le notizie relative ai rispettivi precedenti, sottraendosi così al dovere di una valutazione puntuale ed argomentata della materia.

5.5. Con un motivo presentato, come tutti quelli seguenti, nell'interesse del solo indagato Zanotti, il Difensore denuncia - a mente delle lett. c) ed e) del comma 1 dell'art. 606 c.p.p. - vizio di motivazione e violazione di legge (artt. 267 e 271 c.p.p.) relativamente all'asserita inutilizzabilità delle intercettazioni disposte dalla Procura della Repubblica di Bologna.

Il relativo decreto di autorizzazione sarebbe motivato mediante il rinvio al contenuto di una annotazione di polizia, della quale la Difesa avrebbe richiesto copia, senza ottenerla. Dunque le intercettazioni non potrebbero considerarsi attuate ritualmente. Né potrebbe replicarsi, come invece ha fatto il Tribunale, che la Difesa di Zanotti non avrebbe interesse a far valere il vizio, dato che non sarebbe stato tale indagato ad utilizzare l'utenza attivata con false generalità: proprio il provvedimento impugnato evidenzia come l'intercettazione dell'utenza in discorso abbia rappresentato «l'evento investigativo» per il primo accesso all'intera serie delle informazioni sulle quali si fonda il provvedimento restrittivo.

Quanto al presunto carattere tardivo della richiesta di copie indirizzata alla Procura bolognese, rileva il ricorrente che detta richiesta era stata inviata nel giorno stesso della fissazione dell'udienza per il riesame, e dunque della possibilità di accesso difensivo agli atti.

5.6. Ancora si lamentano nell'interesse di Zanotti, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c) ed e), c.p.p., vizio di motivazione e violazione di legge in rapporto all'utilizzazione delle risultanze acquisite mediante l'intercettazione dell'utenza in uso allo stesso Zanotti.

Il decreto autorizzativo posto a disposizione degli indagati, rilasciato dall'autorità giudiziaria torinese, sarebbe talmente coperto da «omissis» da risultare incomprensibile nella relativa motivazione, e dunque sostanzialmente immotivato.

5.7. Eliminate le intercettazioni appena indicate dal compendio cognitivo, il quadro indiziario a carico di Zanotti sarebbe composto solo dall'affermazione di un funzionario di polizia milanese, che avrebbe riconosciuto per quella dell'indagato una delle voci intercettate su iniziativa degli inquirenti bolognesi. Si tratterebbe di un atto atipico, sulla cui attendibilità non sarebbe stato speso alcun commento, ed al quale non potrebbero riferirsi i rilievi sulla pregressa conoscenza tra funzionari di polizia ed indagati, che riguarda solo l'ambiente torinese e, comunque, non la persona di Zanotti. Dunque la motivazione del Tribunale sarebbe alternativamente illogica o mancante (art. 606, comma 1, lett. e), in rapporto all'art. 273 c.p.p.).

5.8. Erroneamente il Tribunale avrebbe rifiutato di dichiarare l'inefficacia della misura emessa nei confronti di Zanotti a norma dell'art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., sul presupposto che il contenuto dei tabulati telefonici, non trasmessi al Giudice del riesame, è stato trasfuso in alcune annotazioni di polizia.

Vi sarebbe violazione di legge, poiché la difesa ha interesse a consultare i documenti originali e non la riproduzione del loro contenuto, e sarebbe illogica la replica opposta ai rilievi già formulati innanzi al Tribunale, secondo cui la stessa difesa non avrebbe ipotizzato difformità fra le trascrizioni di polizia ed i dati trasmessi dal gestore di telefonia: nessuna difformità avrebbe potuto essere riscontrata proprio per l'indisponibilità dei tabulati originari.

6. Nell'interesse di Chiara Zenobi, il Difensore avv. Giuseppe Pelazza ha presentato un secondo ricorso, articolato per motivi e punti che possono essere illustrati sinteticamente, anche perché corrispondenti, in parte, a quelli già presi in considerazione.

6.1. L'ordinanza cautelare sarebbe nulla, ai sensi dell'art. 292, commi 2 e 2-bis, c.p.p., in quanto sostanzialmente immotivata. Per 143 delle sue 158 pagine, il documento sarebbe costituito dalla riproduzione di atti e richieste della polizia giudiziaria e del pubblico ministero. Solo metà di una delle pagine successive sarebbe destinata a illustrare le valutazioni del Giudice, ma si tratterebbe di una serie di clausole di stile, inidonea a dimostrare che lo stesso Giudice abbia apprezzato personalmente, e valutato criticamente, le risultanze acquisite.

6.2. Sono denunciati vizi di motivazione, e violazioni degli artt. 42, 43 e 280 c.p., in relazione alla sussistenza del dolo punibile per il delitto di cui al capo A. Lo stesso Tribunale avrebbe escluso che gli agenti avessero deliberatamente operato per colpire le persone, dato che non potevano vedere il luogo in cui lanciavano i propri ordigni. Vi sarebbe inoltre un equivoco sull'oggetto del dolo, che non deve riferirsi all'idoneità offensiva dell'azione, quanto piuttosto, e direttamente, alla produzione di un evento di morte o lesioni personali.

6.3. Si prospetta, ancora, la violazione degli artt. 280 e 270-sexies c.p., anche in relazione ai principi di offensività e personalità della responsabilità penale, in rapporto all'identificazione di finalità terroristiche per i fatti in contestazione. Ciò in ragione di molteplici considerazioni.

La finalità di terrorismo non sarebbe un dato solo psichico, e richiederebbe invece una concreta idoneità della condotta all'offesa del bene giuridico. Nel caso di specie il Tribunale avrebbe valorizzato il «contesto» apprezzando fatti e circostanze non riconducibili all'indagata.

Non sarebbe stato comunque arrecato un «grave danno al Paese», che i Giudici della cautela identificano nel ritardo del completamento dell'opera TAV, già verificato all'epoca dei fatti e comunque non certo dipendente da essi: considerazione, quest'ultima, che il Difensore estende all'indotta necessità di costosi presidi per l'ordine pubblico.

Neppure potrebbe configurarsi una pressione sull'autorità pubblica al fine di costringerla ad omettere adempimenti connessi ai suoi compiti istituzionali, poiché gli agenti avrebbero operato per impedire la prosecuzione dei lavori, e non per «convincere» l'autorità a sospenderli. Comunque, nella loro azione farebbe difetto quel requisito di idoneità alla costrizione che, per il principio di offensività, dovrebbe essere dimostrato anche riguardo ad un delitto di attentato.

Mancherebbe infine nei fatti in esame quella volontà di spargere indiscriminatamente terrore che sarebbe componente necessaria del finalismo richiesto per l'integrazione della fattispecie.

7. In esordio dell'odierna udienza camerale, la Difesa degli incolpati ha provveduto al deposito di due memorie, volte ad illustrare e chiarire ulteriormente le doglianze proposte con i ricorsi.

7.1. L'avv. Novaro in particolare, nell'interesse di tutti i ricorrenti, ha prospettato contraddizioni e travisamenti che segnerebbero l'ordinanza impugnata circa la dinamica dei fatti, procedendo in seguito ad alcune osservazioni in punto di diritto.

7.1.1. Il Tribunale ha affermato, in apertura del proprio provvedimento, che gli assalitori avrebbero lanciato circa quindici bottiglie incendiarie «verso le forze dell'ordine, gli operai e i mezzi presenti». In realtà testimonianze e rilievi tecnici documenterebbero che le bottiglie (dodici in tutto, di cui due inesplose) erano state lanciate verso il compressore, e non contro gli agenti della forza pubblica (al momento impegnati altrove) e gli operai (che si trovavano all'interno del cunicolo). Ma l'errore più grande il Tribunale l'avrebbe compiuto affermando che gli assalitori avrebbero gettato gli ordigni senza vedere il sito di destinazione, mentre da altro passaggio della motivazione (e comunque, secondo il Difensore, dagli atti di causa) si desumerebbe che gli stessi assalitori vedevano benissimo il piazzale, e sarebbe chiaro, di conseguenza, che non intendevano attentare alla vita od all'incolumità delle persone, ma semplicemente danneggiare del materiale (così come del resto si potrebbe evincere dalle pubblicazioni «vicine» all'area cui farebbero capo gli indagati).

Un episodio insomma marginale, asseritamente inidoneo a provocare grave danno per il Paese, e comunque non finalizzato ad esercitare pressioni sul potere pubblico, quanto piuttosto ad ostacolarne l'azione.

7.1.2. Il Difensore prosegue mettendo in evidenza il deficit di tassatività che segna l'art. 270-sexies c.p., ed evoca varie fonti del diritto convenzionale e sovranazionale, allo scopo essenziale di mettere in luce che il concetto giuridico di terrorismo (il quale non può distaccarsi dalla sua percezione sociale) atterrebbe comunque a fatti di grave portata offensiva per i beni essenziali della vita, tanto da essere contrassegnato e definito come «un grave attentato al diritti dell'uomo». Si vuole in sostanza mettere in luce una sorta di inadeguatezza per difetto tra il fatto in contestazione rispetto alla nozione di terrorismo.

7.2. La memoria depositata dall'avv. Giuseppe Pelazza ha lo scopo essenziale di chiarire quanto in effetti emergeva dal tessuto argomentativo del ricorso prestato dallo stesso Difensore, e cioè che i riferimenti all'art. 280 c.p. devono intendersi estesi anche all'art. 280-bis dello stesso codice.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi difensivi sono fondati, nei termini e nei limiti che di seguito saranno precisati, solo con riguardo alle contestazioni che comprendono una finalità di terrorismo o di eversione tra gli elementi strutturali del fatto criminoso. Si tratta, per ragioni diverse, dei delitti previsti agli artt. 280 e 280-bis c.p. (capo A della rubrica) e delle norme in materia di armi contenute nella legge n. 110/1975 (capo B).

La Corte riscontra in particolare, nell'ordinanza impugnata, alcuni essenziali difetti di motivazione, che dovranno essere emendati, dal Giudice del rinvio, avuto riguardo alla configurazione effettiva degli elementi di fattispecie delineati dal legislatore.

Nel resto, invece, i ricorsi risultano infondati, e devono dunque essere respinti.

2. Vengono poste, anzitutto, numerose questioni processuali attinenti alla ritualità del procedimento di acquisizione della prova.

A tali questioni sono poi connessi, per la gran parte, rilievi che attengono alla correttezza del ragionamento probatorio condotto dai Giudici della cautela, ed alla congruenza della relativa motivazione.

Va premesso come entrambi i ricorsi risultino scarsamente compatibili, in proposito, con il principio di autosufficienza che sempre più nettamente si afferma nella giurisprudenza di questa Corte, e che trova il proprio fondamento normativo nella regola di specificità dei motivi che ciascuna parte processuale deve porre a sostegno della propria impugnazione.

Tale regola, che asseconda un governo razionale delle risorse disponibili per l'esercizio della giurisdizione di legittimità, impone che il ricorrente ponga in immediata e specifica evidenza gli atti intorno ai quali chiede si sviluppi il dibattito processuale. L'accesso della Cassazione al fascicolo di causa, certamente ammesso a fini di verifica dei fatti processuali, è consentito, dopo la nota riforma dell'art. 606 c.p.p., anche per forme determinate di controllo in punto di motivazione, ma non a caso concerne «atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame».

Da un punto di vista generale, «non compete alla Corte di cassazione, in mancanza di specifiche deduzioni, verificare se esistano cause di inutilizzabilità o di invalidità di atti del procedimento che non appaiano manifeste, in quanto implichino la ricerca di evidenze processuali o di dati fattuali che è onere della parte interessata rappresentare adeguatamente» (Sez. Un., Sentenza n. 39061 del 16 luglio 2009, De Iorio, rv. 244328). Inoltre, «è onere della parte che eccepisce l'inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l'inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì la incidenza sul complessivo compendio indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato» (Sez. Un., Sentenza n. 23868 del 23 aprile 2009, Fruci, rv. 243416).

Nel caso di specie, i Difensori hanno compiuto riferimenti ad atti (decreti autorizzativi di intercettazioni) o ad adempimenti processuali (richieste di copie, trasmissioni di atti) senza menzionarne i dati identificativi e la collocazione, e senza mai darne documentazione mediante copia allegata ai ricorsi o almeno attraverso un riferimento puntuale al fascicolo di causa. Tale circostanza non implica necessariamente incertezza sull'atto cui si riferiscono le questioni sollevate, ma gli oneri connessi di documentazione non potranno considerarsi assolti in tutti i casi che rilevano.

