Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 25 luglio 2016, n. 15346

Presidente: Nappi - Estensore: Terrusi

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il tribunale di Torre Annunziata, con sentenza in data 9 maggio 2013, dichiarava il fallimento della società di fatto composta da Michele I., Maria Luigia L., Giovanna I., Giuseppe L., Leonardo L., Lucia B., Angelo D.G., Pasquale D.G. e Micaela D.G., oltre che il fallimento dei soci in proprio.

La decisione trovava base in un ricorso della curatela del fallimento di Deiulemar Compagnia di Navigazione s.p.a. (hinc solo DCN), che aveva prospettato l'esistenza di una tale società di fatto tra i componenti di due generazioni delle famiglie I., L. e D.G., per l'esercizio di funzioni di eterodirezione di società del gruppo, tra cui la fallita.

A fondamento della decisione del tribunale veniva posto un credito risarcitorio per lesione dell'integrità del patrimonio della DCN, azionabile dalla curatela del fallimento in luogo dei creditori ai sensi dell'art. 2497 c.c. e quantificabile in euro 1.251.698.509,00.

Il credito costituiva la somma di due specifiche poste: (i) l'una di euro 800.000.000,00, pari all'ammontare di somme direttamente acquisite dalla società di fatto nel contesto di una duratura attività di raccolta abusiva del risparmio realizzata mediante l'emissione di titoli obbligazionari al portatore, formalmente rilasciati dalla DCN ma non riportate nei bilanci di questa; (ii) l'altra di euro 351.698.509,00, pari al valore dei rami aziendali e delle partecipazioni ceduti dalla DCN attraverso alcune operazioni straordinarie.

La dichiarazione di fallimento, gravata da distinti reclami, veniva confermata dalla corte d'appello di Napoli con sentenza in data 1° agosto 2014.

Codesta, rigettata una serie di eccezioni preliminari, osservava non esservi prova, ai fini di cui all'art. 10 l. fall., della affermata cessazione dell'attività da oltre un anno, conoscibile ai terzi, e che semmai elementi contrari rispetto alla cessazione erano emersi dai documentati impegni assunti dopo il fallimento di DCN, nel contesto di un'attività finanziaria volta al recupero e al sostegno di questa società.

Richiamava poi le risultanze istruttorie del procedimento penale nel frattempo parallelamente instaurato e riteneva provati l'unitarietà di origine e l'eterodirezione delle società DCN in considerazione dell'esistenza di un centro direttivo unitario e sovraordinato, costituito dai componenti delle tre famiglie.

Tale centro direttivo aveva nel tempo creato un sistema di rastrellamento di risorse finanziarie mediante raccolta abusiva del risparmio, svolta dapprima nel contesto dell'originaria società DCN e poi nel contesto di quella di fatto originata dalla cointeressenza delle due generazioni delle suddette famiglie, resa evidente dalla loro compartecipazione nelle varie società via via costituite. Attività in concreto attuata mediante rilascio di assegni intestati a Michele I., ovvero di risorse poste nella di lui immediata disponibilità, transitate sui conti personali senza traccia nei bilanci, e coltivata trasversalmente, a monte, da tutti i componenti delle famiglie.

L'unitarietà operativa e funzionale veniva dalla corte d'appello ritenuta anche nella fase della crisi della società DCN, in considerazione dell'intervento finanziario offerto da tutti i soggetti coinvolti, a definitiva conferma della medesimezza dello scopo economico complessivamente perseguito e dell'eterodirezione previamente assunta.

Nella logica dell'art. 2497 c.c., la corte d'appello riteneva che il riferimento alla spendita del nome o all'esteriorizzazione dell'agire non dovesse esser più considerato un elemento indefettibile della holding societaria. In ogni caso reputava che l'impegno assunto nell'ambito del fabbisogno concordatario dalle due generazioni delle famiglie valeva a integrare tale requisito, attesa la particolarità dell'obbligazione risarcitoria, in relazione alla quale l'unico momento di spendita del nome avrebbe potuto essere quello dell'assunzione della relativa responsabilità.

