Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 10 marzo 2015, n. 11467

Presidente: Fiandanese - Estensore: Gallo

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 20 novembre 2012, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Gup presso il Tribunale di Barletta, in data 16 ottobre 2006, che aveva condannato C. Pasquale alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed euro 600,00 di multa per i reati di tentata violenza privata (capo A), violazione di domicilio e lesioni personali (capo B) e rapina (capo C).

2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l'atto d'appello, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati a lui ascritti ed equa la pena inflitta.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso l'imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando quattro motivi di gravame con i quali deduce:

3.1 con riferimento al delitto di rapina, violazione di legge, contestando la sussistenza del dolo specifico non potendosi considerare "ingiusto" il profitto morale a cui mirava l'agente che si impossessò del telefonino della sua ex fidanzata al solo fine di far conoscere al padre di costei i messaggi che la stessa riceveva da un altro uomo. Eccepisce, inoltre, che in sede cautelare il Tribunale del riesame aveva escluso il reato di rapina reputando insussistente il requisito dell'ingiustizia del profitto.

3.2 con riferimento al capo B), violazione di norme processuali, avendo la persona offesa dichiarato di voler rimettere la querela, determinando così l'estinzione del reato di lesioni personali.

3.3 sempre con riferimento al capo B), manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 614 c.p.

3.4 con riferimento al capo A), mancanza e manifesta illogicità della motivazione in quanto l'affermazione di responsabilità per il reato di tentata violenza privata sarebbe del tutto apodittica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.

2. È manifestamente infondato il primo motivo di ricorso in punto di insussistenza del dolo specifico per il delitto di rapina, sotto il profilo dell'assenza del requisito dell'ingiustizia del profitto. Secondo un indirizzo consolidato e risalente di questa Corte, nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14 febbraio 1990 Ud. (dep. 31 maggio 1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 6 marzo 2009 Ud. (dep. 23 marzo 2009) Rv. 243953). Pertanto la Corte ha ritenuto che anche il fine di ottenere "un bacio" dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell'utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 7 dicembre 2012 Ud. (dep. 19 dicembre 2012) Rv. 253848). Nel caso di specie il ricorrente riconosce di aver agito per perseguire un'utilità di carattere morale (non patrimoniale), sottraendo il telefono cellulare alla ex fidanzata, ma contesta il carattere "ingiusto" di tale utilità, osservando che l'azione dell'imputato è stata finalizzata esclusivamente a dimostrare al padre della sua (ex) fidanzata, attraverso i messaggini telefonici, i tradimenti perpetrati dalla figlia, e, dunque, l'esistenza di una relazione con un altro uomo «sicché l'intento del prevenuto è stato quello non già di conseguire un profitto ingiusto, bensì di dimostrare al genitore della sua ragazza l'ingiustizia e la scorrettezza del comportamento tenuto dalla figlia».

3. Orbene, a parere del Collegio, proprio tale riconosciuta finalità integra pienamente il requisito dell'ingiustizia del profitto morale che l'agente voleva ricavare dall'impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L'instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all'autodeterminazione fondato sull'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine. Nel caso di specie la pretesa dell'agente di "perquisire" il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi - dal suo punto di vista - compromettenti, assume i caratteri dell'ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, di cui al capo A), avente ad oggetto il tentativo del C. di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell'ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall'agente mediante l'impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.

4. Di conseguenza può essere formulato il seguente principio di diritto:

"nel delitto di rapina sussiste l'ingiustizia del profitto quando l'agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un'utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell'autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane".

5. È manifestamente infondata l'eccezione di estinzione del reato di lesioni personali per remissione di querela, sollevata con il secondo motivo di ricorso, essendo il reato perseguibile d'ufficio in quanto aggravato ex art. 61, n. 2, c.p.

6. Ugualmente inammissibili sono le censure sollevate con il terzo e quarto motivo, poiché si risolvono in censure generiche, al limite dell'aspecificità e non scalfiscono la solidità della motivazione che ha giustificato le conclusioni assunte dalla Corte territoriale in punto di sussistenza del reato di violazione di domicilio e del tentativo di violenza privata.

7. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, si stima equo determinare in euro 1.000,00 (mille/00).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.

Depositata il 19 marzo 2015.

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