Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 18 marzo 2015, n. 16924

Presidente: Agrò - Estensore: Citterio

CONSIDERATO IN FATTO

1. Edoardo L., avvocato, è imputato in procedimento penale nel quale gli si contestano i reati di furto pluriaggravato, falso per soppressione e calunnia (avrebbe sottratto, da fascicolo che lo riguardava ed era collocato nella cancelleria GIP del Tribunale di Pordenone, quattro fogli - in particolare un verbale di sommarie informazioni e una missiva del pubblico ministero assegnatario al procuratore della Repubblica - sopprimendoli o rendendoli non più reperibili e, al momento del rinvenimento di uno di essi presso il proprio studio legale nel corso di una perquisizione, avrebbe attribuito al personale di cancelleria la condotta dell'avergli dato la copia gratuitamente senza richiesta e con immediatezza, così configurandosi nei loro confronti condotta di abuso d'ufficio; fatti del 13 e del 29 marzo 2010).

Il decreto di rinvio a giudizio è stato deliberato in data 23 settembre 2011 con fissazione dell'udienza del 15 novembre 2011 avanti un primo Giudice.

Risulta dai verbali di udienza, che questa Corte ha acquisito in copia ai sensi dell'art. 48, comma 1, c.p.p., che, dopo un primo rinvio per adesione del difensore a iniziativa di astensione collettiva dalle udienze, all'udienza del 7 febbraio 2012 è stata data comunicazione dell'astensione di tale primo Giudice per incompatibilità (in relazione ad attività svolta come GIP nel procedimento) e dell'assegnazione del processo a un secondo Giudice: contestualmente la difesa dell'imputato ha depositato dichiarazione di ricusazione di tale secondo Giudice. All'udienza del 28 giugno 2012 il secondo Giudice ha proceduto con l'attività di istruzione dibattimentale, ai sensi dell'art. 37, comma 2, c.p.p. Con sentenza del 4 luglio-21 settembre 2012 questa Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da L. avverso l'ordinanza con cui in data 21 febbraio 2012 la Corte d'appello di Trieste aveva dichiarato inammissibile la dichiarazione di ricusazione (proposta il 7 febbraio 2012): si evince dal testo della sentenza che la dichiarazione di ricusazione era stata argomentata con la precedente partecipazione del medesimo magistrato a due collegi del Tribunale del riesame in sede di cautela reale, con provvedimenti adottati il 12 giugno 2010 e, dopo annullamento con rinvio da parte di questa Corte, il 28 febbraio 2011. Alle udienze del 28 marzo 2013 e del 13 maggio 2013 è stata svolta attività istruttoria. L'udienza dell'8 luglio 2013 è stata rinviata per adesione del difensore a iniziativa di astensione collettiva dalle udienze. All'udienza del 24 marzo 2014, in esito ad attività istruttoria il difensore ha ricusato il medesimo secondo Giudice per avere espresso un'anticipazione di giudizio con la frase "farà valere le sue motivazioni in fase d'appello", dopo la disposta revoca dell'ammissione di tre testi indicati dalla difesa, in ragione della loro argomentata superfluità allo stato. Il processo è stato rinviato all'udienza del 19 gennaio 2015 e nel frattempo la Corte d'appello di Trieste ha disatteso la dichiarazione di ricusazione, con ordinanza non impugnata. All'udienza del 19 gennaio 2015 il secondo Giudice ha respinto la sollecitazione della difesa ad astenersi ed ha rinviato il processo all'udienza del 30 marzo 2015, per attendere l'esito del "ricorso per trasferimento di sede processuale ex art. 45 c.p.p." nel frattempo proposto dall'imputato con atto depositato nella cancelleria del Tribunale di Pordenone il 13 gennaio 2015: tale richiesta di rimessione è oggi all'esame di questa Corte.

2. La richiesta di rimessione indica la propria ragione nell'"incompatibilità ambientale della sede giudiziaria di Pordenone per motivi risarcitori civili ex lege n. 117/1988" nei confronti del secondo Giudice e di altri due magistrati, in servizio presso il tribunale penale di Pordenone.

