Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 11 dicembre 2015, n. 25046

Presidente: Roselli - Estensore: De Marinis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 29 ottobre 2014, la Corte d'Appello di Reggio Calabria, pronunziando in sede di reclamo ex art. 1, comma 58, l. n. 92/2012, riformava la decisione resa dal Tribunale di Reggio Calabria e rigettava la domanda proposta da Antonino S. nei confronti della Acquereggine Società Cooperativa a r.l., avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Società datrice nel quadro di una procedura di riduzione del personale con applicazione della tutela reintegratoria e risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto maturate e maturande dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegra.

La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa, diversamente dai giudici della fase di urgenza e di opposizione, ritenuto l'eccezione di decadenza dall'impugnazione del licenziamento ex art. 6 l. n. 604/1966, sollevata dalla Società soltanto in sede di opposizione, non solo pienamente ammissibile ma altresì fondata, non incidendo la proroga, disposta dalla Società datrice per ben due volte, del periodo di preavviso, sulla regola che identifica nella data di ricevimento della comunicazione di recesso il dies a quo per il computo del termine decadenziale di 60 giorni, né essendo la proroga stessa e la conseguente protrazione dell'attività lavorativa configurabile come revoca tacita dell'intimato licenziamento.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il S. affidando l'impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la Società.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 48 e ss. l. n. 92/2012 nonché degli artt. 2969 c.c. 115 c.p.c. e dei principi fondamentali del rito del lavoro, in una con il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di contraddittorio tra le parti.

Egli sostiene che l'eccezione di decadenza dal suo potere di impugnazione del licenziamento, sia in sede stragiudiziale che in sede giudiziale (cfr. art. 6, secondo comma, l. 15 luglio 1966, n. 604, modificato dall'art. 32, l. 4 novembre 2010, n. 183), avrebbe dovuto essere sollevata dalla datrice di lavoro già nell'udienza di comparizione fissata dal giudice dopo il ricorso di impugnativa del licenziamento proposto ai sensi dell'art. 1, comma 48, l. n. 92 del 2012. Inammissibile perché tardiva fu perciò l'eccezione sollevata soltanto con l'opposizione all'ordinanza di cui al successivo comma 51. L'opposizione non potrebbe, secondo il ricorrente, ampliare il tema da decidere, già sottoposto al giudice con il suddetto ricorso ex comma 48, e così introdurre ex novo un'eccezione di decadenza, che nel caso va pacificamente qualificata come eccezione in senso stretto.

Il motivo non è fondato.

Il comma 48 cit. stabilisce che il ricorso contro il licenziamento deve avere i requisiti di cui all'art. 125 c.p.c., ossia deve indicare gli elementi minimi di tutti gli atti di parte.

Il successivo comma 51 richiede, per l'opposizione all'ordinanza di accoglimento o di rigetto, da proporre contro il medesimo giudice, gli elementi indicati nell'art. 414 dello stesso codice, vale a dire quelli con i quali si delimita il tema della decisione nel giudizio di cognizione ordinaria.

Queste disposizioni rendono chiaro che le due fasi del giudizio di primo grado, quella di cognizione sommaria iniziata con il ricorso ex comma 49 e quella di cognizione ordinaria iniziata con l'opposizione ex comma 51, si inseriscono nel medesimo grado e si pongono in rapporto di prosecuzione. L'opposizione può investire nuovi profili soggettivi ed oggettivi, fra i quali le eccezioni in senso stretto - come quella di decadenza - non sollevata dall'interessato durante la fase sommaria (vedi per tutte Corte cost., sent. n. 78 del 2015), giacché essa non vale come impugnazione, ossia come istanza di revisione del precedente giudizio, inidonea ad introdurre nuovi temi della disputa.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 2118 c.c., dell'art. 6 l. n. 604/1966, dell'art. 1418 c.c. e dell'art. 4 l. n. 223/1991 oltre al vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Egli nega l'operatività della decadenza di cui all'art. 6 cit., sostenendo trattarsi di licenziamento inesistente, con conseguente impossibilità di sottoporlo a termine di impugnativa. Parla poi di revoca dello stesso licenziamento per fatti concludenti, ossia per effetto del suo mantenimento in servizio fino al febbraio 2012, oppure di sottoposizione del medesimo atto espulsivo a condizione sospensiva non avverata.

In questa parte il motivo è inammissibile a causa del suo contenuto plurimo e perplesso ossia per inosservanza dell'art. 366, nn. 3 e 4, c.p.c.

Il ricorrente adduce ancora il carattere collettivo del licenziamento, illegittimo per motivi procedurali.

Questa censura è sostanzialmente ripetuta nel terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 4, l. n. 223/1991 nonché vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio) ma essa è inammissibile poiché i vizi procedimentali o sostanziali del licenziamento, collettivo o individuale, avrebbero potuto essere fatti valere soltanto se il lavoratore interessato non fosse incorso nella suddetta decadenza.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P. Dubolino, F. Costa

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