Quanto all'effettività del credito risarcitorio e all'insolvenza della società di fatto, la corte partenopea ne ravvisava l'esistenza in ciò: che il debito derivato dalla raccolta del risparmio era stato oggetto di accertamento del passivo nel fallimento di DCN ed era stato comunque riconosciuto nella proposta concordataria; l'azione risarcitoria, una volta intervenuto il fallimento della società eterodiretta, competeva al curatore; il credito risarcitorio conseguente alla raccolta abusiva del risparmio poteva essere accertato sulla base di una cognizione sommaria nell'ambito del giudizio di fallimento; anche a non voler considerare che un accertamento del passivo era stato comunque pur sempre operato dagli organi fallimentari della DCN, doveva ritenersi sufficiente la presa d'atto della ricognizione del debito eseguita prima del fallimento medesimo, posto che tale debito, ai fini della proposta concordataria, era stato stimato in euro 680.000.000,00 circa.

A fronte di tale imponente esposizione debitoria collegata alla raccolta abusiva, emergente anche da distinte dichiarazioni testimoniali rese dinanzi al giudice penale, era da attribuire valore essenziale all'indubbia e rilevante sottrazione di attivo dalle casse sociali della DCN.

La sottrazione costituiva pertanto la fattispecie di danno di cui la società di fatto era tenuta a rispondere ai sensi dell'art. 2497 c.c.; danno che, per stabilire l'insolvenza, non era utile quantificare in modo esatto, giacché la società di fatto era risultata priva di ogni attivo patrimoniale e gli unici beni offerti nella proposta concordataria a favore della DCN erano invero risultati di proprietà dei soci. Sicché in definitiva l'esatta quantificazione del credito risarcitorio non era infine neppure necessaria, non essendo la società di fatto risultata in grado di pagare nemmeno il minor credito di DCN come stimato nel passivo concordatario.

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorsi: Lucia B., articolando dodici motivi; Pasquale, Angelo e Micaela D.G., articolando anch'essi dodici motivi; Maria Luigia L. e Giovanna I., articolando tre motivi; Leonardo L., articolando due motivi.

In tutti i giudizi si sono costituite con controricorso la curatela del fallimento DCN e la curatela del fallimento della società di fatto.

Hanno depositato memoria i ricorrenti D.G. e il fallimento della società di fatto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I. Tutti i ricorsi, proposti separatamente avverso la medesima sentenza, vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.

II. I ricorsi di B. e dei D.G. muovono alla sentenza d'appello censure sostanzialmente identiche.

Le censure sono le seguenti.

Col primo motivo viene dedotta la nullità della sentenza in relazione agli artt. 81 c.p.c. e 6 della l. fall., essendo stata riconosciuta la legittimazione dell'unico creditore istante senza preliminare verifica della sussistenza del suo preteso credito.

Col secondo motivo è denunziata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2082, 2195, 2247 e 2497 c.c., nonché degli artt. 1 e 147 l. fall., essendosi stabilito che per la sussistenza di una società di fatto, svolgente attività di holding e suscettibile di fallimento, non sarebbe necessaria la spendita del nome della società medesima.

Col terzo mezzo è dedotta la violazione o falsa applicazione delle medesime norme sotto distinto profilo, per avere la corte d'appello affermato che per la sussistenza di una società di fatto, svolgente attività di holding e suscettibile di fallimento, il requisito della spendita del nome potrebbe comunque concretizzarsi ex post, attraverso la successiva assunzione della relativa responsabilità.

Col quarto motivo si censura la sentenza per violazione o falsa applicazione dell'art. 10 della l. fall., avendo la corte d'appello affermato che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento non sarebbe in principio applicabile alle società di fatto, in quanto imprese non iscritte.

Col quinto mezzo è dedotto l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5, c.p.c.), avendo l'impugnata sentenza comunque affermato, ma senza nient'altro aggiungere, che nessuna prova era stata fornita in ordine alla cessazione dell'attività da oltre un anno. La corte territoriale non avrebbe considerato che il fallimento della eterodiretta era stato dichiarato il 2 maggio 2012, con iscrizione della predetta sentenza il giorno dopo e con correlativa diffusione mediatica della notizia; fatti decisivi al fine di ritenere comunque così cessata l'attività di eterodirezione con idonea conoscibilità per i terzi.

Il sesto motivo denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 10 e 2082 c.c. per avere l'impugnata sentenza escluso la cessazione di attività d'impresa dopo il 2 maggio 2012, e comunque nell'anno anteriore al fallimento dichiarato il 9 maggio 2013, sulla scorta di atti volti a mettere a disposizione della procedura fallimentare beni costituiti in trust; atti che invece, per loro natura, attesa la gratuità, non potevano qualificarsi come espressione di attività d'impresa.

Col settimo mezzo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 5 e 6 della l. fall. e 2697 c.c., i ricorrenti censurano la sentenza per essersi limitata a una verifica di mera verosimiglianza dell'esistenza del credito risarcitorio dell'unico creditore istante, senza alcuna verifica della misura.

