Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 6 maggio 2016, n. 9142

Presidente: Rordorf - Estensore: Bianchini

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. È stata proposta da I. Onorina domanda di equa riparazione del danno sofferto per l'irragionevole durata di un procedimento civile iniziato nel gennaio 1975 e definito in sede di cognizione nel gennaio 2000 con ordinanza d'inammissibilità della Corte di cassazione; dopo la complessa fase di cognizione che aveva determinato la condanna della controparte della ricorrente all'abbattimento di un fabbricato che oltrepassava il confine, era seguita la fase di esecuzione intrapresa dalla ricorrente nel 2002 ed ancora pendente al momento dell'introduzione della domanda ex l. n. 89 del 2001. La I. ha richiesto alla Corte d'Appello di Perugia l'indennizzo per la non congrua durata del procedimento, riferita unitariamente sia al giudizio di cognizione sia a quello [di] esecuzione, senza soluzione di continuità, assumendo che solo con la chiusura di quest'ultima fase poteva dirsi effettivamente soddisfatto l'interesse tutelato. La Corte territoriale ha invece ritenuto che la "definitività" della decisione, ai fini del decorso del termine semestrale di decadenza fissato nell'art. 4 della l. n. 89 del 2001 - nella formulazione all'epoca vigente - dovesse riferirsi al momento in cui si fosse conseguito il fine al quale il singolo procedimento era deputato: in relazione al giudizio di cognizione tale definitività si sarebbe determinata con il passaggio in giudicato della sentenza che chiudeva tale fase. Alla luce di queste premesse la Corte territoriale ha dichiarato decaduta la parte ricorrente dal diritto di proporre la domanda d'indennizzo per quanto riguardava il giudizio di cognizione mentre, per la fase relativa al procedimento esecutivo, ha giudicato che lo stallo della procedura esecutiva fosse stato dettato dalla condotta della ricorrente che, lasciando andare in rovina il proprio edificio, adiacente a quello oggetto di esecuzione, avrebbe reso impossibile non solo la demolizione parziale dell'altro edificio ma anche le attività propedeutiche ad essa finalizzate, rigettando dunque nel merito la domanda attinente a tale periodo.

2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la I., sulla base di un unico motivo, illustrato da sei quesiti, ribadendo, da un lato, la doverosità della valutazione unitaria della fase di cognizione assieme a quella di esecuzione e, dall'altro, la non addebitabilità a sé dei ritardi riscontrati nella fase esecutiva. È stata depositata memoria. Ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.

3. Con ordinanza interlocutoria n. 1382/2015 la sesta sezione - sottosezione prima - ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando una questione di massima di particolare importanza relativa: a) alla divisata necessità di coordinare il principio dell'unicità dei giudizi di cognizione ed esecuzione, al fine della individuazione del periodo da valutare per la liquidazione dell'indennizzo previsto dalla l. n. 89/2001 - come specificato dalle Sezioni Unite con pronuncia 6312 del 2014 e più volte ribadita con analoghe sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - armonizzandolo con la previsione di un termine di decadenza, giusta quanto stabilito dall'art. 4 della legge citata (nella formulazione anteriore alla riforma introdotta con il d.l. n. 83/2012, convertito nella l. n. 134/2012); b) alla identificazione del concetto di "decisione definitiva" in caso di consecuzione al giudizio di cognizione, anche a distanza di notevole lasso di tempo, di una fase di esecuzione; c) alla rilevanza, in caso di ribadito computo unitario della durata delle due "fasi", del periodo intermedio tra le stesse, successivo dunque alla conclusione del processo di cognizione ed anteriore all'instaurazione del giudizio di esecuzione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I. Per una soddisfacente valutazione della materia controversa, devono essere innanzi tutto richiamati i principi esposti nelle sentenze n. 27365/2009 (e nella coeva n. 27348/2009) e n. 6312/2014 delle Sezioni Unite, citate dalla Sezione remittente quale fonte di un divergente contrasto interpretativo.