Anche di recente, e proprio con riguardo alla prospettata inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni telefoniche, la giurisprudenza di questa Corte è stata chiara: «è onere della parte, che lamenti l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, indicare specificamente l'atto asseritamente affetto dal vizio denunciato e curare che lo stesso sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, anche provvedendo a produrlo in copia nel giudizio per cassazione (Sez. 2, Sentenza n. 24925 dell'11 aprile 2013, rv. 256540).

2.1. Le osservazioni che precedono hanno rilievo già per la prima tra le questioni di inutilizzabilità poste con il ricorso predisposto dall'avv. Novaro, nell'interesse di Mattia Zanotti (§ 5.5. del Ritenuto in fatto): il vizio sussisterebbe per la intercettazione dell'utenza mobile 3271137169, autorizzata dall'Autorità giudiziaria di Bologna in un diverso procedimento, a quanto pare concernente condotte di narcotraffico (si tratta - come si ricorderà: § 1.3. del Ritenuto - del controllo nel quale casualmente si sarebbero imbattuti gli autori dell'assalto di Chiomonte).

Pur nell'assenza di qualunque ulteriore specificazione, può ritenersi che il ricorrente abbia inteso alludere al decreto autorizzativo per l'avvio del controllo sulla utenza indicata. Dalle sole affermazioni difensive, per altro, si apprende che il provvedimento (non allegato in copia né precisamente individuato neppure per collocazione) sarebbe motivato per relationem attraverso il rinvio ad una annotazione di polizia giudiziaria che non sarebbe presente in atti, e della quale il ricorrente non sarebbe riuscito ad ottenere una copia. Di qui l'affermazione di inutilizzabilità «perché la difesa non è stata messa nelle condizioni di valutare la legittimità del decreto».

Risulta evidente, in primo luogo, la sovrapposizione tra prospettive e procedure differenti. Il procedimento di riesame non è la sede esclusiva, e neppure quella primaria, per l'accesso difensivo agli atti, ivi compresi quelli necessari per verificare la legalità del procedimento di formazione della prova. Allo scopo è preposto infatti, ed anzitutto, l'adempimento prescritto dal comma 3 dell'art. 293 c.p.p., cioè il deposito nella cancelleria del giudice cautelare di tutti gli atti trasmessi dal pubblico ministero con la propria richiesta: deposito dal quale scaturisce com'è noto, e per effetto della sentenza n. 192/1997 della Corte costituzionale, il diritto del difensore ad ottenere copia degli atti medesimi. La difesa di Zanotti aveva la possibilità di accedere al decreto autorizzativo, quindi, fin dalle fasi immediatamente successive all'esecuzione del provvedimento cautelare poi impugnato per riesame. D'altra parte l'art. 309 c.p.p. limita il dovere di trasmissione degli atti, in favore del Tribunale dei riesame, al materiale documentale già presentato al Giudice della cautela.

Quanto poi al dato sostanziale dell'asserita assenza del provvedimento cui sarebbe ancorata la motivazione per relationem, che trova implicita conferma nella replica che il Tribunale ha inteso opporre all'eccezione difensiva, deve escludersi che lo stesso valga, di per sé, ad implicare l'inutilizzabilità della prova raccolta. Questa Corte ha infatti già osservato che, quando si discute di intercettazioni pertinenti ad un diverso procedimento (nel cui ambito primariamente si svolge il controllo sulla relativa legittimità), «la parte che ne eccepisce l'inutilizzabilità, per essere la relativa motivazione solo apparente, ha l'onere di produrre sia il decreto di autorizzazione sia il documento al quale esso rinvia, in modo da porre il giudice del procedimento ad quem in grado di verificare l'effettiva inesistenza, nel procedimento a quo, del controllo giurisdizionale prescritto dall'art. 15 Cost.» (così, da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 49970 del 19 ottobre 2012, rv. 254109, e varie conformi; l'orientamento si è affermato dopo il deliberato in tal senso delle Sezioni unite: Sentenza n. 45189 del 17 novembre 2004, Esposito, rv. 229246).

Certo, nella specie, il ricorrente assume d'essersi attivato al fine di adempiere all'onere di allegazione (o, per meglio dire, di provvedere ad un proprio controllo sulla motivazione del decreto autorizzativo). Tuttavia va confermata e condivisa - a parte ogni rilievo sull'omessa produzione del decreto autorizzativo - la notazione che al proposito si legge nel provvedimento impugnato. La Difesa non aveva alcuna necessità di attendere l'accesso agli atti trasmessi al Tribunale del riesame per constatare l'asserito ricorso del Giudice bolognese alla motivazione per relationem del provvedimento autorizzativo, posto che l'atto era già stato depositato ex art. 293 c.p.p., e che dunque la copia del rapporto richiamato avrebbe potuto essere più tempestivamente richiesta.

Una siffatta constatazione consente di accennare solo brevemente ad altri aspetti di indeterminatezza della censura (compreso il rilievo che il lungo tempo trascorso nelle more del giudizio di legittimità avrebbe certamente consentito di documentare, innanzi a questa Corte, i paventati vizi della motivazione del decreto). Una parte della giurisprudenza configura per la parte privata, in situazioni come quella in esame, l'onere di documentare l'omissione o il ritardo nel rilascio di una copia utile o necessaria a sviluppare una determinata censura, talvolta spingendosi ad esigere una certificazione dell'Ufficio richiesto (Sez. 2, Sentenza n. 43772 del 3 ottobre 2013, rv. 257304; Sez. 6, Sentenza n. 31440 del 24 aprile 2012 , rv. 253215; Sez. 1, Sentenza n. 18609 del 5 aprile 2011, rv. 250276). In verità appare preferibile un orientamento meno severo, che non giunga alla pretesa di una prova negativa, e che tuttavia non prescinda dalla necessità che la parte documenti la propria diligenza nella richiesta e nell'eventuale sollecitazione dell'adempimento ad opera dell'Ufficio giudiziario interessato (Sez. 6, Sentenza n. 29848 del 24 aprile 2012, rv. 253252; Sez. 6, Sentenza n. 46536 del 19 ottobre 2011, rv. 251276; Sez. 6, Sentenza n. 45984 del 10 ottobre 2011, rv. 251273; Sez. 6, Sentenza n. 38673 del 7 ottobre 2011, rv. 250848). Ne va della funzionalità dei giudizi impugnatori a definizione accelerata, e più in generale dei principi di specificità delle doglianze e di contemperamento tra le esigenze del controllo di legittimità e le caratteristiche del processo di parti.

Per tutte le ragioni indicate, ed a prescindere dalla sua ammissibilità, il motivo in questione risulta infondato, con conseguente necessità di rigetto del ricorso nella parte corrispondente.

2.2. È manifestamente infondato un ulteriore motivo di ricorso collegato alle intercettazioni bolognesi: l'atto di indagine sarebbe stato utilizzato per l'accertamento del delitto di resistenza pluriaggravata, di cui ai capo E della rubrica, fuori dai casi in cui l'art. 270, comma 1, consente il ricorso alle intercettazioni nell'ambito di un diverso procedimento (§ 5.2. del Ritenuto in fatto).

I limiti all'utilizzazione delle risultanze acquisite mediante intercettazione non derivano da una sorta di illegittimità del controllo (quando lo stesso sia regolarmente autorizzato), ma discendono dalla necessità che la violazione della riservatezza consegua alla previa individuazione di un grave e determinato fatto criminoso, e non possa dunque essere legittimata da «autorizzazioni in bianco», cioè scollegate dal presupposto legittimante (si vedano le sentenze della Corte costituzionale n. 34/1973, n. 366/1991 e n. 63/1994). Il regime delineato all'art. 270 c.p.p. è frutto del bilanciamento tra l'esigenza indicata e quella, pure costituzionalmente rilevante, di perseguire delitti gravissimi, lesivi in genere di diritti ed interessi di rango costituzionale.

È dunque impropria, oltreché segnata da assoluta genericità, l'evocazione di una sorta di inutilizzabilità consequenziale, legata alla logica dell'albero avvelenato, in forza della quale ogni elemento acquisito a partire da una intercettazione non direttamente utilizzabile dovrebbe essere escluso dal compendio cognitivo, pena la «elusione» del disposto dell'art. 270 c.p.p. È vero piuttosto il contrario, e cioè che, pur non risultando la notizia acquisita direttamente spendibile quale prova del fatto punito con pena edittale inferiore alle soglie indicate dalla norma (come, nella specie, il delitto di violenza e minaccia a pubblico ufficiale), restano perfettamente utilizzabili gli esiti di prove diverse, la cui ricerca sia stata consentita grazie alla informazione di cui si tratta.

È pacifico in giurisprudenza, ad esempio, che le acquisizioni provenienti da intercettazioni non utilizzabili ex art. 270 c.p.p. costituiscono, se del caso, notizia processualmente rilevante del reato in esse descritto (da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 19699 del 23 aprile 2010, rv. 247104).

Nella specie, oltretutto, l'intercettazione bolognese è stata direttamente utilizzata per l'accertamento di reati che lo consentivano (quelli contestati al capo A della rubrica), la cui sostanza nel caso concreto, sul piano materiale e su quello psicologico, vale da sola a tratteggiare il fatto concomitante di resistenza.

D'altra parte, la censura difensiva non va oltre l'implicita prospettazione di un presunto divieto di utilizzazione a fini investigativi, senza la minima indicazione circa le risultanze specificamente «invalidate» o sul peso che l'eliminazione delle informazioni direttamente acquisite tramite l'intercettazione bolognese eserciterebbe sulla ricostruzione dei fatti e, più ancora, delle specifiche responsabilità individuali.

Una censura, come si diceva, posta in modo inammissibile e comunque manifestamente infondata.

2.3. È generico, e dunque inaccoglibile, il motivo concernente l'asserita omissione sostanziale della motivazione per il decreto autorizzativo delle intercettazioni concernenti l'utenza telefonica in uso a Mattia Zanotti, omissione dalla quale dovrebbe derivare l'inutilizzabilità delle risultanze acquisite (§ 5.6 del Ritenuto in fatto). Si allude ad una omissione «sostanziale» in quanto la giustificazione del provvedimento non è assente, e sarebbe piuttosto non controllabile, perché amputata da cancellazioni molto rilevanti, adottate evidentemente al fine di tutelare dati ancora segreti nel momento della discovery connessa alla richiesta cautelare.

In effetti, stando al provvedimento impugnato, nel procedimento di riesame la Difesa aveva posto al riguardo una questione diversa, e cioè quella di un'asserita inefficacia della misura custodiale a norma dell'art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., in relazione evidentemente alla trasmissione solo «parziale» del documento originale. Tanto si osserva perché, com'è noto, le questioni concernenti l'inadeguatezza della motivazione dei decreti autorizzativi, quale causa di inutilizzabilità degli esiti di indagine, non può essere posta per la prima volta nel giudizio di legittimità (da ultimo, Sez. 5, Sentenza n. 39042 del 1° ottobre 2008, rv. 242319).

Ad ogni modo, e come si diceva, la censura è inaccoglibile per la sua genericità. Il Tribunale ha ricordato - e la Difesa non ha contestato - come sia comunemente ammessa, a fini di tutela del segreto investigativo, la presentazione al giudice cautelare, e conseguentemente al giudice del riesame, di atti processuali con parti rese illeggibili (da ultimo, tra le molte, Sez. 5, Sentenza n. 47080 del 26 ottobre 2011, rv. 251441). Il principio vale per documenti che veicolano informazioni sui fatti (verbali di dichiarazioni, rapporti di polizia) ma vale anche - e, potrebbe dirsi, a maggior ragione - per atti la cui funzione primaria è quella di documentare il ragionamento probatorio seguito dal giudice e l'osservanza, da parte di questi, del precetto di motivare determinati provvedimenti.

La difesa non ha allegato il decreto de quo, non ha indicato in quali parti il provvedimento sarebbe stato oscurato e quale sarebbe la funzione delle relative porzioni rispetto alle parti rimaste intellegibili, non ha spiegato perché queste ultime non sarebbero idonee a svolgere la propria funzione tipica, cioè quella di documentare che, prima di disporre una indagine invasiva della riservatezza, il Giudice avesse apprezzato la sussistenza delle condizioni legittimanti e ne avesse dato conto con una motivazione.

In tale situazione sarebbe superfluo l'approfondimento di questioni che pure dovrebbero essere risolte, prima di un ipotetico accoglimento della censura, come ad esempio la relazione che corre tra caratteristiche originarie ed ancora proprie del documento autorizzativo e caratteristiche della sua riproduzione, o ancora sulla peculiare utilizzazione che risulta compiuta degli esiti di indagine, che non concerne il contenuto delle comunicazioni ma solo la relativa traccia vocale.