Secondo il richiedente, sussisterebbe una posizione di "incompatibilità e conflitto di interessi" nei suoi confronti e in capo ai magistrati della locale sezione penale, "pendendo un'azione civile per risarcimento dei danni giudiziari" cagionatigli a seguito dell'ordinanza che in data 11 giugno 2010 aveva respinto la sua istanza di annullamento del sequestro dello studio, deliberata sulla base di una poi pacificamente riconosciuta erronea lettura del verbale di perquisizione: tale ordinanza era infatti stata annullata con sentenza 3692/2011 deliberata il 10 dicembre 2010 della Corte di cassazione. Il giudizio di rinvio era avvenuto con collegio che comprendeva ancora il secondo Giudice ed uno degli altri due precedenti componenti, secondo il ricorrente in violazione dell'obbligo di procedere alla nuova deliberazione in diversa composizione [ma, va subito osservato, l'art. 623, lett. d), c.p.p. prevede la diversa composizione del giudice del rinvio nel caso di annullamento solo di sentenze, non pure di ordinanze]. La seconda ordinanza (deliberata il 28 febbraio 2011) avrebbe appunto ammesso un errore nella lettura del verbale di perquisizione e sequestro, sul punto che la perquisizione si era effettivamente già conclusa nella stessa giornata con il sequestro di materiale informatico, mentre il rigetto contenuto nella prima ordinanza presupponeva un sequestro dell'intero studio (coinvolgente anche l'attività di altri due soggetti, l'avv. C. e tal sig. Ennio C.) tuttora in atto per attuali esigenze probatorie.

L'istante deduce che la causa per responsabilità civile era stata proposta nei confronti dei tre magistrati, tra cui appunto il secondo Giudice che attualmente sta trattando il dibattimento, e radicata davanti al Tribunale di Trieste, in data contestuale a quella di presentazione della presente richiesta di rimessione.

Spiega il richiedente che i tre magistrati "rappresentano di fatto l'organico della sezione penale del tribunale di Pordenone" sicché "il presente processo non può essere celebrato in questa sede, perché in ogni caso sarebbe assegnato ad uno di questi tre magistrati" o ad altri del pari incompatibili come il GUP che si era occupato dell'udienza preliminare [egli pure ricusato come risulta dalla sentenza di questa Corte n. 45805/2012] o il primo Giudice originariamente designato secondo il sistema tabellare, che si era già occupato di "varie istanze inerenti lo status libertatis" del richiedente.

Su tali premesse in fatto, il richiedente deduce che:

- l'appena radicata pendenza civile risarcitoria sarebbe in concreto contro l'intero Tribunale penale di Pordenone, il che renderebbe impossibile la celebrazione del processo in tale sede "per manifesto conflitto di interessi e incompatibilità di tutti i giudici penali";

- il conflitto di interessi investirebbe tutto il Tribunale, prescindendo dal fatto che l'azione civile per danni sia stata in concreto proposta nei confronti dei tre soli magistrati che avevano deliberato l'ordinanza 11 giugno 2010.

L'intero Tribunale sarebbe pertanto inidoneo alla fisiologica funzione giudicante essendo venuta meno la sua imparzialità, con lesione del diritto dell'imputato a essere processato da un giudice terzo ed imparziale, tanto più quando il giudice del dibattimento risulti coinvolto "nelle argomentazioni non conformi a legalità con ordinanze o decisioni che le confermino".

Da qui, per il ricorrente, la fondatezza del sospetto di incompatibilità ambientale e di mancanza di presupposti per un giusto processo, mancando la garanzia che non sussista e non sia evitabile la tentazione di condannare l'innocente per ridurre le conseguenze della propria responsabilità. Conclude il ricorrente che "non è mai giusto un processo in cui il giudice è anche debitore della persona che lo deve giudicare" tanto più se "proprio per danni cagionati alla vittima messa alla sua mercé nell'ambito dello stesso processo".

Va da ultimo dato conto del fatto che l'imputato aveva nominato per l'assistenza tecnica in questa procedura incidentale l'avv. Sandra C., che tuttavia non risulta iscritta nell'albo speciale della Corte di cassazione (art. 613 c.p.p.).

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. La richiesta di rimessione va dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza. Conseguente è la condanna del richiedente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2500 (duemilacinquecento), equa al caso, alla Cassa delle ammende.

4. La richiesta di rimessione è innanzitutto argomentata con l'avvenuta proposizione, in pari data (13 gennaio 2015), di azione di responsabilità civile ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117, nei confronti sia del Giudice che sta celebrando il dibattimento che lo riguarda sia di altri due magistrati della sezione penale del Tribunale di Pordenone che, con il primo, concorsero (in data 11 giugno 2010) a deliberare ordinanza del Riesame, in sede cautelare reale, poi annullata con rinvio (in data 10 dicembre 2010) da questa Corte.