I.a. Con la meno recente delle due decisioni, le Sezioni Unite erano state chiamate a verificare se, ai fini della fase di accertamento della ragionevole durata del processo, la fase di accertamento del diritto - esaurita innanzi al giudice ordinario - o quella diretta all'annullamento di un provvedimento - fatta valere innanzi al giudice amministrativo - costituissero una fase autonoma rispetto alla fase di realizzazione delle pretese sostanziali (per il tramite di un procedimento esecutivo o di un giudizio di ottemperanza): componendo un contrasto, la Cassazione in funzione regolatrice ha statuito che i due procedimenti - di cognizione/annullamento e di esecuzione/ottemperanza - debbono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonome, così che, da un lato, le durate dei predetti giudizi non potrebbero sommarsi tra loro; dall'altro, che solo al momento del formarsi di decisioni definitive di ciascun procedimento - e fatto salvo il rispetto del termine semestrale di cui all'art. 4 della l. n. 89/2001 - sarebbe possibile, in relazione a ciascuno di essi, domandare l'equa riparazione di cui all'indicata normativa.

I.b. Al fine di pervenire a tale soluzione interpretativa, le Sezioni Unite hanno richiamato il vincolo conformativo per il giudice comune rappresentato dal rispetto delle pronunce della CEDU, negando però che nelle decisioni di tale Corte fosse stato affermato il principio generale secondo il quale nel concetto di giusto processo potessero rientrare la fase di cognizione e quella di attuazione della posizione giuridica soggettiva nella prima fatta valere; rimarcando piuttosto che la detta considerazione unitaria andasse applicata ai soli giudizi interni di ripristino dei danni da lesione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, dunque in una prospettiva di effettività, imposta dall'art. 13 di essa e non già dall'art. 6, comma 1; hanno infine sottolineato i caratteri distintivi, nel diritto interno, tra processo di cognizione, fase esecutiva; giudizio amministrativo e giudizio di ottemperanza.

I.c. Le Sezioni Unite, con la richiamata decisione del 2014 - che aveva ad oggetto la domanda di equa riparazione diretta ad ottenere soddisfazione per il ritardo (oltre sei mesi e cinque giorni dopo la definitività del procedimento di cui alla l. n. 89/2001) con il quale era stato concretamente versato l'indennizzo ex lege "Pinto", dopo che il ricorrente era stato costretto ad intraprendere un'azione esecutiva, esauritasi in un termine da ritenersi di per sé congruo (quattro mesi) - hanno statuito:

1) il principio di effettività della tutela giurisdizionale comprende qualsiasi attività processuale prevista dall'ordinamento, volta a rendere concreta la realizzazione dei diritti azionati;

2) l'esecuzione forzata, come stabilito dalla Corte costituzionale (sentt. nn. 321 del 1998 e 198 del 2010) deve ritenersi costituzionalmente necessaria, in quanto connotato intrinseco della funzione giurisdizionale;

3) la Corte EDU, in numerose pronunce - ed in particolare nella sentenza Cocchiarella contro Italia della Grande Camera del 29 marzo 2006 - ha ribadito che la fase di esecuzione costituisce parte integrante del processo ai fini dell'art. 6 della Convenzione, sottolineando 1'unicità del procedimento;

4) il procedimento giurisdizionale, secondo una ricostruzione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, rispettosa degli artt. 24 e 111 Cost., nonché dell'art. 6 della Convenzione, così come declinato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, deve essere considerato come un unicum che ha inizio con l'accesso al giudice e fine con l'esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria;

5) il giudizio di equa riparazione costituisce un'applicazione dei principi sopra esposti, così come indicato in numerose sentenze CEDU, nelle quali si afferma che nei ricorsi in tema di durata della causa civile, il procedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa effettivo soltanto al momento dell'esecuzione;

6) può essere integrata la violazione dell'art. 6 della Convenzione sotto l'autonomo profilo del diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive anche nei casi di ritardo nel pagamento dell'indennizzo per irragionevole durata del procedimento.

II. Va innanzi tutto messo in rilievo che secondo attenta dottrina è la violazione del termine ragionevole, contemplata dall'art. 6, § 1, della Convenzione e non già del diritto all'esecuzione delle decisioni interne (esecutive) ad essere ricompresa nella fattispecie costitutiva del diritto all'equa riparazione ex art. 2, comma 1°, della l. n. 89 del 2001 - dando quindi coerenza alla decisione delle Sezioni Unite del 2014 di rinviare alla tutela eurounitaria il mancato rispetto del termine per l'esecuzione spontanea delle decisioni di condanna ex lege Pinto.

