Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Sezione II-quater
Sentenza 20 marzo 2015, n. 4384

Presidente: Pugliese - Estensore: Morabito

FATTO E DIRITTO

Con l'atto introduttivo dell'odierno giudizio, il ricorrente, cittadino bengalese, impugna il decreto ministeriale con il quale gli è stata rigettata l'istanza di concessione della cittadinanza italiana, traendone argomento dal fatto che, nel corso di colloquio, tenutosi presso la Questura di Vicenza, l'interessato ha mostrato una scarsa conoscenza della lingua italiana ed un insufficiente livello di integrazione nella comunità nazionale, nonostante la sua presenza pluriennale nel territorio italiano (testualmente nel provvedimento impugnato è detto "... durante il colloquio ha dimostrato di non conoscere i principi fondamentali cui si ispira l'Ordinamento statuale, di non comprendere ciò che legge, di volere ottenere la cittadinanza italiana al solo scopo di potersi recare all'estero con minori difficoltà, di avere un livello di integrazione nella collettività nazionale insufficiente"). Detto carente livello di assimilazione, rispetto alla quale la lacunosa conoscenza della lingua italiana, gioca un ruolo dirimente non consentendo una piena identificazioni con i valori storici e i principi giuridici e costituzionali propri dell'Ordinamento, gli è stato partecipato col preavviso di cui all'art. 10-bis di cui alla legge n. 241 del 1990: preavviso rimasto privo di replica.

Nel gravame si contesta l'inadeguatezza della motivazione dell'atto che fa leva su elementi solo presunti ed inesistenti in capo al ricorrente nonché l'idoneità professionale degli operatori della Questura di Vicenza a valutare la sufficiente, o meno, integrazione nella comunità nazionale dello stesso, il quale - in contraddizione con quanto asserito dal citato ufficio di p.s. - ha conseguito nel 2004 la patente di guida di cat. "CE" ed ha frequentato nel 2001 un corso di formazione lavoro presso ente di istruzione professionale accreditato dalla Regione Veneto. Inoltre la certificazione inerente il possesso di detti titoli è stata trasmessa via mail al Ministero in replica al preavviso di cui all'art. 10-bis citato ed è stata allegata ad istanza del 27 marzo 2013 col quale è stato chiesto il riesame del provvedimento di rigetto in questa sede gravato: istanza illegittimamente rimasta priva di seguito.

Nel merito il ricorso, in virtù di quanto appresso verrà osservato, non può trovare accoglimento.

L'art. 9 della legge n. 91 del 1992 afferma che la cittadinanza "può essere concessa" ed i termini "può" e "concessa" sottolineano il carattere altamente discrezionale del provvedimento (rientrante secondo la tradizionale ed uniforme interpretazione della dottrina tra quelli di alta amministrazione: in giur., in tal senso, cfr. C.d.S. n. 4748 del 2008). I requisiti prescritti dall'art. 9 costituiscono, pertanto, solo i presupposti che consentono di avanzare l'istanza di naturalizzazione al cui accoglimento si possono, forse ed al più, ravvisare aspettative giuridicamente tutelate (cfr., in tal senso, C.d.S., IV, n. 798 del 1999).

E ciò in quanto al conferimento dello status civitatis italiano è collegata una capacità giuridica speciale propria del cittadino cui è riconosciuta la pienezza dei diritti civili e politici: una capacità alla quale si ricollegano anche doveri, che non è territorialmente limitata e cui sono speculari determinati obblighi di facere gravanti sullo Stato comunità (cfr. su tale principio, C.d.S. n. 196 del 2005).

Dunque la concessione della cittadinanza italiana - lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi - rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri (cfr. sul principio, ex multis, C.d.S. n. 798 del 1999).

Si tratta, altrimenti detto, di apprezzare, oltre alla residenza decennale ed all'inesistenza di fattori ostativi, la sussistenza di ulteriori elementi che giustificano la concessione e motivano - come ebbe a dire il Consiglio di Stato nel parere della I Sezione n. 914/66 del 4 maggio 1966 - "l'opportunità di tale concessione". E tanto anche al fine di evitare che, attraverso il conferimento dello status civitatis, lo straniero - cui nell'attuale Ordinamento non è più richiesto, a differenza di quanto accadeva sotto l'impero della legge n. 555 del 1912, di rinunciare alla cittadinanza di origine - possa aspirare alla naturalizzazione italiana (conservando nel contempo quella del Paese di appartenenza) per comodità di carriera, di professione o di vita.

Dunque la norma dell'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91 del 1992 deve essere intesa come indicativa di una fattispecie affidata a valutazioni ampiamente discrezionali che implicano un delicato bilanciamento di interessi fra l'aspirazione di un residente straniero ad essere pienamente integrato nella comunità nazionale e l'interesse di quest'ultima ad accogliere come nuovi cittadini solo soggetti in grado di rispettarne le regole, ivi comprese quelle attinenti alla solidarietà sociale, nei termini previsti dalla Costituzione. La sintesi che può trarsi da tali principi è quella per cui l'inserimento dello straniero nella comunità nazionale è legittimo allorquando l'amministrazione ritenga che quest'ultimo possieda ogni requisito atto ad inserirsi in modo duraturo nella comunità e sia detentore di uno status illesae dignitatis morale e civile (come condivisibilmente ebbe a precisare il Consiglio di Stato in un parere che, sebbene del 19 gennaio 1956, conserva integra la sua attualità) nonché di un serio sentimento di italianità che escluda interessi personali e speculativi sottostanti alla concessione dello status di cui trattasi: concessione che costituisce l'effetto della compiuta appartenenza alla comunità nazionale e non causa della stessa.

