Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 16 luglio 2015, n. 46966

Presidente: Chieffi - Estensore: La Posta

RITENUTO IN FATTO

1. Con decreto del 13 novembre 2014 il Magistrato di sorveglianza di Foggia dichiarava inammissibile, ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p., l'istanza con la quale K.A., detenuto presso la casa circondariale di Foggia, chiedeva il risarcimento per le condizioni inumane di detenzione ai sensi dell'art. 35-ter l. n. 354 del 1975 (ord. pen.), come introdotto dall'art. 1 d.l. n. 92 del 2014 conv. nella l. n. 117 del 2014.

Riteneva, a ragione, che presupposto necessario ai fini del risarcimento in forma specifica della riduzione della pena detentiva da espiare, di competenza del magistrato di sorveglianza, è l'attualità del pregiudizio al momento della richiesta, siccome previsto dall'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen., espressamente richiamato dall'art. 35-ter, comma 1, ord. pen.; in mancanza dell'attualità, unico risarcimento possibile è quello di competenza del giudice civile, previsto dal comma 3 dell'art. 35-ter citato, della liquidazione di una somma di danaro di euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale vi è stato pregiudizio.

Rilevava, quindi, che, nella specie, il detenuto aveva formulato la richiesta con riferimento al periodo compreso tra il 14 agosto 2009 ed il 29 ottobre 2014 «lasciando intendere che al momento della presentazione della domanda, il 31 ottobre 2014, il pregiudizio fosse cessato, seppure da pochi giorni».

2. Ricorre l'interessato, personalmente, denunciando la violazione di legge ed il vizio della motivazione in relazione all'art. 35-ter ord. pen.

Preliminarmente rileva che nell'istanza avanzata il 29 ottobre 2014 era stato precisato che le condizioni inumane, vissute per complessivi 1.405 giorni presso gli istituti di pena indicati, «persistono a tutt'oggi».

Contesta, comunque, che il rinvio dell'art. 35-ter, comma 1, ord. pen. al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. si riferisca anche ai presupposti di «gravità» ed «attualità», dovendosi, invece, avere riguardo esclusivamente al tipo di pregiudizio dei diritti del detenuto determinato da un comportamento dell'amministrazione penitenziaria.

La interpretazione sostenuta nel provvedimento impugnato, ad avviso del ricorrente, non è conforme alla ratio ed alle finalità perseguite dal legislatore attraverso l'introduzione della norma, in particolare, quella di prevedere uno strumento effettivo ed immediato di tutela per i detenuti contro il pregiudizio derivante da condizione detentiva inumana e degradante.

Inoltre, se si dovesse avallare l'interpretazione posta a fondamento del provvedimento impugnato, stante la ripartizione di competenza tra magistrato di sorveglianza e giudice civile come prevista dall'art. 35-ter ord. pen., rimarrebbero esclusi da ogni forma di tutela tutti i condannati ancora detenuti in espiazione di pena per i quali la condizione degradante sia cessata. Questi, infatti, non potrebbero agire dinanzi al giudice civile in quanto ancora ristretti e, comunque, verrebbero privati della possibilità di ottenere il rimedio risarcitorio in forma specifica al quale può provvedere soltanto il magistrato di sorveglianza.

Conseguentemente, deve ritenersi che presupposto per proporre il reclamo di cui all'art. 35-ter ord. pen. al magistrato di sorveglianza sia soltanto l'attuale stato di detenzione dell'istante e la prospettazione delle circostanze di fatto dalle quali desumere l'esistenza del pregiudizio da condizione detentiva inumana e degradante.