III. La questione posta dalla sezione semplice attiene in sostanza alla compatibilità tra la struttura del procedimento "Pinto" (nella formulazione anteriore alla novella introdotta con il d.l. n. 83/2012, convertito nella l. n. 134/2012) con i principi di derivazione convenzionale - CEDU - in merito alla qualificazione funzionale della nozione di "decisione definitiva": in particolare costituisce oggetto di scrutinio il verificare se la disciplina statuale che prevede un termine di decadenza semestrale dalla definitività del giudizio debba in generale riferirsi all'esito del procedimento complesso (accertamento + esecuzione) o se, posto tale principio, possa però assumere rilievo anche la condotta non attiva della parte, tenuta dopo la irretrattabilità della fase di cognizione e prima della fase di esecuzione; se, in altri termini, la dislocazione temporale del dies ad quem della definitività del giudizio come sopra indicato non trovi un limite nel maturarsi, tra una "fase" e l'altra, del termine semestrale previsto dall'art. 4 della originaria formulazione della l. 89 del 2001.

IV. Per dare una soddisfacente risposta alla questione si deve partire dall'analisi delle decisioni della Corte di Strasburgo che hanno avuto modo di enucleare il principio della indifferenza della distinzione, anche concettuale, tra fase di cognizione e fase di esecuzione: dalla lettura di tali decisioni emerge che la preoccupazione della CEDU è sempre stata quella di evitare che una diversa accezione del termine "giudizio definitivo" potesse lasciare non soddisfatta la porzione procedimentale diretta alla esecuzione di un diritto - o di una posizione di interesse legittimo - che aveva formato oggetto di accertamento nella precedente fase: va al proposito osservato che le prime sentenze CEDU che così avevano pronunciato - v. casi Di Pede c. Italia; Zappia c. Italia, richiamate da Cocchiarella c. Italia - avevano riguardato casi iniziati e trattati prima della emanazione della l. 89 del 2001 e che quindi dovevano dare applicazione al generico termine decadenziale previsto dall'art. 26 (ora 35) della Convenzione; una volta che, con la citata legge dello Stato, è stato disciplinato un termine interno alla procedura e soprattutto si è - sino alla modifica introdotta con la novella del 2012 - consentito di iniziare il giudizio per ingiustificata durata del processo anche in caso di pendenza del procedimento presupposto, la CEDU non ha avuto più modo di calibrare il concetto della predetta unità funzionale (id est: funzionale alla realizzazione dell'interesse della parte) con le norme di sbarramento interno che - del tutto lecitamente - collegavano alla inerzia ingiustificata del "danneggiato" protratta oltre sei mesi da una decisione irretrattabile, la sanzione della decadenza, lasciando per contro libertà ai singoli Stati di perseguire con iter procedimentali di scelta - fermo comunque restando il parametro della effettività della tutela - il perseguimento di quella tutela (che in Italia ed altri Paesi aveva assunto la connotazione esclusivamente risarcitoria).

V. Va altresì aggiunto che in sede CEDU l'assunto dell'unicità funzionale - nei sensi sopra esposti - della fase di cognizione e di quella di esecuzione non sempre ha avuto univoche applicazioni: nel caso Malama c. Grecia del 1° maggio 2001 la Corte EDU espressamente escluse che la decadenza ex art. 35 della convenzione fosse impedita dalla mancata esecuzione della decisione oramai irrevocabile, dichiarando inammissibile per tardività la doglianza relativa all'irragionevole durata del processo: i primi commentatori di tale arresto hanno evidenziato che nella fattispecie la CEDU avrebbe ritenuto che il processo fosse addivenuto alla "decisione interna definitiva" nonostante la mancata realizzazione del diritto a favore della parte vittoriosa; in altri casi - Veretennikov c. Russia - del 12 marzo 2009 (in cui pure era stata lamentata l'eccessiva durata del procedimento, comprensivo di cognizione ed esecuzione, sia del ritardo nell'esecuzione della sentenza irrevocabile), la Corte EDU ha limitato la valutazione del termine ragionevole, al solo processo di cognizione, considerando dunque la durata del procedimento esecutivo nel diverso ambito della doglianza di violazione al "diritto all'esecuzione"; altre volte ancora - caso Garcia Mateos c. Spagna del 19 febbraio 2013 - la Corte EDU ha riqualificato l'unica doglianza di violazione del termine ragionevole del processo, esaminando la fattispecie solo sotto il profilo del diritto all'esecuzione.