2.4. Il ragionamento del Tribunale non può essere in tutto condiviso, invece, quanto ad una censura proposta nell'interesse di Chiara Zenobi, sempre a proposito delle intercettazioni telefoniche e della relativa utilizzazione: non risulta essere stato esibito il decreto autorizzativo del controllo attuato sull'utenza in uso all'imputata (§ 5.3. del Ritenuto in fatto).

All'eccezione si replica, nel provvedimento impugnato, con vari argomenti, il primo dei quali è che, nel caso di specie, il provvedimento autorizzativo può considerarsi esistente, data l'assicurazione espressa in tal senso dal Pubblico ministero nel corso dell'udienza camerale di riesame.

Ora, la documentazione degli atti e dei fatti processuali deve essere attuata secondo modalità tipiche, e l'affermazione di una parte - per quando si voglia considerare ragionevole l'aspettativa di comportamenti leali - può valere a legittimare ricerche ed eventuali rinvii, ma non a sostituire l'acquisizione di un documento, che del resto è prodromica ad un controllo sui relativi contenuti. Questa Corte ha già chiarito come l'omessa esibizione dei decreti (che non siano stati prodotti neppure con la richiesta di cautela) non comporti di per sé alcuna sanzione processuale (né la inutilizzabilità delle intercettazioni né alcuna forma di nullità), a meno che non vi sia una specifica e tempestiva richiesta di esibizione da parte della difesa, e che la stessa richiesta, cui può far seguito anche una iniziativa officiosa del giudice, sia rimasta senza esito. Nel qual caso le risultanze acquisite non dovrebbero essere utilizzate (Sez. 6, Sentenza n. 7521 del 24 gennaio 2013, rv. 254586; Sez. 3, Sentenza n. 42371 del 12 ottobre 2007, rv. 238059; Sez. 4, Sentenza n. 4207 dell'8 novembre 2005, rv. 233398; Sez. 1, Sentenza n. 800 del 29 settembre 2000, rv. 217615).

Nella specie, per vero, la parte sembra aver preteso l'applicazione «a prescindere» di una sanzione processuale, più che l'adempimento necessario ad un controllo di legittimità dell'indagine a carico della Zenobi. Ad ogni modo, non potrebbe reggere, se fosse la sola, la replica opposta dal Tribunale all'eccezione, fondata su una pretesa equivalenza tra acquisizione dell'atto e «assicurazione» orale della sua esistenza.

Va considerato per altro, a questo punto, che nel provvedimento impugnato vengono esaminate ed affermate giustificazioni alternative della decisione di non annullare, per i profili in questione, l'ordinanza applicativa della misura cautelare. È stata operata, cioè, la verifica di resistenza che il giudice deve compiere quando si prospetta, per effetto di una riscontrata inutilizzabilità, la riduzione della base cognitiva utile per la decisione, e tale verifica è stata chiusa con esito positivo.

Il Tribunale ha osservato, in particolare, che dalla intercettazione de qua è stata tratta solo una traccia fonica (evidentemente ipotizzando che la stessa resterebbe utilizzabile anche in caso di controllo illegittimo). Quel che più conta, il Tribunale ha espressamente affermato e motivato la convinzione che il quadro indiziario a carico della Zenobi resterebbe adeguato quand'anche si eliminasse l'esito della perizia fonica realizzata per comparare la voce dell'imputata con quella della persona che aveva utilizzato i cellulari coinvolti nell'assalto. Infatti, l'ipotesi investigativa iniziale era stata formulata anche sulla base di una diretta ricognizione vocale da parte dei funzionari di polizia, che, ascoltando le voci dei soggetti partecipanti all'assalto, avevano appunto riconosciuto quella della Zenobi, ben nota loro per la lunga «frequentazione» intercosa negli anni della contestazione alla linea TAV della Val Susa.

Si tratta di un giudizio in fatto, maturato attraverso una motivazione congrua ed in conformità ai principi che regolano la materia. È corrente in particolare l'affermazione, nella giurisprudenza di legittimità, che il riconoscimento vocale può costituire un grave indizio a carico dell'interessato, quando la testimonianza di chi l'abbia operato sia affidabile e sussistano le condizioni per renderlo attendibile (ad esempio, Sez. 1, Sentenza n. 35011 dell'8 maggio 2013, rv. 257209; Sez. 5, Sentenza n. 11921 del 27 ottobre 2004, rv. 231872; con riguardo particolare alla identificazione di una voce registrata nel corso di conversazioni telefoniche, da parte di un agente di polizia, si veda Sez. 2, Sentenza n. 47673 del 23 novembre 2004, rv. 229909). Il Tribunale ha fatto puntuale applicazione del principio, formulando un giudizio di attendibilità riguardo alle indicazioni dei funzionari ed indicando, pur sinteticamente, le ragioni di tale giudizio.

Il sindacato di questa Corte, in condizioni siffatte, deve notoriamente arrestarsi. Del resto le critiche difensive svolte nel ricorso, a questo proposito, sono del tutto generiche, e dunque per se stesse inidonee a legittimare l'invocato annullamento dell'ordinanza.

Il ricorrente ammette per implicito che l'ipotetica eliminazione della perizia fonica dal compendio cognitivo non comporterebbe l'annullamento o l'inefficacia della misura in atto, ma una mera verifica di tenuta del quadro indiziario (ex multis, Sez. Un., Sentenza n. 23868 del 2009, Fruci, già citata). Si limita però ad affermare che, del quadro in questione, residuerebbe «un po' poco», riferendosi alle ricognizioni vocali degli operanti. Senza alcuna articolazione del giudizio, senza alcuna analisi del rapporto tra la ricognizione ed il complessivo quadro degli elementi di prova raccolti dagli inquirenti ed apprezzati dai Giudici della cautela. Una censura generica, quindi, e come tale comunque inaccoglibile.

2.5. Del tutto infondato è l'assunto che la misura applicata nei confronti di Mattia Zanotti avrebbe dovuto essere dichiarata inefficace - a norma dell'art. 309, commi 5 e 10, c.p.p. - per l'omessa trasmissione al Tribunale dei tabulati che documentano i contatti tra la più volte citata utenza «bolognese» ed ulteriori apparecchi telefonici.

La censura appare in primo luogo priva del proprio presupposto in fatto. Nel provvedimento impugnato si attesta la presenza in atti di supporti digitali, liberamente accessibili, nei quali compare l'immagine dei tabulati in questione.

D'altra parte, il Tribunale richiama un pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, che valorizza - nella prospettiva della completa comunicazione degli atti sottoposti al giudice cautelare in vista del riesame - la rappresentazione dei contenuti, e non la materiale trasmissione del relativo supporto (può richiamarsi, ad esempio, l'orientamento che esclude la sanzione processuale con riferimento ad atti integralmente trascritti nel provvedimento restrittivo: Sez. 5, Sentenza n. 42150 del 15 luglio 2011, rv. 251696; Sez. 2, Sentenza n. 21333 del 25 maggio 2005, rv. 231619; Sez. 1, Sentenza n. 2047 del 7 aprile 1998, rv. 210783).

È acquisito ed incontestato che le risultanze dei tabulati in questione sono state riportate in vari rapporti della polizia giudiziaria, compreso quello conclusivo. Dunque, le condizioni prescritte dall'art. 309 in punto di comunicazione degli atti risultano pienamente assicurate.

Osservando che la mancanza degli originali precluderebbe il controllo sulla corretta elaborazione dei dati da parte degli inquirenti e dello stesso Giudice cautelare, la Difesa sovrappone, ancora una volta, il piano e la sede nel cui ambito devono operare le garanzie di tutela dell'incolpato. E non distingue, per inciso, tra documenti allegati alla richiesta cautelare e documenti che, invece, non siano stati esibiti dal Pubblico ministero neppure in quella sede.

Ad ogni modo, l'acquisizione delle copie utili ai controlli difensivi può intervenire anzitutto nell'ambito della procedura di deposito regolata dall'art. 293 c.p.p., ove possono e devono essere prese in considerazione richieste di accesso a documenti originali. Il giudizio impugnatorio è invece la sede nella quale possono svilupparsi censure, specifiche ed argomentate, che denuncino determinati errori materiali nell'approccio alle risultanze documentali.

Risulta evidentemente estranea al sistema l'implicazione della logica difensiva, e cioè che si determinerebbe inefficacia della misura cautelare per ogni eventualità di errore che non possa essere direttamente valutata ed esclusa dal Giudice del riesame, pur a fronte della prospettazione, non minimamente argomentata, della più generica tra le doglianze.

2.6. Deve da ultimo essere escluso il fondamento della questione di nullità posta, con riferimento ai commi 2 e 2-bis dell'art. 292 c.p.p., in relazione all'ordinanza applicativa della misura in atto nei confronti di Chiara Zenobi (§ 6.1. del Ritenuto in fatto).

Anche per i provvedimenti restrittivi è consentita la motivazione per relationem, a maggior ragione quando sia attuata mediante la riproduzione degli atti richiamati all'interno degli stessi provvedimenti. Secondo l'opinione corrente, è necessario e sufficiente che il Giudice compia e documenti una valutazione critica delle risultanze, dalla quale possa desumersi che nel caso di specie la decisione è stata assunta in base ad un apprezzamento effettivo degli atti, e secondo un riconoscibile ragionamento probatorio (da ultimo Sez. 1, Sentenza n. 14830 del 28 marzo 2012, rv. 252274; Sez. 2, Sentenza n. 13385 del 16 febbraio 2011, rv. 249682).

Va subito aggiunto che la consistenza e l'autonomia dell'apprezzamento giudiziale non possono essere desunte da clausole di stile, da generiche espressioni di adesione alle valutazioni richiamate, e men che meno dal rilievo d'una asserita auto evidenza delle risultanze elencate (Sez. 6, Sentenza n. 27928 del 14 giugno 2013, rv. 256262). Tuttavia, il preteso effetto di nullità non può certo farsi discendere né dal ricorso alla citazione testuale né dalla proporzione fra parti «originali» e parti trascritte del tessuto espositivo.

Nel caso di specie si riscontra una lunga esposizione per relationem delle fonti di prova e della loro progressiva acquisizione, non immune da sintetici rilievi d'ordine adesivo. In ogni caso, con la «parte seconda» dell'ordinanza, è avviata un'autonoma ricostruzione dei fatti e della relativa qualificazione giuridica, che, sebbene non estesa fino ad un nuovo esame delle responsabilità individuali, impone di considerare assolti i doveri minimi motivazionali del giudice della cautela.

D'altro canto la natura completamente devolutiva del ricorso per riesame, e la sua caratteristica di impugnazione eventualmente immotivata, implicano com'è noto un potere-dovere del Tribunale di integrare le parti eventualmente carenti della motivazione sottesa ad un provvedimento cautelare che si stima legittimo e giustificato.

Secondo l'opinione che recentemente sembra prevalere, e che appare preferibile, l'esplicita previsione di nullità che segna l'art. 292 c.p.p. esclude che l'integrazione possa avere luogo quando vi sia mancanza cd. «grafica» della motivazione, o quando i rilievi «graficamente» inseriti nel provvedimento non lo siano anche contenutisticamente, nel senso che si fermano a considerazioni astratte e prive di specifica pertinenza (Sez. 6, Sentenza n. 25631 del 24 maggio 2012, rv. 254161; Sez. 2, Sentenza n. 25513 del 14 giugno 2012, rv. 253247; Sez. 3, Sentenza n. 33753 del 15 luglio 2010, rv. 249148). Non è questa però, come detto, la situazione del caso di specie.

Il Tribunale del riesame, dal canto proprio, pur richiamando in toto l'ordinanza confermata, ha sviluppato in autonomia i necessari spunti motivazionali, orientato dalla qualità e dall'oggetto dei rilievi difensivi. I quali ultimi, nel procedimento di riesame come per il giudizio di legittimità, sono scarsamente articolati per singole posizioni e si fondano essenzialmente su questioni processuali o su temi pertinenti alla ricostruzione ed alla qualificazione dei fatti nella loro dinamica complessiva.

3. Deve insomma concludersi, per quanto attiene alla base cognitiva della decisione assunta dal Tribunale, e nella prospettiva di valutazione tipica della sede, che non sussistono i vizi denunciati dai ricorrenti.

Si può dunque procedere all'esame delle critiche «sostanziali» al deliberato del riesame. A parere della Corte, tali critiche implicano la necessità di fissare tre profili essenziali della disciplina applicata al caso di specie, per verificarne la corretta interpretazione e per misurare l'adeguatezza della relativa motivazione.