3. Con memoria depositata il 10 luglio 2015, a mezzo del difensore, il ricorrente contesta la richiesta, formulata dal Procuratore generale presso questa Corte nelle conclusioni scritte, di qualificare il ricorso per cassazione come reclamo trasmettendo gli atti al Tribunale di sorveglianza di Bari, rilevando che nella specie l'istanza del detenuto è stata dichiarata inammissibile all'esito del vaglio effettuato de plano, ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. È preliminare - stante la richiesta del Procuratore generale di qualificare il ricorso come reclamo al tribunale di sorveglianza - la valutazione in ordine alla scansione procedimentale da applicare al rimedio risarcitorio azionabile dinanzi al magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, l. n. 354 del 1975 (ord. pen.), introdotto dall'art. 1 d.l. n. 92 del 2014 e conv. nella l. n. 117 del 2014.

La norma citata ha introdotto nel nostro sistema "rimedi risarcitori" conseguenti alla violazione dell'art. 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo nei confronti di soggetti detenuti ed internati che consistono nella riduzione di un giorno di pena per ogni dieci giorni di detenzione inumana ovvero in una somma di 8,00 euro per ogni giorno di pregiudizio subito. La riduzione della pena da espiare è disposta dal magistrato di sorveglianza (comma 1 art. 35-ter) che soltanto nel caso in cui la pena residua non consenta la detrazione nella misura percentuale prevista ovvero nel caso di pregiudizio inferiore a quindici giorni provvede a liquidare la suddetta somma (comma 2); al risarcimento diverso da quello "in forma specifica" provvede il giudice civile (comma 3).

Posto che l'art. 35-ter disciplina specificamente soltanto il procedimento per il risarcimento di competenza del giudice civile di cui al comma 3, per quello attribuito al magistrato di sorveglianza si deve ritenere - come anche la dottrina ha affermato - che il modello procedimentale sia quello previsto per il reclamo giurisdizionale di cui all'art. 35-bis ord. pen., introdotto con il d.l. n. 146 del 2013, conv. con l. n. 10 del 2014. In tale senso, del resto, milita anche il rinvio del comma 1 della disposizione in esame all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen., come modificato dal predetto d.l., secondo il quale il magistrato di sorveglianza applica il procedimento di cui all'art. 35-bis, per decidere sui reclami dei detenuti ed internati relativi ai pregiudizi all'esercizio di diritti che derivino dalla inosservanza da parte dell'amministrazione penitenziaria dell'ordinamento penitenziario.

D'altro canto, il modello del reclamo giurisdizionale introdotto con l'art. 35-bis, che si svolge secondo le cadenze degli artt. 666 e 678 c.p.p., appare, sotto il profilo logico-sistematico, conforme alla ratio che complessivamente sottende alla introduzione del rimedio compensativo nella forma specifica della riduzione della pena da espiare, volto alla effettiva e congrua riparazione del pregiudizio per inumano trattamento detentivo in violazione dell'art. 3 della Convenzione EDU.

È stato giustamente osservato come, nonostante il richiamo all'art. 678 c.p.p., lo schema procedimentale del reclamo giurisdizionale introdotto con l'art. 35-bis ord. pen. si distingua dal procedimento di sorveglianza in senso stretto, caratterizzato tra l'altro dalla procedibilità di ufficio, mentre quello in esame prende avvio con il reclamo dell'interessato che, pur non richiedendo una forma specifica, deve indicare almeno cosa si chiede (petitum) e perché (causa petendi).

Il primo comma, poi, prevede in maniera inequivoca che «Salvi i casi di manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell'art. 666, comma 2, del codice di procedura penale, il magistrato di sorveglianza fissa l'udienza e ne fa dare avviso anche all'amministrazione interessata che ha diritto di comparire ovvero di trasmettere osservazioni e richieste». Tra le peculiarità del procedimento disciplinato dall'art. 35-bis ord. pen., quindi, vi è certamente, la previsione del doppio grado di giudizio di merito nel contraddittorio delle parti: difatti, la decisione sul reclamo deve essere adottata dal magistrato di sorveglianza all'esito dell'udienza nel contraddittorio delle parti e al comma 4 è prevista l'impugnazione di tale decisione attraverso il reclamo al tribunale di sorveglianza, introdotto dalla l. n. 10 del 2014 in sede di conversione del d.l. n. 146 del 2013 in luogo della sola ricorribilità per cassazione, normalmente prevista (salvo casi specifici come per l'applicazione delle misure di sicurezza, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o tendenza a delinquere) per i provvedimenti del magistrato di sorveglianza assunti all'esito di procedimento in contraddittorio.