VI. Emerge allora da quanto precede, da un lato una variegata gamma di soluzioni adottate dalla CEDU che si pongono in un'ottica diversa da quella, asseritamente monolitica, della unicità procedimentale tra cognizione ed esecuzione ai fini qui in discussione; dall'altro, il persistente rilievo delle norme procedurali nazionali: come criterio generale va confermato (di recente, vedi Cass., Sez. VI-2, ord. n. 165/2016) il principio secondo il quale la necessità di un'interpretazione (costituzionalmente e quindi) convenzionalmente orientata dell'istanza nazionale di protezione, portata dallo sbarramento del termine semestrale di decadenza, non deve implicare l'abbandono delle tradizioni giuridiche e delle strutture processuali proprie di ciascun Paese membro, quante volte l'opzione risarcitoria in chiave conformativa possa realizzarsi nel rispetto delle une e delle altre (vedi la pronuncia della Grande Chambre della Corte EDU del 29 marzo 2006, n. ricorso 62361/00, caso Riccardi Pizzati c. Italia, secondo cui "quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un mezzo di ricorso interno, la Corte deve lasciargli un più ampio margine di apprezzamento così da consentirgli di organizzare il mezzo di ricorso in un modo coerente con il proprio sistema giuridico e con le sue tradizioni"; detta residua area di potestà discrezionale del legislatore emerge nei casi in cui la conformazione del diritto interno alla Convenzione non sia imposta dalla fonte o dalla completa sovrapponibilità delle fattispecie ("a rime obbligate", secondo l'icastica espressione della Corte delle Leggi, utilizzata nella sentenza "monito" n. 30/2014).

VII. La salvezza della specificità - anche storica - delle regole procedimentali adottate dallo Stato, pone il problema che ne occupa in un'ottica di compatibilità interpretativa dei criteri procedimentali nazionali e gli indirizzi eurounitari.

VIII. Tale analisi non può essere superata accogliendo la sollecitazione - presente nella ordinanza di rimessione - di sottoporre la questione al vaglio della Corte delle Leggi: come ricordato di recente da Cass., Sez. VI-2, ord. 165/2016, l'obbligo di addivenire ad un'interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all'incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008 della Corte delle Leggi): l'interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un'indubbia priorità su ogni altra (sentenza Corte cost. n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre al novero delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Solo ove, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire la Corte delle Leggi della relativa questione di legittimità costituzionale (v. di recente: Corte cost. n. 36 del 2016).

IX. Ritiene però la Corte che possa pervenirsi a tale risultato conciliativo, così che il disagio interpretativo messo in rilievo dalla Sezione remittente possa trovare efficace e convincente soluzione.

X. A seconda della condotta delle parti, il procedimento presupposto può essere considerato unitariamente o separabile in "fasi": se la parte lascia decorrere un termine rilevante - che va commisurato in quello di sei mesi, previsto dall'art. 4 della l. n. 89 del 2001 - dal momento oltre il quale un procedimento diviene irrevocabile per il diritto interno, la stessa non può poi far valere la ingiustificata durata (anche) di quel procedimento; se invece detta parte si attiva prima dello spirare di quel termine, al fine di procedere all'esecuzione, allora non si forma la sopra indicata soluzione di continuità nel procedimento finalisticamente considerato come un unicum e dunque può procedersi alla valutazione unitaria dello stesso ai fini della delibazione della sua complessiva ingiustificata durata (per un'applicazione di tale approccio interpretativo, sia pure nella prospettiva di un rimedio straordinario di impugnazione, quale la revocazione nell'ambito del giudizio pensionistico innanzi alla Corte dei conti, vedi Cass., Sez. V-2, n. 25179/2015): in tale ipotesi dunque deve ritenersi che riprenda vigore la decadenza prevista dall'art. 4 della legge, con la conseguenza della perdita del diritto di far valere l'eventuale durata non ragionevole del procedimento di cognizione: detta preclusione, va aggiunto, non presuppone una presunzione di disinteresse a far valere l'indebita durata del processo di cognizione, atteso che il meccanismo sanzionatorio previsto dall'art. 4 della l. n. 89/2001 è posto a tutela dell'interesse allo stabilizzarsi delle situazioni giuridiche, le volte in cui esse possano essere in sé suscettibili di valutazione a fini indennitari.