Da un lato occorre discutere la nozione di «finalità di terrorismo», alla luce della «nuova» disciplina introdotta, al proposito, nel corso del 2005. Tale finalità contrassegna esplicitamente i reati contestati al capo A della rubrica, ed in qualche misura viene evocata, come meglio si vedrà nel prosieguo, per i delitti in materia di armi contestati al capo B, che si qualificano per la finalità di sovvertire l'ordinamento dello Stato, o di mettere a rischio la sicurezza della collettività o la vita delle persone mediante la commissione di «attentati» (o di alcuni reati nominativamente indicati nelle norme).

Per un secondo verso, la struttura delle fattispecie contestate sub A evoca la problematica tipica dei reati di attentato, che richiedono precisi criteri per la determinazione del fatto tipico punibile, e nel contempo pongono questioni in merito alla struttura del dolo.

I problemi indicati saranno trattati sul piano generale, a titolo di premessa per il successivo controllo circa la legittimità del provvedimento impugnato.

4. Nel dibattito (anche giurisprudenziale) sulla identificazione della «finalità di terrorismo», per lungo tempo circoscritto essenzialmente dal riferimento alternativo allo spargimento del «terrore» ed all'eversione dell'ordine costituzionale, l'introduzione nel codice penale dell'art. 270-sexies (operata con il decreto-legge n. 144/2005, o meglio con la relativa legge di conversione, n. 155/2005) ha segnato indubbiamente una cesura. Intervenuta sulla spinta dei gravissimi fatti appena accaduti in Gran Bretagna ed altrove, la novella è valsa ad adeguare l'ordinamento interno alle indicazioni della decisione quadro 2002/475/GAI (oltre che alla Convenzione del Consiglio europeo sulla prevenzione del terrorismo, adottata dal Comitato dei ministri e sottoscritta dall'Italia il 14 giugno 2005), ed è stata preceduta dalla ratifica, con clausola di esecuzione, di numerose convenzioni internazionali in materia, tra le quali rileva in modo particolare la Convenzione sul finanziamento degli atti di terrorismo fatta a New York nel 1999 e ratificata in Italia con la legge n. 7/2003.

La norma dell'art. 270-sexies presenta una struttura complessa, nella quale, pur essendo la norma stessa dedicata alla descrizione di una finalità, sono certamente compresi elementi di carattere obiettivo, quali misuratori della specifica offensività dei fatti contemplati, e quali garanzie d'un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell'intenzione e del tipo d'autore.

A livello soggettivo, sul piano della rappresentazione e della volizione, l'agente opera in una duplice direzione. In primo luogo vuole un «grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale», o almeno vuole creare condizioni che seriamente conducano in quella direzione. In secondo luogo, persegue un fine alternativo, fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche fondamentali, o infine costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o a non compiere un qualsiasi atto.

4.1. Subito si evidenzia la particolare struttura del dolo. Salva ogni osservazione in punto di idoneità dell'azione al fine, quale profilo strutturale dei casi di dolo specifico, la prima parte della norma descrive un evento di pericolo, che deve concretamente profilarsi e che, nei riflessi soggettivi, deve pienamente riprodursi. La legge non si limita ad esigere il fine di produrre un «grave danno», ma esige l'obiettivo compimento di condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso).

Il punto è centrale, e merita di essere ribadito. Già il tenore letterale della norma implica che non basta l'intenzione del danno, posto che la condotta deve creare la possibilità che si verifichi. Un evento di pericolo concreto, dunque, da valutare secondo l'ordinario paradigma della prognosi postuma.

Un segnale particolarmente rilevante in questo senso viene anche dal riferimento alla «natura o contesto» della condotta, quali elementi indefettibili della valutazione in punto di pericolosità.

La previsione svolge certamente quel ruolo di «allargamento» che le viene assegnato nel provvedimento impugnato, e che d'altronde è indispensabile per il ragionevole bilanciamento tra principio di personalità della responsabilità penale ed efficienza dell'azione repressiva (e preventiva) nei confronti di gravi fatti illeciti. Quando la caratteristica di tali fatti risieda proprio (ed anche) nella macrodimensione dell'evento temuto, è consentito al legislatore il ricorso esplicito a segnali che valorizzino il contributo individuale alla produzione, effettiva o potenziale, dell'evento medesimo, per evitare che tale contributo resti annullato dalla serie coordinata di forze che, nei fatti, è necessaria per esplicare concretamente l'effetto.

Non v'e dubbio che, nel caso in esame, il riferimento al «contesto» serva appunto ad evidenziare come la possibilità dell'evento dannoso posto sullo sfondo della fattispecie rilevi anche quando non dipenda in via esclusiva dall'azione considerata, ma sia piuttosto il frutto dell'innesto del contributo in una più ampia serie causale, non necessariamente controllata dall'agente. Si tratta del resto d'una applicazione delle regole comuni in materia di causalità e concorso di persone (artt. 41 e 110 c.p.), ove vige il principio dell'equivalenza, anche tra condizioni riferibili a comportamenti umani, con il limite esclusivo delle cause «da sole» sufficienti a produrre l'evento.

È però altrettanto chiaro - sempre in applicazione dei principi generali - che l'interazione tra condotta individuale e contesto deve segnare il momento rappresentativo e quello volitivo nella determinazione dell'agente. In particolare, se la possibilità dell'evento dannoso grave dipende da tale interazione, è ovvio che l'agente dovrà rappresentarsi gli elementi della congerie causale che conferiscono alla sua personale condotta l'efficienza peculiare sanzionata dalla norma, e dovrà volerne l'influsso sulla serie nella quale il suo comportamento confluisce.

Una implicazione ovvia, dell'ovvio principio, è che il «contesto» non può essere ricostruito tenendo conto di condotte ed avvenimenti successivi al comportamento del reo, non potendo questi farne oggetto di rappresentazione e di pianificazione. A meno che, naturalmente, non si riscontri la pertinenza del fatto ad una programmazione che comprenda ab initio futuri elementi di contesto utili ad interagire con l'azione commessa. Si tratta per altro, a questo punto, d'una mera questione di prova e motivazione.

4.2. Dunque, un dolo generico comprendente il pericolo d'un grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale.

Tuttavia, l'azione deve essere anche finalizzata ad uno di tre ulteriori eventi, che non deve necessariamente verificarsi, secondo lo schema tipico del dolo specifico.

Nella sede presente interessa l'evento di «costrizione» del potere pubblico a fare o non fare qualcosa. Ma non va trascurata, naturalmente, la «qualità» dei due fatti ulteriori, poiché l'accostamento dei tre eventi e la loro parificazione a fini di trattamento sanzionatorio costituisce un fattore irrinunciabile per l'esatta ricostruzione delle rispettive fisionomie.

Ecco dunque che alla «costrizione» si affianca, in primo luogo, lo scopo terroristico «classico» («intimidire la popolazione»), cioè portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza. Questa Corte ha già identificato una sostanziale continuità, sotto questo limitato profilo, tra la nozione di «spargimento del panico tra la popolazione» individuata dalla giurisprudenza più risalente (Sez. Un., Sentenza n. 2110 del 23 novembre 1995, Fachini, rv. 203770) e quella di grave intimidazione nei confronti della popolazione, fissata nell'art. 1, comma 1, della Decisione quadro n. 2002/475/GAI, sostanzialmente ripresa con l'art. 15 del decreto-legge n. 144 del 2005 e, dunque, con l'art. 270-sexies c.p.: «[...] è comunque presente la connotazione tipica degli atti di terrorismo individuata dalla più autorevole dottrina nella "depersonalizzazione della vittima" In ragione del normale anonimato delle persone colpite dalle azioni violente, il cui vero obiettivo è costituito dal fine di seminare indiscriminata paura nella collettività e di costringere un governo o un'organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto» (Sez. 1, Sentenza n. 1072 dell'11 ottobre 2006, rv. 235288).

In secondo luogo rilevano la destabilizzazione o la distruzione delle strutture istituzionali fondamentali di un Paese o di una organizzazione internazionale: una finalità più prossima allo scopo tradizionale dell'eversione dell'ordine costituzionale e democratico, spinta fino alla «destabilizzazione» delle istituzioni più essenziali dal punto di vista politico, costituzionale, economico o sociale.

4.3. L'identificazione dell'evento «costrizione», che costituisce il principale elemento di novità della nozione vigente di finalità terroristica, rappresenta a parere della Corte l'aspetto più delicato della regiudicanda.

È appena il caso di notare come l'essenza della politica, e della stessa forma democratica dello Stato (artt. 1, comma 2, e 49 Cost.), consista nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare e, in certo senso, di imporre le scelte rimesse agli organi del potere pubblico, interagendo con essi anche attraverso la partecipazione dei cittadini ad attività sviluppate fuori dalle istituzioni rappresentative (partiti, associazioni, movimenti, di carattere politico, sindacale, culturale). Il fine di condizionamento politico è quindi del tutto inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche. E la possibilità di interferenza rende conto, senza inutili spiegazioni, della delicatezza estrema dell'operazione cui la legge chiama gli interpreti e gli operatori giudiziari.

Un primo elemento per l'actio finium regundorum, necessario ma non certo sufficiente, consiste nella «scala» della decisione potenzialmente imposta al potere pubblico. Dovrà trattarsi di un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associata, per il suo oggetto o per l'implicazione che ne deriva in punto di «tenuta» delle attribuzioni costituzionali. Non sono solo il buon senso, ed il valore semantico e storico delle parole, ad escludere che possa e debba parlarsi di terrorismo per qualunque pressione esercitata su di un pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione di un reato. Se la «costrizione» è evento paragonabile al dissesto delle istituzioni od alla intimidazione della popolazione nel suo insieme, se la «costrizione» è comunque perseguita dall'agente nella consapevolezza e nella volontà di provocare il rischio di un «grave danno» per il Paese intero, allora detta «costrizione» non potrà che avere ad oggetto una decisione che incida significativamente su una scala sociale ed istituzionale corrispondente.

L'interferenza tra «costrizione» e «grave danno» pone poi in evidenza un secondo elemento di delimitazione della fattispecie, capace di imporre una «macrodimensione» del fenomeno, ma a sua volta insufficiente, da solo, per una delimitazione del fatto che risulti compatibile con il principio di determinatezza (e con le implicazioni da questo sortite in punto di colpevolezza).

I commentatori hanno posto in luce la scarsa capacità descrittiva della parola «grave», ma la stessa nozione di «danno», quando si parla di obiettivi politicamente qualificati, può risultare opinabile. Ciò che una parte può considerare dannoso per il Paese, altra parte può considerare conveniente.

Il discrimine in proposito non può derivare (solo) da un terzo elemento definitorio, essenziale per quanto implicito, e cioè la illegittimità del metodo utilizzato per perseguire il fine di «costrizione».

Se ottenuta mediante comportamenti leciti, massime attraverso il libero dispiegarsi del dibattito sociale e del conflitto politico, anche la più pressante influenza sul procedimento di formazione della volontà delle istituzioni pubbliche non può assumere rilevanza. Lo stesso ricorso al termine «costrizione», del resto, evoca in qualche modo l'idea di una pressione indebita e nel contempo capace (almeno nelle intenzioni dell'agente) di alterare le regole ordinarie del procedimento decisionale. Non v'è dubbio insomma che la costrizione debba essere attuata «indebitamente», anche se la norma nazionale non ha ripreso la specifica qualificazione che segna invece il suo corrispondente nella Decisione quadro ormai più volte citata.

Sennonché il fine di «costrizione» non può assumere dimensione terroristica per il sol fatto che la condotta strumentale contrasta con un precetto penalmente sanzionato. Si guardi alla categoria dei reati «politici» (secondo la definizione giuridicamente rilevante che discende dal comma 3 dell'art. 8 c.p.): non ogni atto penalmente illecito, che sia politicamente orientato in senso obiettivo o soggettivo, può integrare la nuova nozione di terrorismo.

Ancora una volta, la soluzione è suggerita anzitutto dal senso delle parole e dalla valenza «sociale» del concetto di terrorismo (dunque dalla portata tipizzante della sua evocazione). Una ipotetica deriva dell'ordinamento verso la qualificazione «terroristica» di ogni reato politicamente motivato sarebbe inammissibile, in virtù di ragioni troppo evidenti, ancora una volta, per richiedere una particolare illustrazione.