La descritta cadenza processuale introdotta dall'art. 35-bis ord. pen. e la scelta legislativa del contraddittorio nel doppio grado di merito impone di considerare come la possibilità per il magistrato di sorveglianza di emettere un provvedimento fuori dal modello partecipato sia limitata alla sola eccezione prevista dallo stesso art. 35-bis, comma 1, ord. pen. laddove fa salvi i casi di «manifesta inammissibilità della richiesta a norma dell'art. 666, comma 2,». Quindi, soltanto nei casi in cui risulti che la richiesta è «manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi», il magistrato di sorveglianza potrà dichiarare con decreto de plano il reclamo inammissibile.

Come è stato già affermato da Sez. 1, n. 43722 dell'11 giugno 2015, Salierno - sia pure pervenendo a diverse conclusioni quanto al regime impugnatorio - l'esercizio da parte del magistrato di sorveglianza del potere di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p. deve essere limitato alle ipotesi in cui la «presa d'atto» dell'assenza delle condizioni di legge non richieda accertamenti di tipo cognitivo, né valutazioni discrezionali. Si è, infatti, richiamato in proposito l'orientamento consolidato secondo il quale la dichiarazione di inammissibilità risulta possibile solo quando facciano difetto nell'istanza i requisiti posti direttamente dalla legge che non implicano alcuna valutazione discrezionale (Sez. 1, n. 277 del 13 gennaio 2000, rv. 215368).

Con riferimento al rimedio del reclamo giurisdizionale in esame che ha riguardo alla materia della violazione dei diritti, anche la dottrina ha avvertito del pericolo che la ricognizione dei presupposti di ammissibilità della domanda involga una implicita valutazione del merito con la adozione di provvedimenti di sostanziale rigetto in assenza della esplicazione del regolare contraddittorio che l'art. 35-bis ord. pen. impone. Di tal che, «la carenza delle condizioni di legge deve essere rilevabile ictu oculi, non deve comportare valutazioni discrezionali, né valutazioni negative fondate su argomentazioni complesse o rese opinabili da possibili differenti ricostruzioni della situazione di fatto posta a base della richiesta».

Infatti, l'anticipazione alla fase del vaglio preliminare di ammissibilità di una decisione sostanzialmente nel merito sull'istanza violerebbe il contraddittorio che nei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, laddove prevista, garantisce il diritto di partecipazione dell'interessato finalizzato alla possibilità di prospettare le proprie opzioni nella dialettica tra le parti.

Le peculiarità ed i limiti evidenziati della pronuncia di inammissibilità ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p. sono quindi coerenti con il mezzo di impugnazione che la norma indica nel ricorso per cassazione. Ed il rinvio espresso del comma 1 dell'art. 35-bis ord. pen. all'art. 666, comma 2, c.p.p. non può che operare anche sotto tale profilo.

Avverso il provvedimento di inammissibilità adottato de plano dal magistrato di sorveglianza - ad avviso del Collegio - unico mezzo di impugnazione potrà essere il ricorso per cassazione e non il reclamo al tribunale di sorveglianza nel contradditorio delle parti, per la ragione evidente che la declaratoria di inammissibilità de plano adottata eventualmente fuori dai casi previsti impone che la richiesta venga esaminata dal magistrato nel giudizio partecipato di primo grado, recuperando il contraddittorio espressamente previsto, e non dinanzi al tribunale saltando un grado di merito.

I medesimi argomenti sono stati posti a fondamento di analoghe decisioni di questa Corte sul punto (Sez. 1, n. 35840 del 14 maggio 2015, Marique Sanchez Josue Ismael; Sez. 1, n. 45376 del 12 giugno 2015, Giordano).