Con l'ottavo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 10 della l. fall. e 2082 c.c., censurano inoltre la sentenza per avere individuato nell'abusiva raccolta del risparmio un causa di sottrazione di attivo e quindi di danno, erroneamente ritenendo che il debito della DCN per la raccolta abusiva costituiva di per sé un danno da imputare alla società di fatto.

Col nono motivo è dedotta la nullità della sentenza in relazione agli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost.: ciò per l'eventualità che si possa assumere affermato dalla corte distrettuale che la raccolta abusiva del risparmio, con la liquidità generata, aveva costituito occasione per pratiche distrattive fonte di danno. In tal caso si censura la sentenza perché al riguardo priva di motivazione o affetta da motivazione solo apparente.

Egualmente col decimo mezzo è dedotta la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 132 c.p.c. e 111 Cost., non essendo individuabile una comprensibile motivazione, nel senso di cui al motivo precedente, neppure nel contesto di altri passaggi della sentenza medesima, collocati in paragrafi diversi da quello (il decimo) finalizzato al tema.

Con l'undicesimo motivo i ricorrenti lamentano l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5, c.p.c.), in relazione all'avvenuto incasso di dividendi come elemento da cui desumere la causa lecita dell'esistenza di disponibilità finanziarie.

Infine col dodicesimo motivo viene denunziata la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 112 c.p.c. e 24 Cost., per avere la corte d'appello omesso di pronunciare su plurime eccezioni di prescrizione: segnatamente sulla invocata prescrizione di ogni credito risarcitorio per i danni prodotti fino al 23 gennaio 2008, di ogni credito comunque riconducibile a rapporti societari, di ogni ulteriore e diverso credito in ipotesi sorto fino al 23 gennaio 2003.

III. Il ricorso proposto da Maria Luigia L. e Giuliana I. è articolato in tre motivi.

Col primo è dedotta la nullità del procedimento per violazione degli artt. 24 Cost., 78 e 79 att. c.p.c., avendo la corte d'appello respinto alcune eccezioni preliminari riproposte in quella sede.

Si trattava: (a) di un'eccezione di invalidità dei provvedimenti del presidente del tribunale di Torre Annunziata di designazione di uno dei magistrati componenti il collegio fallimentare, in sostituzione di altro; (b) di un'eccezione di avvenuta notifica del decreto di fissazione dell'udienza prefallimentare a mezzo polizia giudiziaria alle ore 19 del giorno antecedente; (c) di un'eccezione afferente l'avvenuto più che tempestivo deposito della decisione di primo grado, della lunghezza di 70 pagine, nella stessa data del 9 maggio 2013.

Col secondo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione delle norme in materia di valutazione delle prove, nonché l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, avendo la corte d'appello erroneamente ritenuto non applicabile l'art. 10 della l. fall., richiamato dalle reclamanti in merito al decorso del termine per il fallimento della società di fatto (art. 147 l. fall.). Le ricorrenti sostengono che la norma avrebbe dovuto esser riferita anche alle imprese non iscritte nel relativo registro, e inoltre lamentano non avere la corte d'appello esaminato la circostanza della loro revoca degli impegni assunti in beneficio di DCN, mediante atti notificati all'amministratore di quella società e agli altri soci; atti costituenti chiara e incontrovertibile dichiarazione di recesso dall'asserita società di fatto.

Col terzo mezzo le ricorrenti denunziano la nullità della sentenza per carenza di legittimazione attiva della curatela del fallimento di DCN, ai sensi degli artt. 81 c.p.c. e 6 della l. fall., essendo stato il ricorso per dichiarazione di fallimento della società di fatto proposto sulla base non di un credito risarcitorio in effetti accertato ma di una semplice pretesa.

IV. Infine il ricorrente Leonardo L. articola, nel proprio ricorso, due motivi.

Il primo di questi denunzia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in ordine alla esistenza di elementi probatori idonei a individuare in capo al ricorrente la qualifica di socio di una holding di fatto. La sentenza viene censurata per aver individuato gli elementi rappresentativi della fattispecie in dichiarazioni assunte nell'ambito del procedimento penale instaurato dinanzi al tribunale di Torre Annunziata, senza considerare che le prove atipiche possono essere fonte di convincimento, per il giudice civile, se e in quanto non smentite dal raffronto critico con altre risultanze del processo. In questi termini l'insussistenza di qualsivoglia ruolo di Leonardo L. quale amministratore di fatto o socio di fatto di una holding avrebbe dovuto essere dedotta dalla circostanza che le assunzioni di personale, le scelte operative, le nomine per cariche sociali, le riunioni operative avevano visto il predetto L. assolutamente estraneo a esse. Ed egualmente non probanti avrebbero dovuto essere ritenute le circostanze afferenti il coinvolgimento del ricorrente nella dedotta circolarità economica delle operazioni poste in essere nella fase di crisi della DCN, non essendo dette operazioni inquadrabili che in termini di finanziamento e di garanzia e non essendo, quindi, indicative di un'attività di dominio stabile e duraturo della società fallita.