In sintesi, secondo il richiedente, in ragione della pendenza di tale azione civile risarcitoria, pur formalmente diretta a soli tre magistrati, sussisterebbe un "manifesto conflitto di interessi e incompatibilità di tutti i giudici penali" in servizio presso il Tribunale di Pordenone (p. 9), idoneo a fondare "un più che legittimo e fondato" "sospetto di incompatibilità ambientale e di mancanza di presupposti per un giusto processo", per essere venuta meno la terzietà e l'imparzialità del giudice (p. 9), essendo il giudicante divenuto "debitore dell'imputato" e sussistendo l'evidente sua forte tentazione di decidere il processo penale pendente in modo da "ridurre e/o annichilire la propria responsabilità civile e morale nei confronti dello stesso, per i fatti qui denunziati" (p. 10).

5. Giudica la Corte che, per le assorbenti ragioni che si esporranno, in questo caso non sia indispensabile affrontare il pur astrattamente pertinente tema della possibilità, per il giudice penale, di valutare incidenter tantum l'ammissibilità dell'azione civile proposta ai sensi della legge 117/1988, questione ora tanto più rilevante a fronte dell'intervenuta eliminazione del "filtro" costituito dal preliminare esame dell'ammissibilità della domanda, previsto dall'originario testo dell'art. 5 legge n. 117/1988 ed appunto abrogato dalla legge n. 18 del 25 febbraio 2015. Nella fattispecie, infatti, per espressa deduzione dell'istante l'azione risulterebbe proposta non solo davanti a giudice incompetente (il Tribunale di Trieste e non quello individuato ex art. 11 c.p.p., come imposto dall'art. 4 legge 117/1988) ma pure oltre il termine di decadenza (sia quello biennale vigente alla data del 13 gennaio 2015, sia quello triennale introdotto dalle modifiche contenute nella legge n. 18/2015, termine che, ai sensi del medesimo art. 4, in questo caso decorre dalla data dell'annullamento con rinvio, 10 dicembre 2010).

6. La precedente esposizione delle deduzioni che in concreto sorreggono l'istanza di rimessione evidenzia, da parte dell'istante, una parziale sovrapposizione di due istituti del tutto differenti: quella del "legittimo sospetto", riconducibile a situazione locale di tale natura e gravità da rendere pressoché inevitabile la negativa incidenza sul sereno e corretto svolgimento del processo (art. 45 c.p.p.), e quella della ricusazione, in ragione dell'essere il giudice debitore della parte ovvero dell'esservi inimicizia grave tra il giudice e la parte [art. 37 in relazione all'art. 36, lett. a) e d), c.p.p.].

6.1. I rigorosi presupposti di configurabilità del "legittimo sospetto" sono stati precisati dalle Sezioni unite di questa Corte subito dopo la modifica dell'art. 45 c.p.p., introdotta dalla legge 7 novembre 2002, n. 248. Con l'ordinanza n. 13687 del 28 gennaio 2003 Cc. (dep. 26 marzo 2003) le Sezioni unite hanno formulato i principi di diritto, qui pertinenti, nei seguenti termini: «L'istituto della rimessione ha carattere eccezionale, implicando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge e, come tale, comporta la necessità di un'interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la translatio iudicii. Ne consegue che, da un lato, per grave situazione locale deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per la non imparzialità del giudice (inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito) o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo e, dall'altro, che i motivi di legittimo sospetto possono configurarsi solo in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa. Ai fini della rimessione del processo, i provvedimenti e i comportamenti del giudice possono assumere rilevanza a condizione che siano l'effetto di una grave situazione locale e che, per le loro caratteristiche oggettive, siano sicuramente sintomatici della mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo».