Precisato quanto sopra segue che, correttamente, l'Amministrazione può porre a base del diniego di riconoscimento della cittadinanza una contestata ed evidente inadeguatezza nella comprensione della lingua italiana.

Al riguardo, osserva il Collegio che, come più volte affermato da questa stessa Sezione, la mancanza di padronanza della lingua nazionale costituisce un elemento determinante nella valutazione della non ancora sufficiente integrazione dello straniero nel tessuto sociale e nella comunità nazionale (cfr., ex plurimis, sentt. n. 2262 e n. 1152 del 2014; n. 8693 e 8694 del 2013). D'altro canto, non può non ricordarsi che anche per il rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo è ora richiesto un livello minimo di conoscenza della lingua (livello A2 del quadro di riferimento Europeo). È dunque evidente che nel caso si tratti di rilascio della cittadinanza italiana sia necessario un livello di apprendimento ben maggiore.

Nel caso di specie, il ricorrente ha allegato delle circostanze di fatto (la frequentazione di un corso di formazione ed il superamento dell'esame per la patente di guida) le quali, per la loro valenza meramente indiretta, non possono ritenersi idonei a superare il giudizio negativo espresso dalla Questura di Vicenza nel 2012 sulla scarsa conoscenza dell'idioma nazionale. Né, a tal riguardo, alcun addebito di carente istruttoria può essere mosso alla resistente Amministrazione, posto che dette allegazioni sono state curate nella presente sede processuale, non avendo l'interessato replicato al preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241 del 1990 come nel provvedimento impugnato è detto. A tal riguardo va rammentato che detta disposizione impone all'amministrazione di tener conto delle osservazioni, eventualmente corredate di documenti, che la parte preavvisata presenta "per iscritto" e non - come accaduto nel caso di specie - attraverso la casella di posta elettronica di dipendente del Servizio addetto all'istruttoria della pratica di naturalizzazione. Né può essere condivisa la doglianza che fa leva sul contegno inerte serbato dalla P.A. a fronte dell'istanza di riesame (cui sono state allegate le predette due certificazioni) della negativa determinazione adottata; e ciò in quanto l'elemento costitutivo dell'azione avverso il silenzio della P.A. è costituito dalla sussistenza di un obbligo giuridico di provvedere in capo all'amministrazione; di conseguenza, a fronte di un'istanza tendente ad ottenere l'esercizio dei poteri di riesame non sorge, in capo all'Amministrazione, l'obbligo giuridico di provvedere, secondo quanto richiesto dall'art. 2, l. n. 241 del 1990, essendo l'attività connessa all'esercizio dell'autotutela espressione di ampia discrezionalità e, come tale, incoercibile dall'esterno. E, argomento a fortiori, non sussiste alcun obbligo, a carico dell'amministrazione, di provvedere al riesame su istanza dell'interessato, una volta che questi - come nel caso di specie - ha esercitato il diritto di azione, avendo titolo l'amministrazione, al pari dell'amministrato ricorrente ed in posizione reciproca, di esigere la verificazione della legittimità del proprio operato da parte del giudice adito alla stregua delle censure dedotte contro il provvedimento del quale è chiesto il riesame. E considerazioni non dissimili non possono che spendersi con riguardo a certificazioni, distinte da quelle sopra evidenziate ed alcune delle quali postume all'atto gravato, esibite solo in questa sede e mai portate a conoscenza della P.A. procedente.

Né condivisibile appare il profilo di censura facente leva su una presunta inidoneità professionale degli addetti all'Ufficio della p.s. che ha curato il colloquio con il ricorrente. Per converso i funzionari delle Forze di polizia (Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri) preposti a tali Uffici si relazionano costantemente con gli immigrati e non appare lecito dubitare che tale diuturno rapporto e la compiuta conoscenza della realtà locale nella quale operano, consenta loro - senza la necessità di dotarsi di ulteriori e specifici titoli professionali - di esprimersi, qualificatamente, sulla conoscenza, o meno, da parte dello straniero della lingua italiana e della sua compiuta integrazione nella Comunità.

In ragione delle suesposte osservazioni il ricorso va respinto.

Ad avviso del Collegio sussistono i presupposti, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., per come richiamato espressamente dall'art. 26, comma 1, c.p.a., per compensare integralmente le spese di giudizio tra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

A. Di Tullio D'Elisiis

La riforma dell'udienza preliminare

Maggioli Editore, 2024

F. Del Giudice, B. Locoratolo

Compendio di diritto amministrativo

Simone, 2024

G. Fiandaca, E. Musco

Diritto penale

Zanichelli, 2024