XI. Consegue allora che l'art. 4 della l. n. 89 del 2001, nella formulazione anteriore alla modifica del 2012, allorquando stabilisce la decadenza dal diritto all'indennizzo per inosservanza del termine ultrasemestrale, presuppone una valutazione normativa di come si articola il nesso tra cognizione ed esecuzione nella concreta fattispecie, esaminandolo nella prospettiva dell'azione e non già del diritto: prospettiva del tutto legittima, le volte in cui con essa non si creino degli irragionevoli ostacoli alla realizzazione del secondo; un diverso approccio interpretativo - che impedisse ogni valutazione della condotta delle parti tenuta tra la irrevocabilità del procedimento di cognizione e quello di esecuzione, oltre a porre le premesse di una irragionevole eliminazione dall'ordinamento nazionale di un meccanismo acceleratorio della definizione del contenzioso "Pinto" - meccanismo non sconosciuto alla CEDU, come dimostra la lettura dell'art. 41 della Convenzione - porrebbe le basi per un uso abusivo del diritto (concetto non estraneo alla giurisprudenza della CEDU: nella causa Rubeca c. Italia del 10 maggio 2012, la Corte ha dichiarato abusivo un motivo di ricorso sull'applicazione della legge Pinto in ragione del fatto che il ricorrente aveva omesso di informare la Corte d'appello di una circostanza essenziale riguardo la ricevibilità del suo ricorso «Pinto», aggirando le norme procedurali che regolano il rimedio nazionale e ottenendo, così, un indennizzo per la violazione del termine ragionevole ai sensi dell'art. 6, § 1, della Convenzione; la Corte EDU ha inoltre affermato che il carattere abusivo di un ricorso può dipendere, almeno in parte, dall'uso delle vie di ricorso interne da parte del ricorrente nonché dalla sua condotta dinanzi le autorità giudiziarie nazionali (vedi: Bock c. Germania del 19 gennaio 2010; Dudek (VIII) c. Germania del 23 novembre 2010: decisioni richiamate nella causa Cavaliere c. Italia del 12 novembre 2013), le volte in cui il periodo tra fase di cognizione e quello di esecuzione fosse maggiore di sei mesi, tenuto anche conto della possibilità di far valere la lesione del diritto ad una celere realizzazione della propria posizione soggettiva entro il termine decennale del giudicato.

XI.a. Va altresì ricordato che più volte la Corte EDU ha rimarcato che «Quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un rimedio risarcitoria, la Corte deve lasciare allo Stato un margine di valutazione più ampio per consentirgli di organizzare il rimedio in un modo coerente con il proprio ordinamento giuridico [...]» e «[...] può effettivamente avvenire che le regole di procedura applicabili non siano esattamente le stesse di quelle relative alle richieste ordinarie di risarcimento danni. Sta ad ogni Stato decidere, sulla base delle norme applicabili nel proprio sistema giudiziario, quale sia la procedura che rispetti al meglio il carattere obbligatorio di "effettività" [...]» (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