La giurisprudenza successiva, in materia di rimessione per legittimo sospetto, ha in effetti costantemente insegnato che la gravità della situazione locale, sola idonea ad arrecare pregiudizio alla "serenità" del giudice - inteso come intero organo giudiziario - e delle parti, va valutata con riferimento al contesto ambientale extragiudiziario, coevo al processo, la cui esistenza va accertata prescindendo da ciò che accade nel processo stesso, quindi da un fenomeno esterno alla dialettica processuale, in quanto i comportamenti endo-processuali possono assumere rilevanza soltanto una volta autonomamente verificata l'esistenza della grave situazione locale (Sez. 1 sent. 30482/2004, Sez. 4 sent. 35854/2006). Per la rimessione, quindi, rilevano solo comportamenti e provvedimenti endoprocessuali del pubblico ministero e del giudice sintomatici di una mancanza di imparzialità dell'intero ufficio giudicante nella sede di svolgimento del processo e tuttavia collegati da un nesso di causalità ad una grave situazione locale, da intendersi come fenomeno esterno alla dialettica processuale (Sez. 6 ord. 15741/2013).

6.2. Risultano pertanto tendenzialmente del tutto estranei al "sistema" che caratterizza l'istituto della rimessione i rapporti personali tra parte e giudici, che tendenzialmente riguardano invece l'istituto della ricusazione. Istituto che, tra l'altro, prevede e disciplina espressamente l'evenienza che la sostituzione del singolo giudice non possa operare all'interno del singolo ufficio giudiziario: in tal caso, l'art. 44, comma 2, c.p.p. dispone che la corte o il tribunale (secondo la competenza determinata dalla fattispecie concreta) "rimetta" il procedimento al giudice ugualmente competente per materia, determinato a norma dell'art. 11.

Risulta così del tutto infondata la prospettazione del richiedente, laddove pare sollecitare l'utilizzazione del peculiare istituto della rimessione per fronteggiare una asserita diffusa "incompatibilità personale" di vari magistrati dell'Ufficio giudicante davanti al quale è in trattazione il suo processo penale, vuoi per ragioni processuali oggettive (l'adozione in fasi precedenti del medesimo procedimento di provvedimenti espressamente richiamati dall'art. 34 c.p.p., quale risultante anche in esito alle numerose interpolazioni apportate dalla Corte costituzionale), vuoi per ragioni legate allo specifico rapporto con l'imputato a seguito del compimento di atti d'ufficio. Ove infatti ricorressero effettive cause fonti autonome di ricusazione ai sensi dell'art. 37 c.p.p. (tali ovviamente giudicate non dall'imputato ma dalla competente autorità giudiziaria all'esito delle pertinenti procedure incidentali) e non fosse possibile individuare le necessarie sostituzioni all'interno dell'ufficio giudiziario, il procedimento dovrebbe essere "rimesso" ad altro ufficio giudiziario sempre nell'ambito dell'istituto della ricusazione, secondo appunto quanto disposto dall'art. 44, comma 2.

6.2.1. A fronte di una prospettazione del ricorrente connotata da apparente suggestività, anche attraverso questa ripetuta sovrapposizione di tematiche relative alla costituzione ed all'evoluzione di un corretto rapporto processuale che (pur accomunate dall'esito: la sostituzione del giudicante all'interno del medesimo o in altro ufficio giudiziario) sono come osservato tuttavia intrinsecamente diverse, risulta opportuno chiarire come, in realtà, proprio le singole proposizioni della complessiva prospettazione risultino infondate in diritto.

Innanzitutto, il magistrato la cui condotta professionale sia stata oggetto di una domanda risarcitoria ex lege n. 117/1988 non assume mai la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l'assorbente ragione che la domanda (anche dopo la legge n. 18/2015) può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi i casi di condotta penalmente rilevante, art. 13). Né la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell'originaria azione si sia conclusa con la condanna dell'Amministrazione, muta la conclusione, perché i presupposti e i contenuti dell'azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell'azione diretta della parte privata nei confronti del solo Stato (art. 7; artt. 2 e 3). Il che, tra l'altro, impone di escludere che anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex lege n. 117/1988 (art. 6), si instauri un rapporto diretto parte/magistrato che possa condurre alla qualificazione del secondo in termini di anche solo potenziale debitore della prima.

In altri termini, non solo la qualità di debitore si assume nel momento in cui viene riconosciuta la compiuta fondatezza della pretesa risarcitoria, e non prima, ma nel caso del sistema della legge n. 117/1988 il magistrato la cui condotta professionale è valutata nel processo civile non potrà mai assumere la qualità di debitore della parte privata.