La giurisprudenza di questa Corte si è occupata del tema principalmente allo scopo di distinguere tra «sovversione» e «terrorismo», ma ha comunque chiarito «che non qualsiasi azione violenta può farsi rientrare nel concetto di eversione, previsto dal codice penale, ma solo quella che miri al sovvertimento dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell'assetto ordinamentale», aggiungendo che, quando praticata a scopi eversivi, la «violenza terroristica» provoca un più intenso allarme sociale ed un maggior rischio istituzionale, il che legittima la sua più severa punizione (art. 270-bis in relazione all'art. 270 c.p.: Sez. 5, Sentenza n. 12252 del 23 febbraio 2012, rv. 251919; in senso analogo Sez. 6, Sentenza n. 2310 del 2 novembre 2005, rv. 233113; Sez. 2, Sentenza n. 39504 del 17 settembre 2008, rv. 241859; Sez. 5, Sentenza n. 25428 del 13 marzo 2012, rv. 253305; Sez. 5, Sentenza n. 46340 del 4 luglio 2013, rv. 257547). In altri casi, pare che la distinzione tra finalità eversiva (come stigmatizzata dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625) e finalità terroristica (l'unica che segna le fattispecie degli artt. 280 e 280-bis c.p.) non abbia rivestito particolare importanza ai fini del decidere: ma anche in fattispecie del genere (ove si è confermata la qualificazione ex art. 280-bis per un attentato definito «dimostrativo») mai è venuta meno, naturalmente, l'esigenza di una particolare conformazione del finalismo politico sottostante alla condotta (Sez. 1, Sentenza n. 8069 dell'11 febbraio 2010, rv. 246123).

Insomma, l'equiparazione tra condotta illecita politicamente motivata e terrorismo è improponibile.

4.4. Ritiene allora la Corte che la soluzione del problema interpretativo, necessariamente orientata verso una riduzione degli spazi di indeterminatezza della fattispecie, in armonia con l'assetto costituzionale dei valori in gioco, possa essere trovata nel collegamento tra i vari elementi evocati dalla norma. Un collegamento utile ad assicurare, tra l'altro, la conformità della scelta legislativa ai termini essenziali del dibattito sull'offensività nei delitti di attentato, che ha largamente interessato anche la definizione giuridica del concetto di terrorismo (interno).

Esiste anzitutto un finalismo tipico dell'azione, secondo lo schema del dolo eventuale, e dunque costruito su eventi che risiedono fuori della fattispecie. Come detto, qui interessa la «costrizione» del potere pubblico a tenere od omettere un determinato comportamento, ma lo stesso discorso potrebbe valere per i due scopi alternativi, come delineati dalla legge. Al tempo stesso, poiché è avvertita la necessità, da più parti evidenziata, di assicurare la specifica offensività dei comportamenti terroristici, escludendo dalla previsione progettazioni deliranti o palesemente inadeguate, è fissato un evento di pericolo, cioè il rischio di un «grave danno» per il Paese.

A parere del Collegio può e deve guardarsi a quell'evento come alla definizione sintetica del rischio che tipicamente (e concretamente) il «terrorista» produce coltivando, con una qualunque azione delittuosa, una delle tre finalità indicate nel prosieguo della norma. Al tempo stesso, la motivazione individuale qualifica il fatto come terroristico proprio in quanto suscettibile di creare il rischio di una grave lesione degli interessi presi di mira (il sereno svolgimento della vita pubblica, il fisiologico esercizio del potere pubblico, la stabilità e l'esistenza stessa delle istituzioni di una società pluralistica e democratica).

Privata del riferimento ai fini tipici del terrorismo, la nozione di danno, da riferire oltretutto ad ogni genere di possibile comportamento criminoso, resterebbe priva di adeguata parametrazione: non v'è nozione giuridicamente accettabile di «danno» sanzionabile se non rispetto ad un interesse giuridicamente protetto.

Non a caso il tema in esame è risultato assai discusso tra i commentatori, e per l'identificazione del danno rilevante si è spaziato tra la dimensione patrimoniale (come si è fatto, nel caso di specie, anche dai Giudici della cautela) ed altro genere di prospettazioni (ad esempio, sempre ad opera dei Giudici a quibus, relativamente al danno da immagine).

Sennonché il soggetto passivo del «danno» viene dalla legge indicato nel Paese, lasciando intendere l'irrilevanza dei patrimoni privati in quanto tali, e nel contempo definito «grave», assumendo quindi una dimensione di scala, la quale per un verso non potrebbe che essere enorme (finendo paradossalmente per restringere l'ambito della tutela), e per altro verso sembra incompatibile con la fisionomia patrimoniale dell'offesa, per la sua entità e per la stessa sua natura.

È dunque il collegamento con il carattere lato sensu politico-istituzionale del finalismo terroristico a qualificare e rendere accettabilmente determinato il «grave danno per il Paese» che la condotta di volta in volta considerata deve rendere possibile (un collegamento siffatto sembra implicitamente evocato anche dalla decisione di questa Corte che ha escluso l'integrazione dell'art. 270-sexies per gravi fatti di devastazione commessi dai tifosi di una squadra calcistica: Sez. 1, Sentenza n. 25949 del 27 maggio 2008, rv. 240465).

4.5. Una conferma della necessità di una relazione tipica ed attendibile tra finalismo dell'azione ed oggetto del danno viene dalla considerazione degli strumenti internazionali che regolano il contrasto ai fenomeni terroristici e che esplicano effetti diretti nell'ordinamento nazionale.

Già se ne è fatto cenno. La convenzione fatta a New York nel 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo, che contiene un vasto apparato definitorio, è stata resa esecutiva in Italia con la legge n. 7/2004. Appartiene al diritto dell'Unione, al quale l'ordinamento interno deve conformarsi, la Decisione quadro n. 2002/475/GAI, per la cui attuazione l'art. 270-sexies è stato appositamente introdotto nel codice penale. E d'altra parte proprio quest'ultima norma nazionale contiene una clausola di chiusura, estendendo la nozione di terrorismo alle altre «condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia».

Se appare chiaro come la clausola sia stata appunto concepita in chiave estensiva, altrettanto ovvia sembra la sua funzione di orientamento nell'interpretazione complessiva della fattispecie, sia per l'esigenza di una ermeneusi che assicuri coerenza interna alla disciplina, sia per evitare il rischio d'un disallineamento tra la nozione «nazionale» di terrorismo e quella internazionalmente accolta, la cui prevenzione costituisce uno degli scopi essenziali della normativa pattizia.

Ora, la norma eurounitaria presenta una struttura ancora più complessa di quella interna, visto che - ferma restando la potenzialità di danno per un paese o un'organizzazione internazionale - il fine alternativo di intimidire, costringere o destabilizzare rileva solo se perseguito mediante specifiche tipologie di condotte criminose. La relativa disamina evidenzia un criterio misto di selezione. Dagli attentati alla vita od alla libertà delle persone al sequestro di mezzi collettivi di trasporto ed alla disponibilità di armi pericolose, sono state in primo luogo individuate condotte storicamente proprie del terrorismo, a livello nazionale ed internazionale, e strutturalmente idonee a generare intimidazione a livello individuale e collettivo. In secondo luogo, ed avuto particolare riguardo al danneggiamento di cose, sono stati individuati solo comportamenti capaci di provocare conseguenze disastrose, e dunque, nuovamente, idonei nella stessa direzione sopra indicata («distruzioni di vasta portata», «diffusione di sostanze pericolose», «cagionare incendi, inondazioni, esplosioni», «manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali»).

Il legislatore europeo, cioè, ha tarato l'offesa con un criterio misto di descrizione dell'evento di pericolo e di indicazione delle condotte in astratto idonee a provocarlo, confermando la gravità del fatto terroristico e la sua tipicità: terrore indiscriminato, costrizione («indebita») di un potere pubblico; destabilizzazione («grave») delle istituzioni.

È stato anche osservato come un ulteriore tratto comune fra le condotte indicate sia costituito dalla potenzialità lesiva per i beni primari dell'incolumità e della libertà personale: le ipotesi concernenti attacchi alle cose sarebbero conformate in guisa da creare tipicamente rischio per le persone, non foss'altro che per la scala dell'aggressione portata ai beni strumentali.

Questa era del resto la cifra della Convenzione Onu del 1999, che costituisce per esplicito una delle matrici dalle quali è nata la Decisione del Consiglio europeo ed ha orientato le legislazioni nazionali e le relative interpretazioni (compresa quella della giurisprudenza italiana) prima del 2002 (anno della Direttiva) e del 2005 (anno della relativa trasposizione).

Ebbene, la tecnica definitoria adottata nella sede ONU è ben nota. Da un lato si era fatto ricorso alle definizioni contenute in una lunga serie di convenzioni e trattati aventi ad oggetto il terrorismo, elencati nell'allegato alla stessa Convenzione. Per altro verso, era dettata la norma di chiusura, che varrebbe ad illuminare il contenuto più essenziale della nozione comunemente accolta di terrorismo: «ogni altro atto destinato ad uccidere o a ferire gravemente un civile o ogni altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato quando, per sua natura o contesto, tale atto sia finalizzato ad intimidire una popolazione o a costringere un governo o un'organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere, un atto qualsiasi» (art. 2, comma 1, lett. a) della Convenzione).

Anche da questi rilievi, e senza trarre conclusioni radicali (che qui non sono necessarie) sulla rilevanza terroristica di attentati portati esclusivamente a beni materiali, si deduce agevolmente come detta rilevanza non possa che essere subordinata, comunque, alla capacità di determinare l'effetto di intimidazione o costrizione che normalmente si connette alla minaccia di pregiudizio per i beni più essenziali della persona e dunque della comunità civile.

4.6. La Corte ritiene, in definitiva, che la norma in commento abbia esplicitato come il finalismo terroristico non sia un fenomeno esclusivamente psicologico, ma si debba materializzare in un'azione seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti nella norma medesima. Secondo alcuni autorevoli orientamenti dottrinali, l'idoneità della condotta a realizzare il fine perseguito dall'agente sarebbe requisito comune a tutte le fattispecie segnate dal dolo specifico. In ogni caso - data la pressante esigenza di delimitare il fatto tipico evitando un effetto di dilatazione della nozione di terrorismo tale da includere ogni reato politicamente motivato, quale che sia la «scala» degli interessi in gioco - il legislatore ha espressamente introdotto la previsione di un evento di pericolo, di portata tale («grave») da incidere sugli interessi dell'intero Paese, e di natura corrispondente alla realizzazione del fine perseguito dall'agente.

5. Passando alle caratteristiche oggettive e soggettive dei delitti di attentato, conviene anticipare come, a parere della Corte, gli stessi siano segnati sul piano materiale dalla univoca direzione degli atti verso un evento determinato e dalla idoneità degli atti medesimi a produrre la relativa lesione, con la conseguenza che la loro integrazione, sul piano del dolo, resta esclusa nel caso di mera accettazione del rischio che il bene giuridico subisca l'offesa.

5.1. In giurisprudenza, le questioni in esame sono state affrontate soprattutto con riguardo alla materia del tentativo.

Anche l'incriminazione del delitto non compiuto, in effetti, risponde ad una logica di avanzamento della tutela dei beni giuridici, fino a situazioni di mera creazione del rischio d'una lesione dei beni medesimi.

Per il tentativo, in verità, la compatibilità con i principi di offensività e legalità è assicurata, già sul piano letterale, attraverso l'interazione tra le disposizioni degli artt. 56 e 49 c.p. Il carattere concreto ed effettivo del rischio, in particolare, è richiesto attraverso il parametro della idoneità, che la giurisprudenza definisce ancor oggi con qualche dissonanza, ma sempre cura di connettere alle caratteristiche del caso di specie, analizzato secondo un criterio ex ante ed in base alle circostanze conosciute dall'agente o conoscibili mediante l'esercizio di diligenza e competenza ordinarie (di recente, Sez. 1, Sentenza n. 32851 del 10 giugno 2013, rv. 256991). Può escludersi certo la necessità che l'evento perseguito risulti all'analisi fortemente probabile, ma è sicuramente esigibile una seria esposizione a pericolo del bene.