Anche il ricorrente L., inoltre, lamenta che la corte d'appello non abbia tenuto conto della necessità di fornire la prova della esteriorizzazione del vincolo sociale, onde potersi stabilire l'esistenza di una holding di fatto.

Col secondo mezzo, il ricorrente ascrive alla sentenza un'insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione su fatto decisivo, oltre che la nullità e la violazione e falsa applicazione degli artt. 2247 e 2497 c.c., in ordine alla ritenuta esistenza della società di fatto in difetto di prova di contegni gestionali e di spendita del nome nei rapporti coi terzi.

V. Le delineate censure prospettano, contro la sentenza della corte d'appello, questioni per buona parte comuni. Questo induce la corte a svolgere la disamina dei motivi hinc et inde rassegnati accorpando le questioni sottoposte, in modo tale da rendere infine più comprensibili i principi di diritto.

VI. In ordine logico, vanno affrontate innanzi tutto le questioni di nullità consegnate al primo motivo del ricorso L./I.

Si censura la sentenza per aver respinto le eccezioni non accolte dal tribunale, e nuovamente avanzate in sede di reclamo, aventi per oggetto (i) l'invalidità dei provvedimenti del presidente del tribunale di Torre Annunziata di designazione di uno dei magistrati componenti il collegio, in sostituzione di altro; (ii) l'avvenuta notifica del decreto di fissazione di udienza alle ore 19 del dì antecedente; (iii) l'avvenuto deposito della decisione (della lunghezza di 70 pagine) nella stessa data del 9 maggio 2013 in cui era stata deliberata.

Le doglianze, ove non inammissibili nel loro complesso, per violazione dell'art. 366, n. 4, c.p.c., attesa la difficoltà di riscontrarne il necessario livello di specificità rispetto alla ratio decidendi mediante la quale la corte d'appello ha disatteso i corrispondenti profili di gravame, sono in ogni caso prive di fondamento.

La corte d'appello ha ritenuto non pertinenti le critiche ai provvedimenti di sostituzione del magistrato astenuto, stante la "natura ordinatoria" di codesti provvedimenti.

L'affermazione non è perspicua, essendosi semmai trattato di provvedimenti organizzativi, non ordinatori del processo.

Tuttavia è sufficiente correggerla ai sensi dell'art. 384, ultimo comma, c.p.c., giacché, nell'ambito dell'organizzazione dell'ufficio giudiziario, la sostituzione del magistrato non determina in sé una nullità le volte in cui non incida - come nella specie non ha inciso (né è dedotto che abbia inciso) - sul principio di immutabilità del giudice chiamato a decidere la controversia.

Va del resto rammentato che, ai sensi dell'art. 156 c.p.c., la nullità dell'atto processuale per inosservanza di elementi formali è soggetta al principio di tassatività, sicché non può essere pronuncia se non comminata dalla legge (v. ex aliis Sez. 3 n. 6964-01, n. 2810-97; e v. pure, sebbene con specifico riferimento all'immutabilità del giudice istruttore nel processo di cognizione, Sez. 3 n. 7622-10).

La corte d'appello ha poi sottolineato che l'udienza prefallimentare, rispetto alla quale è ancora in questa sede eccepita la brevità del termine dilatorio dipendente dalla comunicazione avvenuta nella serata dell'8 maggio 2013, derivava da un rinvio di quella già tenuta il 30 aprile 2013, nella quale il ricorso per dichiarazione di fallimento era stato "diffusamente trattato". Sicché da questo punto di vista, nessuna lesione del diritto di difesa si era determinata quanto all'udienza di prosecuzione del 9 maggio 2013, né una qualsivoglia tal lesione era stata paventata dai reclamanti.