È stato, in specie, rilevato con la prima delle citate sentenze - dando conto anche di precedenti decisioni parzialmente diverse - che «l'analisi in via sistematica dell'art. 35-bis ord. pen. induce a ritenere che la previsione del reclamo al tribunale di sorveglianza riguardi soltanto le decisioni assunte dall'ufficio di sorveglianza che si sia pronunciato sul merito del reclamo, accogliendolo o respingendolo, e che la declaratoria di inammissibilità sia contestabile unicamente mediante ricorso per cassazione e ciò in coerenza con la previsione più generale dell'art. 666 c.p.p., comma 2, richiamata nella sua interezza e senza eccezioni di sorta dal primo comma dell'art. 35-bis. Tale lettura, oltre a rispettare la formulazione testuale ed il significato logico del richiamo all'art. 666, offre il vantaggio di assicurare alle parti la possibilità di uno scrutinio di merito, esteso a tutte le questioni coinvolte ed articolate in due successivi gradi innanzi a giudici dotati di pieni poteri di cognizione sul fatto quando la decisione si sia addentrata in tali profili, mentre quando si sia limitata al riscontro immediato e formale d'inammissibilità siffatto raddoppio del sindacato di merito non è necessario ed è esperibile il solo controllo di legittimità».

D'altronde, se si seguisse la tesi non condivisa, che anche nel caso di provvedimento illegittimamente emesso de plano l'unico rimedio è il reclamo di merito al tribunale di sorveglianza, a fronte di una patente e radicale violazione del contraddittorio quale quella in esame, dovrebbe, giocoforza, riconoscersi che il tribunale è comunque tenuto a provvedere ai sensi dell'art. 604, comma 4, c.p.p., dichiarando la nullità del provvedimento di primo grado rimettendo le parti davanti al magistrato di sorveglianza, con inutile dispendio di tempo e di risorse.

Per dette ragioni il ricorso per cassazione avverso il decreto di inammissibilità del reclamo proposto ai sensi degli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen. emesso dal magistrato di sorveglianza ex art. 666, comma 2, c.p.p. - quale è quello in oggetto - non può essere qualificato reclamo ai sensi del comma 4 dell'art. 35-bis ord. pen. con trasmissione degli atti al tribunale di sorveglianza, come richiesto dal Procuratore generale.

2. Passando, quindi, all'esame delle censure mosse attraverso il ricorso per Cassazione, va ricordato che con il decreto impugnato il Magistrato di sorveglianza di Foggia ha dichiarato inammissibile de plano il reclamo proposto dal K. per ottenere il risarcimento in forma specifica ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. per difetto di una condizione di legge individuata nell'assenza di attualità del pregiudizio derivante da condizione detentiva inumana e degradante, in contrasto con la previsione regolatrice di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. Dalla mancanza di attualità conseguirebbe dunque l'azionabilità esclusivamente del rimedio indicato al comma 3 dell'art. 35-ter dinanzi al giudice civile che può liquidare il danno nella misura di euro 8,00 per ogni giorno di pregiudizio subito.

Prima ancora di procedere alla valutazione della correttezza della opzione interpretativa affermata con il provvedimento impugnato, si deve rilevare che la percepibilità ictu oculi della mancanza di detto presupposto dalla domanda avanzata dal detenuto - legittimante secondo il decidente la pronuncia di inammissibilità ex art. 666, comma 2, c.p.p. - si palesa, nella specie, fallace, come dedotto dal ricorrente. Invero, mentre il magistrato di sorveglianza afferma che la richiesta di risarcimento si riferisce al periodo compreso tra il 14 agosto 2009 ed il 29 ottobre 2014 «lasciando intendere che al momento della presentazione della domanda, vale a dire il 31 ottobre 2014, il pregiudizio fosse cessato», dall'istanza risulta che il detenuto aveva prospettato il perdurare delle condizioni di detenzione degradante.