Il requisito di idoneità concorre anche a circoscrivere il fatto punibile secondo il principio di tassatività, poiché in sostanza inserisce nella previsione di legge il divieto di creare situazioni pericolose per un determinato interesse. Ma per lo stesso scopo è indispensabile che il criterio concorrente dell'univocità sia inteso quale essenza del fatto criminoso, e non semplicemente quale tema di prova o caratteristica dell'elemento psicologico. Occorre cioè, sul piano obiettivo, che le condizioni in cui matura l'azione denuncino univocamente l'orientamento causale della condotta verso un evento dato, tipicamente previsto dalla legge penale e diverso da ogni altro. Solo a queste condizioni la tecnica di tipizzazione del tentativo si accosta ad altre, fondate appunto sull'orientamento e non sulla descrizione (è il caso ad esempio del reato concorsuale ex art. 110 c.p.), e con esse condivide, secondo l'opinione ampiamente maggioritaria, uno status di compatibilità con l'art. 25 della Costituzione. La giurisprudenza recente conferma il cd. criterio di essenza sia quando ne desume la rilevanza dei soli atti esecutivi (Sez. 1, Sentenza n. 40058 del 24 settembre 2008, rv. 241649; Sez. 1, Sentenza n. 9411 del 7 gennaio 2010, rv. 246620), sia quando nega l'efficacia della distinzione tra preparazione ed esecuzione, ma esige, appunto, che il fatto risulti oggettivamente diretto alla produzione di un evento dato (Sez. 2, Sentenza n. 36283 del 4 luglio 2003, rv. 228310; Sez. 4, Sentenza n. 7702 del 29 gennaio 2007, rv. 236110; Sez. 2, Sentenza n. 40702 del 30 settembre 2009, rv. 245123; Sez. 2, Sentenza n. 18196 del 4 marzo 2010, rv. 247045).

Dal punto di vista pratico, del resto, la corrispondenza tra il fine concreto di un determinato agire e la congruenza allo scopo degli atti compiuti, secondo un criterio di comune apprezzamento, rappresenta la modalità di gran lunga più frequente di accertamento del dolo punibile. Se la univocità «obiettiva» è elemento costitutivo della fattispecie, l'atteggiamento della volontà non può che conformarsi sulla medesima. A maggior ragione, l'unidirezionalità del momento volitivo risulta indefettibile qualora il requisito dell'univocità venga invece concepito in termini essenzialmente soggettivi.

È per queste ragioni che tutta la giurisprudenza recente, superando orientamenti più risalenti, ravvisa incompatibilità tra il delitto tentato ed il dolo eventuale (da ultimo, Sez. 6, Sentenza n. 14342 del 20 marzo 2012, rv. 252565; Sez. 1, Sentenza n. 25114 del 31 marzo 2010, rv. 247707; Sez. 1, Sentenza n. 44995 del 14 novembre 2007, rv. 238705; Sez. 1, Sentenza n. 5849 del 18 gennaio 2006, rv. 234069). E conviene subito mettere in evidenza il rilievo particolare che l'enunciato, cui il Collegio aderisce pienamente, è destinato ad assumere nella prospettiva di un superamento della tradizionale nozione di dolo eventuale quale mera «accettazione del rischio». Basti qui ricordare come sembri orientato in questa direzione un recente deliberato delle Sezioni unite di questa Corte, almeno stando alla relativa comunicazione provvisoria: «nel dolo si è in presenza di organizzazione della condotta che coinvolge, non solo sul piano rappresentativo, ma anche volitivo la verificazione del fatto di reato. In particolare, nel "dolo eventuale", che costituisce la figura di margine della fattispecie dolosa, un atteggiamento interiore assimilabile alla volizione dell'evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l'agente prevede chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell'evento e, ciò non ostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui si verifichi. Occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta. A tal fine è richiesto al giudice di cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo sviluppo della condotta illecita al fine di ricostruire l'iter e l'esito del processo decisionale» (Sez. Un., Sentenza 24 aprile 2014, in attesa di deposito).

5.2. Questa Corte ritiene - ed è la ragione dei rilievi fin qui svolti - che la categoria dei delitti di attentato proponga questioni del tutto analoghe a quelle che hanno dovuto essere affrontate e risolte in materia di tentativo.

Tale categoria è segnata dalla tecnica normativa utilizzata per anticipare la soglia di tutela del bene preso in considerazione, punendo appunto condotte che mettano anche solo in pericolo il bene medesimo. La tecnica consiste nell'indicazione dell'evento posto sullo sfondo delle singole fattispecie, e nel rinvio a tutte le condotte «dirette a» provocarlo. Talvolta, si registra addirittura un ricorso diretto (ed ancor meno stringente) alla definizione di sintesi del modello («chiunque attenta»).

Nei delitti di attentato manca, in realtà, il riferimento esplicito a quei fattori tipizzanti che invece caratterizzano la previsione dell'art. 56 c.p., cioè l'idoneità e l'univocità degli atti. Se si guarda per altro al panorama dottrinale recente, è comune l'opinione che si tratti di requisiti necessari anche per le figure in questione. L'assunto, talvolta motivato in base ad una pretesa sovrapponibilità fra tentativo e attentato, è oggi generalmente giustificato quale implicazione essenziale del principio di offensività, e comunque quale condizione necessaria per la tassatività delle fattispecie.

Anche in giurisprudenza, poi, si è affermata stabilmente l'esigenza che la condotta di attentato presenti un connotato di idoneità, anche se le variazioni dovute alla pluralità delle fattispecie ed al correre del tempo varrebbero ad evidenziare, in esito ad un esame approfondito, concezioni non del tutto omogenee del relativo concetto (si vedano già, in rapporto al delitto di cui all'art. 241 c.p., Sez. Un., Sentenza n. 5 del 1957, Toffanin, rv. 097815; Sez. 1, Sentenza n. 1569 del 27 novembre 1968, rv. 111425; Sez. Un., Sentenza n. 1 del 18 marzo 1970, Kofler, rv. 115787; nello stesso senso, in riferimento al delitto di cui all'art. 432 c.p., Sez. 1, Sentenza n. 10560 del 2 maggio 1990, rv 184980; Sez. 1, Sentenza n. 10023 del 7 giugno 2000, rv. 217807; Sez. 1, Sentenza n. 49 del 22 dicembre 2009, rv. 245928).

Il principio è stato affermato anche con specifico riguardo al delitto di cui all'art. 280 c.p.: «trattasi di condotta che pone in essere un reato di pericolo attraverso una complessità di atti predisposti al fine, sicché il risultato è la conseguenza di una più o meno lunga serie di concatenate azioni umane, ognuna delle quali, se suffragata dall'indispensabile elemento soggettivo, concorre alla realizzazione della condotta tipica di attentato, pur se trattasi di un anello iniziale, sempreché l'azione nel suo complesso risulti idonea, giusta i principi generali sanciti nell'art. 49 c.p., da valutare diversamente rispetto ai reati di danno appunto perché si tratta di reato di pericolo e quindi tenendo conto - ai fini della idoneità - anche del concorso di fattori eventuali, atteso il fine della norma, mirata a prevenire non solo il danno bensì l'insorgenza di una semplice situazione di pericolo» (Sez. 1, Sentenza n. 10233 del 18 dicembre 1987, rv. 179470).

Caratteristiche analoghe presenta il tema dell'univocità quale elemento essenziale del tipo nei reati in questione: «ai fini della configurabilità dei delitti di pericolo e di attentato vi deve essere almeno un'estrinsecazione della condotta, tale da rivelare in modo inequivoco nella sua oggettività l'intenzione dell'agente di raggiungere il fine che si è prefisso: in essi devono pertanto essere necessariamente presenti i requisiti di idoneità degli atti e di univocità della loro direzione teleologica» (così, in relazione al delitto di strage, Sez. 1, Sentenza n. 3150 del 5 marzo 1991, rv. 186975; nello stesso senso, incidentalmente, Sez. 1, Ordinanza n. 995 del 19 maggio 1976, rv. 134302). Il concetto è stato espresso anche con specifico riguardo al delitto che direttamente interessa in questa sede: occorre che «gli atti, pur se meramente preparatori, siano tuttavia tali da dimostrarsi, in linea di fatto, come idonei ed inequivocabilmente diretti alla realizzazione di quello che, in assenza della specifica previsione, sarebbe il reato consumato» (Sez. 1, Sentenza n. 11344 del 10 maggio 1993, rv. 195756).

Ciò detto, deve necessariamente concludersi, in armonia con l'opinione dottrinale più autorevole e prevalente, che la forma eventuale del dolo sia incompatibile anche con i delitti di attentato. Non si tratta di postulare una piena sovrapposizione tra tentativo ed attentato. Si è già visto come, in una prospettiva di apprezzamento «essenziale» dell'univocità, la forma del dolo non potrebbe che allinearsi sulla struttura oggettiva del fatto, e cioè sulla percezione e sulla volizione di una destinazione univoca del proprio agire verso la produzione di un evento dato. A maggior ragione, lo stesso risultato si imporrebbe nel contesto d'una considerazione del requisito in termini essenzialmente soggettivi.

6. Possono essere tratte, a questo punto, alcune rapide conclusioni circa la struttura dei delitti contestati ai ricorrenti mediante i capi A e B della rubrica del provvedimento restrittivo.

Per l'integrazione dei reati puniti agli artt. 280 e 280-bis c.p. è necessario il compimento, per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico (dunque costituzionale), di atti idonei diretti in modo non equivoco a provocare gli eventi posti sullo sfondo delle rispettive fattispecie, con un atteggiamento della volontà direttamente mirato alla produzione degli eventi medesimi.

In particolare, il delitto di Attentato con finalità terroristiche o di eversione è segnato, sul piano soggettivo, da un doppio finalismo dell'agente. L'azione deve essere anzitutto ispirata dal fine di eversione dell'ordine democratico o da quello, qui rilevante, di terrorismo (che a sua volta si sostanzia nella consapevolezza di creare il rischio di un grave danno al Paese in conseguenza della possibile realizzazione di uno tra gli scopi tipici indicati nell'art. 270-sexies c.p.). Al tempo stesso, l'azione deve mirare a provocare morte o lesioni in danno di una persona, quali avvenimenti strumentali allo scopo. La morte o le lesioni sono dunque gli eventi naturalistici verso i quali si orienta la condotta tipica. È rispetto a tali esiti che va misurata l'idoneità e la univocità degli atti compiuti dall'agente. Ed è rispetto a tali esiti, per tutto quanto si è detto, che deve direttamente (e non eventualmente) dirigersi la volontà dello stesso agente.

Analoghe considerazioni vanno svolte, mutatis mutandis, quanto al delitto previsto e punito dall'art. 280-bis c.p., cioè l'Attentato di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi. Qui l'evento che la condotta deve essere idonea a produrre, e verso il quale deve essere univocamente orientata, è il danneggiamento di cose mobili o immobili altrui.

Sono infine necessarie alcune notazioni quanto al finalismo tipico dei fatti di detenzione e porto di armi ed esplosivi, previsti rispettivamente dagli artt. 21 e 29 della legge n. 110/1975.

Tale finalismo coincide con quello delle altre fattispecie solo in rapporto allo scopo di eversione dell'ordinamento costituzionale, che non rileva nel caso di specie. Le norme sono state quindi evocate ed applicate nella parte in cui puniscono l'intento «di mettere in pericolo la vita delle persone o la sicurezza della collettività mediante la commissione di attentati». L'espressione generica «attentati» è contrapposta, nel testo di legge, ad un elenco di reati la cui commissione integra «comunque» l'elemento soggettivo tipico, tra i quali non sono compresi quelli contestati, nella specie, al capo A della rubrica: si tratta infatti dei delitti di comune pericolo mediante violenza (artt. 422 e segg. c.p.), nonché delle fattispecie di cui agli artt. 284 (Insurrezione armata), 285 (Devastazione, saccheggio, strage), 286 (Guerra civile) e 306 (Banda armata) c.p.

Subito si pone, su di un piano astratto, il problema di un'adeguata delimitazione (anche in chiave di tassatività) del riferimento a quegli «attentati» che costituiscono un fine idoneo a determinare la peculiare e gravissima qualificazione dei fatti concernenti le armi.

Ma non si ritiene necessario, in questa sede, affrontare il tema nei suoi termini generali. Sembra chiaro, infatti, come la contestazione dei delitti de quibus non possa prescindere dalla identificazione, in ciascun caso concreto, dei reati programmati dall'agente, almeno per tipologia, se non addirittura con riguardo ad un obiettivo determinato. Poiché nel presente giudizio si riscontra (infra) un vizio di motivazione relativamente alla qualifica dei reati commessi e dunque programmati dai ricorrenti, avuto riguardo anche alla loro natura di «attentati», non resterà che prendere atto della conseguente necessità che il Giudice di merito consideri nuovamente anche le condotte concernenti le armi e gli esplosivi, per verificarne e documentarne, mediante una motivazione completa e coerente, la corrispondenza alle fattispecie contestate.

7. È possibile ora valutare - alla luce delle censure sviluppate dai ricorrenti - la tenuta delle qualificazioni avallate dal Tribunale e delle relative motivazioni.

Subito va detto come si riscontri una ricostruzione del fatto piuttosto confusa, ed al tempo stesso, nei termini in cui è stata formalmente enunciata, non compatibile con i principi in diritto sono stati sopra indicati.