Le ripetuta circostanza non risulta specificamente contrastata in questa sede di legittimità e osta a condividere il fondamento dell'eccezione processuale, giacché la previsione di un termine minimo di preavviso (quindici giorni) è stabilita, dall'art. 15 della l. fall., solo in relazione alla prima udienza conseguente all'istanza di fallimento, non anche per quelle successive.

Pretestuoso, invece, appare il rilievo sui tempi di redazione della motivazione della sentenza.

In disparte la singolarità di una doglianza di tal tipo, afferente la concreta brevità (anziché l'esorbitanza) della tempistica redazionale, indice semmai di efficienza in rapporto allo specifico incombente e al rispetto di termini processuali stabiliti solo nel massimo, vi è che nessuna nullità è comminata dalla legge in relazione alla fattispecie. Il che, nell'ottica del già ricordato principio di tassatività, esclude in radice che all'eccezione della parte ricorrente possa annettersi un qualsivoglia giuridico costrutto.

VII. Devono essere unitariamente esaminati i motivi di ricorso che hanno prospettato la questione del difetto di legittimazione della società DCN ai fini della dichiarazione di fallimento.

Si tratta del primo motivo dei ricorsi B. e D.G. e del terzo motivo del ricorso L./I.

I ricorrenti sostengono che l'istanza per dichiarazione di fallimento sarebbe stata presentata sulla base non di un credito risarcitorio in effetti accertato ma di una semplice pretesa, donde la legittimazione dell'unico creditore istante sarebbe stata ritenuta senza preliminare verifica della sussistenza del suo credito.

I motivi sono infondati.

L'art. 6 della l. fall., laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l'altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l'esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all'esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell'istante e la conseguente insolvenza del debitore (cfr. per tutte Sez. un. n. 1521-13, cui adde Sez. 1 n. 11421-14).

Il procedimento per dichiarazione di fallimento non è invero funzionale all'accertamento (o alla verifica) del credito della parte istante, ma all'accertamento dello stato d'insolvenza, sicché, riguardo al credito contestato, suppone - e consente - un'indagine solo incidenter tantum, per non trasformare l'oggetto del procedimento in guisa tale da farne un giudizio di cognizione sullo specifico credito posto a base dell'iniziativa di parte.

La corte d'appello, nella parte finale della motivazione - di cui in narrativa si è già dato sinteticamente conto e che a tempo debito verrà meglio considerata -, ha valutato l'insolvenza della società di fatto affermando esistente il debito risarcitorio nei confronti dei creditori della società eterodiretta DCN; e nell'affermazione di esistenza del credito corrispondente è implicito l'accertamento della afferente condizione di legittimazione dell'istante - e quindi del presupposto processuale - di cui all'art. 6 della l. fall.

VIII. Nel secondo e nel terzo motivo dei ricorsi B. e D.G., e nel primo e nel secondo motivo del ricorso di Leonardo L., è fatta questione della esistenza e della spendita del nome della società di fatto holding.

Il problema è rappresentato dall'interrogativo se, per ritenere esistente la società di fatto holding, e per dichiararne il fallimento, fosse o meno necessario l'accertamento della spendita del nome di tale società nei rapporti esterni.

Viene sottolineato che la necessità che il soggetto spenda il proprio nome nei rapporti esterni per essere individuato come holding, e dunque come imprenditore collettivo fallibile, è stata costantemente ribadita dalla giurisprudenza di questa corte; giurisprudenza facente capo a Sez. 1 n. 1439-90 e poi consolidata da Sez. 1 12113-02 e n. 3724-03 e da Sez. un. n. 25275-06.

Si sostiene che finanche la decisione evocata dalla corte partenopea come sinonimo di un orientamento più elastico ("meno ingessato") - Sez. 1 n. 23344-10 - non sarebbe in verità distonica rispetto all'orientamento prevalente, avendo detta sentenza preso in esame una fattispecie in cui appunto le parti, finanziando e sorreggendo con garanzie personali l'attività delle società ivi considerate, avevano speso il proprio nome nell'assumere i citati impegni, in modo da ingenerare nei terzi la sicura convinzione di un vincolo sociale tra loro.

Il solo L. poi si duole dell'esser stata individuata anche per lui la qualità di socio.

Codesta ultima doglianza è peraltro inammissibile in quanto risolta in un sindacato di fatto in ordine alla valutazione della prova; sicché la confutazione di essa non necessita di altro.

I motivi, unitariamente intesi nella parte afferente le considerazioni in diritto, sono invece infondati.

E lo sono per due concorrenti ragioni.