In ogni caso, ad avviso del Collegio, la ritenuta esclusione del rimedio risarcitorio di competenza del magistrato di sorveglianza, disciplinato dal comma 1 e 2 dell'art. 35-ter ord. pen., per coloro che in costanza di detenzione lamentino il pregiudizio derivante da condizioni di carcerazione inumane in violazione dell'art. 3 CEDU non più attuali, perché rimosse, non risulta conforme, sotto il profilo logico-sistematico, alle finalità proprie delle disposizioni introdotte dal legislatore in materia di ordinamento penitenziario nel 2013 e 2014, per porre termine alle condizioni di espiazione delle pene detentive ritenute in contrasto con la Convenzione dei diritti dell'uomo secondo le indicazioni della Corte EDU (a partire dai casi Sulejmanovic e Torreggiani), per risarcire i pregiudizi derivati da tali condizioni e, più in genere, per realizzare un sistema di tutela dei diritti dei soggetti ristretti con maggiori caratteristiche di effettività e tempestività rispetto a quello esistente, sia pure modulato ed applicato secondo i correttivi interventi della Corte cost. e, in specie, della sentenza n. 26 del 1999.

La ratio complessiva delle modifiche, tra le quali la disciplina dei particolari rimedi risarcitori di cui all'art. 35-ter ord. pen., va rintracciata - come è stato indicato da questa Corte (Sez. 1, n. 43722 dell'11 giugno 2015, Salierno) - nel «rafforzamento complessivo degli strumenti tesi alla riaffermazione della legalità della detenzione con estensione dei poteri di verifica e di intervento dell'autorità giurisdizionale».

Ma l'individuazione nell'attualità del pregiudizio del discrimine tra la competenza del magistrato di sorveglianza (commi 1 e 2 art. 35-ter) e quella del giudice civile (comma 3) e, quindi, tra possibilità di ottenere il rimedio compensativo in forma specifica della riduzione delle pena da espiare, ovvero solo quello pecuniario, non trova sufficiente fondamento neppure sul piano dell'interpretazione letterale della norma.

Pur avendo il legislatore ricondotto il pregiudizio derivato al detenuto dalle condizioni inumane e degradanti della carcerazione a quello più generale dell'esercizio dei diritti del soggetto ristretto, derivante dall'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dall'ordinamento penitenziario, attraverso il richiamo espresso del comma 1 dell'art. 35-ter all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen., ciò non autorizza a ritenere che le caratteristiche di «gravità» e «attualità» del pregiudizio indicate da tale ultima norma costituiscano presupposto essenziale per accedere al rimedio risarcitorio compensativo che può essere richiesto dal detenuto al magistrato di sorveglianza a norma dei commi 1 e 2 dell'art. 35-ter ord. pen.

È stato, innanzitutto, rilevato che il rinvio al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen. oltre ad essere menzionato esplicitamente al comma 1 dell'art. 35-ter, si riflette anche sul comma 3 con il richiamo al «pregiudizio di cui al comma 1», ancorché sia evidente che la condizione detentiva inumana e degradante risarcibile attraverso la azione dinanzi al giudice civile non possa essere attuale. Così come, pur essendo chiara la indicazione della competenza del magistrato di sorveglianza, il risarcimento di un pregiudizio inferiore a quindici giorni di cui al comma 2 non potrebbe mai essere attuale al momento della decisione.