Sotto tale profilo, quindi, l'azione di responsabilità ex lege n. 117/1988 ha una struttura sistematica ed una valenza in definitiva meno utili allo scopo perseguito dall'imputato con l'odierna richiesta (non essere giudicato a Pordenone) rispetto ad una "normale" causa civile o denuncia penale.

Alle quali, pure e in secondo luogo, la costante giurisprudenza già nega comunque alcuna efficacia ad integrare anche solo la condizione dell'inimicizia grave [art. 37 in relazione all'art. 36, lett. d), c.p.p.] e quindi la idoneità a fondare, per sé, un'utile ricusazione.

È sufficiente richiamare, per tutte, Sez. 5 sent. 8429/2007, che con efficace argomentare sintetizza le ragioni del "sistema" in punto di ricusazione: la denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice sono entrambe "fatto" riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla (discrezionale) iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare (si vedano comunque anche Sez. 6 sent. 38176/2011, Sez. 6 sent. 45512/2010, Sez. 2 sent. 30443/2003).

Ciò vale pure nel caso di esposti presentati in precedenza dalla parte contro il magistrato (Sez. 6 sent. 2830/1995, Sez. 6 sent. 2491/1996): il che rileva quindi, quanto alla legge n. 117/1988 anche dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 23/2015, pure in ordine ai possibili automatismi afferenti la verifica della sussistenza di un rilievo disciplinare, conseguente alla presentazione della domanda risarcitoria nei confronti dello Stato (attuale art. 9).

6.2.2. Deve quindi riaffermarsi (Sez. 5 sent. 8429/2007) che l'azione di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie esercitata ai sensi della legge 117/1988 anche dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 23/2015 non costituisce per sé ragione idonea e sufficiente ad imporre la sostituzione del singolo magistrato. Del tutto autonoma rimane la problematica sulla eventuale dichiarazione di astensione ai sensi dell'art. 36, lett. h), c.p.p., per l'assorbente ragione che in questo caso ogni più ampio apprezzamento rimane attribuito alla giurisdizione, sicché non sussiste alcuna possibilità di automatismo legato alla discrezionale iniziativa della parte (meccanismo strutturalmente non tollerato dal principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge).

Tantomeno tale azione è pertanto idonea e sufficiente, anche se rivolta nei confronti di una pluralità di magistrati di un medesimo ufficio giudiziario, ad imporre la rimessione del processo ad altra sede giudiziaria ai sensi degli artt. 45 ss. c.p.p., quasi che la mera pluralità dei casi potesse attribuire una consistenza che il singolo caso non possiede (e non già perché numero singolo bensì per struttura della fattispecie).

6.2.3. Venendo alle conclusioni e tornando ai presupposti dell'istituto della rimessione del processo disciplinato dagli artt. 45-49 c.p.p., prima richiamati al paragrafo 6.1.

Le ragioni dedotte dal ricorrente non integrano, se non in termini solo assertivi e oggettivamente erronei in diritto, una grave situazione locale, esterna alla dialettica processuale, idonea a fuorviare la serenità del giudizio riverberandosi sull'organo giudicante indipendentemente dalla sua composizione.

L'istituto della rimessione ha natura assolutamente eccezionale (Sez. 1 ord. 5682/1997) e non costituisce una sorta di cumulo generale e generico di ricusazioni individuali dei componenti di un intero ufficio giudiziario: sicché, quand'anche fosse ipotizzabile la ricusabilità di tutti i singoli magistrati di un medesimo ufficio giudiziario in relazione ad uno specifico procedimento, devono essere allegate specifiche cause di ricusazione con riferimento ai singoli giudici e seguite le corrispondenti specifiche diverse procedure (Sez. 6 sent. 1611/1997), senza che l'accertata infondatezza delle pertinenti doglianze nella sede propria della ricusazione possa invece fondare la reiterazione delle medesime censure nel contesto del diverso istituto della rimessione (questa essendo procedura per situazioni "non altrimenti ineliminabili" e non già considerate come idonee ad attivare specifiche diverse procedure: Sez. 1 sent. 634/1996).

La proposizione di più azioni di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, esercitata ai sensi della legge 117/1988 e pur dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 23/2015 nei confronti di più magistrati di un medesimo ufficio giudiziario, non costituisce grave situazione locale idonea ad imporre la rimessione del processo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile la richiesta di rimessione e condanna l'istante al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2500 (duemilacinquecento) a favore della Cassa delle ammende.

Depositata il 23 aprile 2015.