7.1. Nel provvedimento applicativo della misura cautelare l'assalto al cantiere viene descritto, in prima battuta, mediante citazione testuale di un rapporto della Polizia di Stato.

Gli assalitori, che provenivano dai boschi e portavano abiti scuri, si erano divisi in tre gruppi, due dei quali avevano raggiunto tre cancelli del cantiere (i numeri 4, 5 e 8), bloccandone l'eventuale apertura con cavi di acciaio. I gruppi rimasti all'esterno dei cancelli 4 e 8 (denominati A e B) avevano poi esploso fuochi artificiali e razzi all'indirizzo delle forze di polizia, al ritenuto scopo di distogliere l'attenzione da quanto accadeva ad opera del terzo gruppo di assalitori (C), composto da nove persone. Tale gruppo, dopo aver forzato il cancello n. 8-bis, «raggiungeva il camminamento sovrastante il cunicolo esplorativo, dal quale scagliava, tra l'altro, 10/15 bottiglie incendiarie all'indirizzo delle forze dell'ordine e dei mezzi del cantiere presenti, incendiando anche un compressore». Pochi minuti dopo, lo stesso gruppo si era allontanato, facendo perdere la proprie tracce.

Nessun danno alle persone, quale diretta conseguenza del lancio degli ordigni incendiari, mentre aveva riportato seri danni il compressore d'aria cui si è fatto cenno. Ciò sebbene, secondo il rapporto DIGOS citato a più riprese nell'ordinanza cautelare, gli appartenenti alle forze di polizia e vari operai fossero stati «bersagliati» dal lancio di una quindicina di bottiglie incendiarie.

Una siffatta ricostruzione della fase cruciale dell'assalto, ovviamente decisiva, è operata in base alle sommarie informazioni raccolte presso gli operai coinvolti nella vicenda (non risulta in effetti che agenti di polizia fossero presenti sul piazzale al momento ed in corrispondenza del lancio degli ordigni).

Per quanto si comprende, i lavoratori si trovavano in fase iniziale all'interno del tunnel geognostico, ed avevano percepito luci e rumori provocati dall'esplosione delle bottiglie molotof nell'area antistante l'ingresso della galleria. Avevano deciso di uscirne perché l'incendio del compressore stava provocando fumo tossico, che si insinuava nel tunnel. Dal complesso delle loro dichiarazioni, citate per brani nella prima parte dell'ordinanza cautelare, dovrebbe evincersi che alcuni sarebbero usciti correndo, per il timore di essere colpiti da qualche oggetto, ed altri sarebbero rimasti sulla soglia, in preda allo stesso timore. Un paio di deposizioni prospettano però l'esplosione di ordigni incendiari in corrispondenza temporale con la presenza di persone sul piazzale. Si allude anzitutto a quanto dichiarato da Giuseppe Garofalo: «giunto fuori [...] visto il susseguirsi di lanci di bottiglie molotof provenire da sopra la galleria per timore di essere colpito mi riparavo nuovamente all'interno». Soprattutto, Piergiuseppe Gilli (le cui dichiarazioni sono però evocate solo nella sintesi compiutane dalla DIGOS) avrebbe dichiarato che gli operai, «mentre uscivano all'esterno nel tentativo di sottrarsi ai fumi ed alle conseguenti difficoltà respiratorie, venivano anche fatti oggetto del lancio di bottiglie incendiarie e bombe carta che, solo per mero caso, non li colpivano».

In sede di valutazione critica delle risultanze, il Giudice della cautela ha stabilito che il gruppo C si era portato sul «camminamento sovrastante il cunicolo esplorativo», e da qui aveva scagliato «bottiglie incendiarie all'indirizzo dei mezzi di cantiere lì presente». Ha aggiunto per altro, citando soprattutto le già menzionate dichiarazioni di Garofalo, che all'atto di uscire dalla galleria gli operai «venivano bersagliati dal lancio di altri oggetti, tra cui altro materiale incendiario». Insomma - si nota dal Giudice - fatti giustificatamente qualificati, in sede di prima iscrizione, come tentativo di omicidio. Nel contempo viene trascritta la narrazione dei fatti offerta da Antonio Finamore, dirigente dei lavori, non citato in precedenza tra i testimoni oculari dell'assalto, secondo la quale gli operai non erano usciti dalla galleria, bloccati anche dai segnali che le forze di polizia lanciavano loro dalla propria postazione, all'altro capo del piazzale, circa il pericolo di essere colpiti da oggetti in caduta dall'alto.

Su queste basi, in sostanza, il Giudice della cautela ha ritenuto integrati (nella prospettiva tipica della sede) i delitti di cui agli artt. 280 e 280-bis c.p., a fronte della «coscienza e volontà di attentare alla vita o alla incolumità delle persone e di porre in essere atti diretti a danneggiare beni altrui mediante l'uso di dispositivi esplosivi».

7.2. Va per altro rilevato, a questo punto, che la versione dei fatti accreditata dal Tribunale del riesame, nonostante una preliminare e generale adesione alle considerazioni svolte nell'ordinanza impugnata, diverge risolutivamente da quella o da quelle enunciate dal Giudice di prime cure.

Si dà atto nel provvedimento che, nel corso dell'udienza camerale di riesame, sono stati proiettati filmati presumibilmente tratti dalle telecamere fisse di sorveglianza del cantiere (i fotogrammi riprodotti nell'ordinanza applicativa sono in sostanza inintelligibili). Dalle riprese il Tribunale ha tratto la conclusione che gli autori dell'assalto «non potevano sapere chi o cosa sarebbe stato colpito dal lancio di bottiglie incendiarie», per l'ora notturna ma, soprattutto, perché gli ordigni venivano gettati «in luogo non visibile degli autori del fatto, posto che l'area del cantiere era delimitata da un'alta recinzione».

A conferma del senso (per altro inequivoco) delle affermazioni del Tribunale milita la giustificazione che lo stesso Collegio ha inteso dare in punto di integrazione del dolo punibile quanto ai reati in contestazione. Si assume, infatti, che gli autori del fatto dovevano certamente sapere della presenza di operai all'interno del tunnel. Si aggiunge, poi, che l'azione aveva comportato, per l'incendio appiccato al compressore e ad una parte dell'impianto di ventilazione, l'immissione di fumo all'interno della galleria, tale da provocare pur transitori disturbi di respirazione per gli interessati.

7.3. Non sembra privo di interesse, a questo punto, il rilievo d'una rimarchevole confusione (o, meglio, contraddizione) che segna finanche, nel loro complesso, le osservazioni difensive sull'andamento dei fatti.

Nell'interesse di Chiara Zenobi si è posto in evidenza come, secondo il Tribunale, gli assalitori non potevano vedere il punto di destinazione delle bottiglie incendiarie (§ 6.2. del Ritenuto in fatto), con l'ovvia finalità di escludere il dolo punibile. Al medesimo tempo, nella memoria depositata in apertura d'udienza da altro Difensore, si assume che gli stessi assalitori vedevano benissimo il piazzale (§ 7.1.1. del Ritenuto), al fine si sostenere che sapevano di non mettere in pericolo la vita di alcuno, visto che il piazzale sarebbe stato deserto.

8. Non spetta a questa Corte, naturalmente, stabilire quale sia la ricostruzione preferibile sulla scorta degli elementi acquisiti, neppure avendo riguardo alla rappresentazione che ne viene data nei provvedimenti assunti dai Giudici di merito.

Spetta a questa Corte, però, rilevare che nel provvedimento impugnato viene assunta una ricostruzione dei fatti non sufficientemente argomentata, per poi desumerne, comunque, conseguenze giuridicamente scorrette.

8.1. Il richiamo a fini di motivazione integrata delle considerazioni espresse dal Giudice per le indagini preliminari non giova al Tribunale sul piano della coerenza e della completezza. Come si è visto, l'ordinanza applicativa si riferisce in più punti a dichiarazioni evocative d'una diretta intenzione lesiva nei confronti degli operai, alcuni dei quali si sarebbero trovati nel piazzale, e comunque sarebbero stati presi di mira (questo e non altro il senso logico e letterale di termini come «bersagliare» (cioè rendere bersaglio di una determina azione) e «fare oggetto del lancio». Tuttavia lo stesso Tribunale, come pure si è visto, ha optato con una certa decisione per una versione dei fatti incompatibile con quella appena descritta. Ha stabilito che alcuni operai, all'inizio del lancio o per effetto di questo, si trovavano sul piazzale. Al tempo stesso, ha escluso che tali operai potessero essere stati «bersagliati» dagli assalitori, tanto da motivare la sussistenza del dolo punibile in termini sostanzialmente riconducibili alla figura del dolo eventuale (infra).

Risulta allora evidente che mancano una coerente rappresentazione dei fatti, ed una adeguata spiegazione del sostanziale scostamento dalla versione (che sembra) accolta dal primo Giudice: uno scostamento giustificato con la generica menzione dei filmati, ma non rappresentato criticamente in rapporto alle diverse (e pur adesivamente richiamate) conclusioni raggiunte nel provvedimento cautelare.

Un trattamento cautelare per fatti potenzialmente lesivi della vita o dell'integrità delle persone non può prescindere, evidentemente, dallo stabilire in primo luogo se gli attentatori vedevano o non vedevano le potenziali vittime, se le «bersagliavano» o se piuttosto, ed al più, accettavano il rischio di colpirle: se, come testualmente ha scritto il Tribunale, «essi non potevano sapere chi o che cosa sarebbe stato colpito dal lancio di bottiglie incendiarie».

8.2. Non potrebbe d'altra parte ritenersi - come invece pare aver fatto il Tribunale - che lo scioglimento del dubbio su questo essenziale profilo degli avvenimenti sia indifferente a fini di qualificazione giuridica del fatto.

Infatti, ove il Giudice del rinvio confermasse la valutazione secondo la quale gli assalitori avevano gettato «alla cieca» le bottiglie incendiarie, la conclusione che avessero commesso il delitto di attentato previsto dall'art. 280 c.p. sarebbe incompatibile con la fisionomia della fattispecie, e dunque assunta in violazione della norma penale sostanziale.

È sufficiente in questa sede il mero richiamo alle considerazioni già espresse, in proposito, sul piano generale (supra, § 5.2.). Il delitto di attentato - a prescindere dal suo finalismo terroristico - richiede la idoneità e la univocità degli atti, cioè l'univoca loro direzione causale verso l'evento tipico, che nella specie è rappresentato dalla morte o dalle lesioni personali dei soggetti passivi. Il requisito attiene al profilo materiale del fatto, che dunque non sussisterebbe, se non fosse provato che il lancio degli ordigni era univocamente diretto ad offendere il diritto alla vita od all'integrità personale degli operai di Chiomonte.

Correlativamente, se fosse affermata una ricostruzione in fatto tale da ridurre l'atteggiamento degli assalitori ad una mera accettazione del rischio di colpire delle persone, dovrebbe dedursene la impossibilità di qualificare l'azione come delitto di attentato, per la già chiarita incompatibilità tra la struttura tipica delle fattispecie in questione ed il dolo eventuale (ed a maggior ragione con la colpa cosciente, i confini della cui nozione sembrano aver trovato una qualche espansione nella recentissima e già citata decisione delle Sezioni unite sull'argomento).

9. Le questioni appena sollevate incidono anche, mutatis mutandis, sulla contestazione del delitto di cui all'art. 280-bis c.p., sebbene l'esplosione di bottiglie incendiarie possa considerarsi «naturalmente» produttiva di danni alle cose, eventualmente molto limitati.

In ogni caso la relativa imputazione cautelare condivide, con quella elevata ex art. 280 c.p., la necessità di un adeguato compendio indiziario (e della relativa motivazione) circa la «finalità di terrorismo» che avrebbe mosso gli assalitori. Ed a questo proposito, alla luce dei rilievi generali che pure si sono espressi (§ 4), le motivazioni del Tribunale non appaiono complete.

9.1. Non è accettabile, sul piano giuridico, la tesi difensiva per la quale gli anarchici non avrebbero interesse politico ad influire sul processo decisionale dell'autorità pubblica, ma semmai direttamente e fisicamente impedire la realizzazione dell'opera contestata. Si tratta di una distinzione speciosa e comunque, anche in assenza di una delibera formale di dismissione del progetto TAV nel novero degli obiettivi perseguiti, resterebbe il dato della (perseguita) costrizione a tollerare in via di fatto un definitivo arresto dei lavori, con le relative conseguenze.

Tuttavia, come detto, la pressione illegalmente attuata sull'autorità pubblica deve presentare, in quanto tale, un connotato di idoneità alla produzione dell'evento «costrizione», e non semplicemente un finalismo soggettivamente orientato in tal senso. Tale connotato, al tempo stesso, deve essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell'agente.