Se la competenza del magistrato di sorveglianza venisse meno nel momento in cui vengono rimosse le condizioni di carcerazione causa del pregiudizio risarcibile, sarebbe arduo in base alla lettera della norma individuare il giudice al quale il soggetto ancora detenuto si dovrebbe rivolgere per ottenere il rimedio compensativo del pregiudizio cessato, posto che il comma 3 dell'art. 35-ter ord. pen. espressamente attribuisce la competenza al giudice civile per le richieste di coloro [che] hanno terminato di espiare la pena detentiva. E - come è stato efficacemente rimarcato da parte della dottrina - sarebbe «difficilmente difendibile una soluzione che congeli eventualmente per anni la possibilità di indennizzare chi ha subito un trattamento contrario al senso di umanità». Una simile interpretazione, all'evidenza, esporrebbe la norma a rilievi per violazione dei principi convenzionali e costituzionali, e ad essi non si sottrarrebbe neppure la tesi - sostenuta nel provvedimento impugnato ma comunque sganciata dal tenore letterale della norma - secondo la quale, venuta meno l'attualità del pregiudizio e, con essa, la competenza del magistrato di sorveglianza, si radicherebbe quella del giudice civile.

Detta lettura esclude, evidentemente, che il detenuto possa ottenere il risarcimento nella "forma specifica" della diminuzione della pena ancora da espiare e lascerebbe spazio a non pochi dubbi circa le forme e le modalità di intervento del giudice civile, specie tenuto conto delle limitate ipotesi cui si riferisce lo specifico procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica, ai sensi dell'art. 737 c.p.c., disciplinato dal comma 3 dell'art. 35-ter ord. pen.

Come è stato già condivisibilmente rilevato da questa Corte (con la richiamata sentenza n. 43722 dell'11 giugno 2015), l'essenziale caratteristica della introduzione del rimedio di cui alla disposizione in esame è rappresentata dalla finalità compensativa risarcitoria e, quindi, da un quid pluris rispetto alla ordinaria inibizione della prosecuzione dell'inosservanza da parte dell'amministrazione delle regole in funzione della realizzazione del diritto negato o compromesso, cui è finalizzato il reclamo giurisdizionale in genere. Indiscussa la compatibilità dei due rimedi, inibitorio e risarcitorio, mentre l'attualità del pregiudizio è condizione connaturale al reclamo di cui all'art. 69, comma 6, ord. pen. in ragione della correlazione con la tipologia di tutela (art. 35-bis comma 3), non è presupposto necessario quando il reclamo è volto ad ottenere quegli «effetti "compensativi"», che «garantiscano una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU risultanti dal sovraffollamento», richiesti dalla Corte EDU nella sentenza "pilota" Torreggiani (v. per l'efficace sintesi del comando di legislazione così impartito, Corte cost. n. 279 del 2013, p. 7), che il legislatore ha voluto attuare con predeterminazione del quantum e, in via prioritaria, in forma, per così dire, "specifica" con la riduzione della durata della pena ancora da espiare nella misura di un giorno per ogni dieci di pregiudizio sofferto; rimedio questo che presuppone soltanto, ma necessariamente, la detenzione in atto.

Sia l'interpretazione letterale sia quella sistematica della norma devono, quindi, condurre a ritenere che il richiamo contenuto all'art. 35-ter, comma 1, ord. pen. al pregiudizio di cui all'art. 69, comma 6, lett. b), individua la categoria del reclamo relativo alla violazione dei diritti inviolabili del detenuto e il modello procedimentale applicabile, ma non può essere riferito ai presupposti del pregiudizio in termini di necessaria attualità al momento della domanda e, ancor meno, della decisione.

Il provvedimento impugnato deve, per le ragioni esposte, essere annullato senza rinvio e gli atti devono essere trasmessi al Magistrato di sorveglianza di Foggia perché provveda alla trattazione della richiesta nel contraddittorio delle parti ai sensi dell'art. 35-bis, comma 1, ord. pen.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio il decreto impugnato e dispone la trasmissione degli atti al Magistrato di sorveglianza di Foggia.

Depositata il 26 novembre 2015.

L. Bolognini, E. Pelino (dirr.)

Codice della disciplina privacy

Giuffrè, 2024

L. Di Muro, G. Correale (curr.)

Codice dell'immigrazione

La Tribuna, 2024

L. Alibrandi (cur.)

Codice penale

La Tribuna, 2024