XII. L'indubbiamente nuova - rispetto ai precedenti costituiti da Sez. Un. nn. 27365 e 27348/2009 - prospettiva posta dalla sentenza di queste Sezioni Unite del 2014, con più stretta aderenza al principi CEDU - nei termini più sopra messi in rilievo - in materia di unicità procedimentale in senso finalistico, non può dunque essere intesa in senso assoluto, vale a dire tralasciando la valutazione delle differenze - strutturali e di finalità - che nell'ordinamento nazionale permangono tra il giudizio di cognizione ed il procedimento di esecuzione, quale emerge anche dal valore del temine "decisione" usata dal Legislatore nell'ambito dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001: proprio tenendo a mente queste differenze si può fornire un'esegesi di tale norma - nella formulazione anteriore alla riforma del 2012 - tale consentire un diverso rilievo della collocazione del termine di decadenza al momento del definitivo accertamento del diritto o al momento della definitiva realizzazione dello stesso, in dipendenza della condotta tenuta dalla parte; predicando invece un rigido rinvio al principio "unitario" - ritenendo con ciò solo di rafforzare la tutela del diritto al ristoro per la durata non congrua del processo - e dunque collocando lo spirare del termine semestrale all'esito della fase di esecuzione - se essa abbia avuto luogo - o, addirittura, solo allorché quel diritto irrevocabilmente accertato sia stato soddisfatto, si determinerebbe un vulnus al principio della certezza delle situazioni giuridiche.

XIII. Posti i princìpi sopra indicati, vanno respinti i primi due profili (indicati alle lettere a) e b) dei conclusivi - pur se superflui, ratione temporis - quesiti ex art. 366-bis c.p.c.) dell'unico motivo di ricorso, con i quali sono state denunciate la violazione e la mancata applicazione degli artt. 2, 4 e 6 della l. 89/2001 nonché dell'art. 6, § 1, e dell'art. 13 - sull'effettività della tutela - della convenzione EDU, in ragione della ritenuta disapplicazione da parte della Corte territoriale dei principi enucleati dalla CEDU in materia di unicità del procedimento di cognizione-esecuzione nei sensi sopra divisati; stante poi la interpretazione delle norme di riferimento quale quella innanzi esposta - che costituisce, calata nella fattispecie, il parametro di riferimento per valutare la sufficienza e la generale congruità della motivazione - va altresì respinto il terzo profilo (indicato con la lettera c)).

XIII.a. I successivi profili - punti d) ed e) dei surrichiamati "quesiti" - relativi a vizi di motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte del merito nell'individuare la responsabilità della ricorrente nel protrarsi della fase esecutiva - sono del pari infondati in quanto la Corte territoriale ha congruamente ed in modo logico valutato la condotta tenuta dalla ricorrente nella fase di esecuzione, mettendo in rilievo: che l'attuazione dell'ordine di demolizione aveva posto problemi tecnici in quanto il fabbricato da demolire parzialmente era adiacente ad un rudere di proprietà della stessa ricorrente; che a seguito di accertamento tecnico era risultato che la demolizione parziale non avrebbe potuto essere realizzata se non danneggiando la statica dell'intero edificio; che per procedere comunque alla esecuzione era stato necessario acquisire i necessari assensi amministrativi e procedere alla nomina di due consulenti d'ufficio, un architetto e un geologo; che le indagini peritali ed in particolare le perforazioni esplorative non avevano potuto essere eseguite a causa delle condizioni pericolanti dell'edificio adiacente - di proprietà della ricorrente -; che non era stato possibile procedere tempestivamente all'ispezione di quest'ultimo immobile per mancata collaborazione della ricorrente; che nel corso del procedimento esecutivo era stato depositato dalla predetta un progetto di demolizione di tale edificio, in ordine al quale dovevano attendersi le debite autorizzazioni amministrative: in mancanza di queste ultime e del successivo abbattimento del fabbricato della I., non era stato dunque possibile procedere all'esecuzione forzata della sentenza definitiva di demolizione parziale dell'immobile illegalmente sconfinante.

XIII.b. L'ultimo profilo - lettera j) dei "quesiti" - attiene al governo delle spese che parte ricorrente assume esser stato retto da motivazione "aberrante/errata" o anche "illegittima, errata, insufficiente o contraddittoria" per non aver, la Corte territoriale, operato una compensazione: la doglianza, oltre ad essere esposta in modo non congruo rispetto al vizio lamentato, è infondata in quanto è conforme a norma la decisione di seguire il principio della soccombenza in caso di reiezione totale della domanda, essendo per contro la compensazione delle spese ad essere oggetto dell'esercizio di un potere discrezionale del giudice, debitamente motivato.

XIV. La considerazione dell'esito del giudizio, mediato dalla complessità delle questioni trattate e delle soluzioni interpretative adottate, consente di operare una completa compensazione delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.