È vero allora, come ha notato il Tribunale, che l'idoneità dell'azione deve essere misurata in base al «contesto» nel quale la stessa è calata. Ma si impongono al proposito, in base ai principi già sopra enunciati, alcune precisazioni.

La prima è che nel «contesto» non può essere compresa la pressione legittimamente esercitata da movimenti politici e gruppi di cittadini: la «costrizione», come si ricorderà, deve essere indebita, ed anzi propriamente connessa alla natura «terroristica» dell'azione. È inutile ribadire che una dilatazione impropria (cioè, sostanzialmente, oltre la «scala») della nozione di terrorismo rischia di condizionare meccanismi pienamente legittimi, sul piano costituzionale, di concorso nell'orientamento delle scelte politiche. E ciò si nota, ad esempio, a proposito dei poco selettivi riferimenti del Tribunale, in punto di identificazione del «grave danno» per il Paese, ai ritardi nella realizzazione dell'opera od alle spese sostenute per l'ordine pubblico.

In secondo luogo, e per quanto non sia necessaria una responsabilità personale per i fatti illeciti confluenti nel «contesto», occorre che l'idoneità sia misurata con riferimento al tempo in cui il fatto viene commesso, e con riguardo ad attività conosciute dall'agente, che può quindi rappresentarsele come fattori causali concorrenti nella produzione del rischio tipico.

Il provvedimento cautelare confermato dal Tribunale contiene nella prima parte un «quadro sinottico» dei fatti di natura illecita che, a partire dal gennaio del 2012, sono parsi collegabili all'azione sviluppata contro la TAV nella Val di Susa. Tale quadro dovrebbe appunto mettere in luce il contesto utile ad integrare le potenzialità «costrittive» del fatto in contestazione.

Subito si nota come la parte più rilevante dei fatti indicati, per quantità e comunque per qualità, si trovi a valle dell'assalto di cui si discute nella sede presente, tanto che lo stesso si configura come una sorta di «salto di qualità», anche per il ricorso «massivo» alle armi (quasi mai utilizzate in precedenti e molto più modesti fatti di danneggiamento): ricorso che solo in seguito sarebbe stato progettato un'altra volta, ma non attuato (si allude agli arresti del 30 agosto 2013, nella flagrante detenzione di materiale incendiario e fuochi pirotecnici).

Lo stesso Tribunale afferma come non vi sia (al momento) prova alcuna del coinvolgimento degli odierni indagati nei fatti antecedenti e soprattutto in quelli successivi, e d'altra parte non viene fornita alcuna motivazione circa l'eventuale pertinenza ad un disegno unitario (e preordinato al fatto) delle azioni illegali intraprese contro l'opera.

Quanto alla «natura» dell'azione (numero elevato di partecipi, modalità paramilitari di attuazione, ecc.), la stessa non può essere valorizzata in astratto, ma nella sua specifica capacità di implementare l'effetto di «costrizione» verso il potere pubblico, tanto che il Tribunale l'ha sostanzialmente riferita ad un finalismo omicida del quale, però, vanno verificate le basi probatorie.

9.2. Devono anche richiamarsi le osservazioni già svolte, in generale, circa i parametri di misurazione della idoneità dell'atto.

Quest'ultimo, nella sua specifica ed esclusiva valenza di condotta illecita (eventualmente calata in un «contesto» dalle caratteristiche sopra indicate), deve rendere attendibile la prospettiva di «costrizione» del potere pubblico, ma nel contempo creare attualmente e concretamente il rischio che si determini un grave danno per il Paese. Consista o non (in via diretta ed esclusiva) nella realizzazione del fine perseguito dall'agente (e dunque, per quanto interessa, in un evento di costrizione), quel «grave danno» deve essere la conseguenza della specifica qualità e dello specifico finalismo dell'azione considerata.

9.3. La connotazione «terroristica» dell'assalto di Chiomonte non può essere efficacemente contestata in base alla generica denuncia di una sproporzione di «scala» tra i modesti danni materiali provocati (la cui riparazione avrà richiesto poche ore) ed il macroevento di rischio cui la legge condiziona la nozione di terrorismo. Tuttavia, affinché le esigenze dell'offensività e della tassatività restino assicurate anche sul piano concreto, occorre una valutazione stringente della effettiva potenzialità lesiva della condotta.

Il Giudice del rinvio dovrà quindi verificare se, per gli effetti direttamente riferibili al fatto contestato, come tali rappresentati e voluti dagli autori nel «contesto» in cui calavano la propria azione, si sia creata una apprezzabile possibilità di rinuncia da parte dello Stato alla prosecuzione dell'opera TAV, e di un grave danno che sia effettivamente connesso a tale rinuncia o, comunque, all'azione indebitamente mirata a quel fine.

10. I ricorsi difensivi devono essere accolti anche riguardo alla contestazione sub B.

Come si è visto a suo tempo (§ 6), le fattispecie in contestazione non comprendono la «finalità di terrorismo» tra i propri elementi strutturali, e non pongono quindi direttamente i problemi trattati nel paragrafo che precede.

Il Tribunale, in effetti, ha motivato la ritenuta integrazione dei delitti de quibus in rapporto alla finalità di «mettere in pericolo l'incolumità delle persone», con ciò alludendo, evidentemente, al riferimento normativo che concerne gli «attentati».

A prescindere dalla necessità di una più precisa identificazione dell'oggetto della previsione, risulta chiara nella specie la dipendenza dell'assunto dalla ritenuta finalizzazione dell'assalto in chiave di «attentato» all'incolumità delle persone. L'assunto andrà nuovamente verificato, ed eventualmente confermato, solo all'esito del nuovo giudizio circa la ricorrenza, nei profili oggettivi e soggettivi, dei delitti contestati al capo A della rubrica.

11. I ricorsi difensivi vanno rigettati, invece, riguardo ad ogni ulteriore profilo.

11.1. Non è dubbia - riguardo al capo C della rubrica - la qualificazione delle cd. bottiglie molotov come congegni micidiali la cui fabbricazione è vietata dall'art. 1 della legge n. 897/1967, ed il cui porto in luogo pubblico è parimenti vietato dall'art. 4 della legge citata: il loro trattamento è dunque in tutto equiparato a quello delle armi da guerra, secondo quanto esplicitamente disposto dal comma 1 dell'art. 1 della legge n. 110/1975 (Sez. 2, Sentenza n. 1622 del 12 dicembre 2012, rv. 254451; Sez. 1, Sentenza n. 17218 del 22 febbraio 2001, rv. 218763; Sez. 1, Sentenza n. 6534 del 5 aprile 1991, rv. 187633; Sez. 5, Sentenza n. 948 dell'8 novembre 1984, rv. 167608; Sez. 6, Sentenza n. 2208 del 18 dicembre 1981, rv. 152579; Sez. 1, Sentenza n. 5159 del 19 dicembre 1980, rv. 149094; Sez. 1, Sentenza n. 3939 del 29 ottobre 1979, rv. 144764).

Parimenti si giustifica, nella prospettiva di valutazione tipica del giudizio cautelare, la qualificazione come ordigni esplosivi con potenzialità micidiali dei razzi da segnalazione (che secondo la consulenza citata dal Tribunale contengono diverse decine di grammi di polvere pirica) e dei petardi o razzi per uso pirotecnico, la cui pericolosità discende in particolare dalla concentrazione (ad esempio, Sez. 4, Sentenza n. 32253 del 16 giugno 2009, rv. 244630; Sez. 1, Sentenza n. 38064 del 6 novembre 2006, rv. 234979).

Le osservazioni del Tribunale circa l'autonomia dei reati in questione rispetto a quelli ipotizzati nel precedente capo B sono già state accreditate dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, Sentenza n. 9817 del 23 aprile 1990, rv. 184803), e del resto sono al momento prive di attualità, nell'attesa che venga verificata, ed eventualmente riaffermata con motivazione adeguata e pertinente, anche l'integrazione delle fattispecie di cui agli artt. 21 e 29 della citata legge n. 110/1975.

11.2. L'integrazione obiettiva del delitto pluriaggravato contestato al capo D della rubrica non è oggetto di contestazione diretta.

Gruppi di assalitori diversi da quello dedicatosi al lancio delle bottiglie molotov in prossimità del cunicolo avevano sbarrato alcuni cancelli, attirando con razzi e petardi l'attenzione delle forze di polizia presenti nel cantiere ed al tempo stesso contrastandone la necessaria azione di contenimento e repressione dei comportamenti delittuosi in atto. È giustificata in particolare, sulla base soprattutto delle risultanze esposte nel provvedimento restrittivo, la contestazione delle tre aggravanti delineate all'art. 339 c.p.

Le censure difensive, come a suo tempo si è visto, si fondano essenzialmente sulla pretesa che sarebbero comunque inutilizzabili, dati i «bassi» valori di pena previsti dalle fattispecie in considerazione, le risultanze acquisite mediante intercettazioni operate in un diverso procedimento (art. 270 c.p.p.), e dunque le informazioni ottenute a partire dalla intercettazione attuata sulla udienza bolognese al momento dell'assalto di Chiomonte. Si è già detto, però, che la tesi non può essere accolta. In sintesi: quando non utilizzabili direttamente come prove del diverso fatto interessato dalla comunicazione, le intercettazioni «casuali» possono e devono valere come notizia del reato e come spunto per l'autonomo accertamento del medesimo; d'altra parte, un quadro indiziario grave della partecipazione dei singoli indagati all'assalto si risolve, specie nell'odierna prospettiva di valutazione, in adeguata prospettazione indiziaria del concorso nella specifica azione di contrasto all'intervento delle forze di polizia, che era stata con ogni evidenza preordinata ed organizzata con cura.

Quanto infine all'individuazione «generale» degli odierni ricorrenti quali partecipi dell'assalto, si è già notato come lo stesso Tribunale del riesame abbia operato una verifica di «resistenza» dell'ipotesi accusatoria a fronte di una ipotetica rimozione delle perizie foniche dal compendio probatorio, giungendo alla conclusione della persistenza di un quadro indiziario adeguato (§ 2.4.). Si tratta di una valutazione di merito, coerentemente ed esplicitamente argomentata, a fronte della quale il compito della Corte può considerarsi esaurito.

12. Sono infondate, oltreché generiche, le censure difensive attinenti al giudizio di forte pericolosità - contenibile unicamente per il mezzo della custodia in carcere - che i Giudici del merito hanno formulato nei confronti dei ricorrenti.

La parte relativa dell'ordinanza che ha disposto la misura in corso di applicazione, richiamata adesivamente dal provvedimento di conferma, è più che adeguata al modello legale di motivazione. Essa riporta brani di comunicazioni della polizia giudiziaria, o sintesi delle medesime, dalle quali per altro si ricavano informazioni di dettaglio, per ciascuno dei ricorrenti, a proposito dei precedenti giudiziari, che sono molti e specifici (per Zanotti si allude anche ad un precedente penale). Il Giudice di prime cure ha vagliato singolarmente e criticamente tali informazioni, traendone l'ovvia considerazione che gli indagati sono persone (in ipotesi) disponibili a commettere reati politicamente motivati, anche molto gravi, nonostante molte esperienze di «contatto» con il sistema di tutela dell'ordine pubblico e con l'apparato giudiziario, risultate evidentemente inutili in chiave dissuasiva.

Lo stesso Giudice per le indagini preliminari, ed ancor più il Tribunale del riesame, hanno poi enunciato, e correttamente motivato, la convinzione che l'adeguatezza esclusiva della custodia in carcere dovrebbe essere comunque ritenuta in base al segnale di pericolosità che promana dalla gravità e dalla connotazione dei fatti: approccio ad una «logistica» fondata anche sulla realizzazione di delitti "comuni" (acquisizione di utenze telefoniche intestate falsamente), preparazione ed uso di armi (anche micidiali), conduzione paramilitare dell'assalto, coinvolgimento di numerosissime persone.

L'influenza determinante della presunzione di inadeguatezza delle misure alternative alla carcerazione (operante per i delitti sub A per effetto dell'art. 275, comma 3, c.p.p.) è stata espressamente esclusa dal Tribunale del riesame. Dunque, l'annullamento con rinvio del provvedimento di conferma, relativamente a quei delitti, non incide neppure in termini sostanziali sulla «tenuta» del provvedimento impugnato in punto di esigenze cautelari e di identificazione della misura necessaria per la relativa assicurazione.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi A e B e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Torino.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.

Depositata il 27 giugno 2014.

L. Tramontano (cur.)

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