IX. Necessaria premessa è che il principio di diritto a cui i ricorrenti alludono - tratto da Sez. 1 n. 1439-90 - riflette l'affermazione secondo cui, in ipotesi di holding di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la configurabilità di un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima.

Il principio, configurato in una situazione in cui i soggetti erano stati dichiarati falliti sia in proprio, quali titolari di distinte imprese individuali, sia ex art. 147, comma 2, l. fall. (nel testo pro tempore), quali soci illimitatamente responsabili di una società di fatto del pari ritenuta esistente a latere delle società di capitali, corrisponde in effetti a un orientamento consolidato.

Esso peraltro manifesta la sua ratio in ciò: che al fine della dichiarazione di fallimento di una qualunque società, l'accertamento dello stato d'insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, a prescindere dal fatto che si tratti di società inserita in un gruppo, e quindi in una pluralità di società collegate o controllate da un'unica società-madre ("holding").

Invero, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna delle società (madre o figlie) conserva distinta la propria soggettività giuridica e autonoma la qualità di imprenditore, rispondendo, con il proprio patrimonio, soltanto dei propri debiti.

Consegue che il problema della spendita del nome si pone al fine di stabilire la fallibilità della società di fatto holding in ragione della sua specifica responsabilità imprenditoriale per le obbligazioni assunte, non anche l'esistenza della società medesima. La quale esiste, come impresa commerciale, per il sol fatto di esser stata costituita tra i soci col fine della direzione unitaria delle società commerciali figlie, vale a dire per l'effettivo esercizio dell'attività di direzione e controllo oggi esplicitamente considerata dagli artt. 2497 e ss. c.c.

X. Ora, in tutti i casi in cui la società di fatto risponde ai canoni della cd. società occulta - come nella specie la corte d'appello ha accertato, ancorché senza evocare esplicitamente il corrispondente istituto giuridico, mediante sottolineatura dell'essere stati i soci animati dall'intento di far operare, infine, le singole società eterodirette "come strumenti strategici per un interesse sovradimensionato", corrispondente alla realtà fattuale propria del rapporto interno, senza "bisogno alcuno di renderla nota" - non ha senso porsi il problema della spendita del nome ai fini del riconoscimento della sua esistenza e operatività.

Non ha senso perché - come da tempo si riconosce - è propria di quella fattispecie giustappunto la concordata volontà dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto della società ma non in suo nome. Sicché, fermo l'attuale esplicito riconoscimento di fallibilità di siffatto tipo sociale post riforma puntualmente determinato dall'art. 147, comma 5, l. fall., ma in verità da sempre riconosciuto dalla giurisprudenza -, è assolutamente pacifico che in casi del genere, gli atti di impresa, se esistenti in termini oggettivi, sono sempre posti in essere "per conto" di un soggetto diverso da quello che appare. E se ricorrono gli altri elementi previsti dall'art. 2247 c.c. l'esistenza della società di fatto (occulta) non può essere messa in dubbio.

Non a caso questa corte già in epoca lontana (v. Sez. 1 n. 977-76, n. 2895-72) ha avuto modo di rappresentare, in fattispecie di estensione alla società di fatto - e al socio occulto di essa - del fallimento dichiarato nei confronti di imprenditore individuale, che la società di persone, realmente esistente ma occulta, risponde di fronte ai terzi anche in difetto della cosiddetta esteriorizzazione, ossia della prova di un comportamento dei soci apparenti idoneo a determinare in concreto l'incolpevole affidamento dei terzi circa l'esistenza della società.

Nel caso di specie l'impugnata sentenza, con accertamento di fatto insindacabile perché pienamente motivato anche in rapporto alle fonti di prova, ha stabilito che era stata costituita tra i componenti le tre famiglie I./D.G./L. una società di fatto holding, avente a oggetto l'attività di eterodirezione delle società facenti parte del cd. gruppo Deiulemar; e che la corrispondente attività era stata in effetti esercitata mediante un articolato disegno inteso ad attuare un "sistematico rastrellamento di risorse finanziarie" mediante la raccolta abusiva di risparmio, "attraverso la non occasionale presenza nei luoghi i cui essa si è svolta, i frequenti contatti con la clientela, l'adozione di direttive e di istruzioni ai dipendenti"; il tutto "nella particolare logica e condizione fattuale di intervenire in detta attività (...) perché membri delle tre famiglie e, al pari, perché legati alle esigenze di tale gestione dalla cointeressenza del gruppo societario (...)".

Donde può osservarsi che, in base all'accertamento di fatto, la natura organizzata e commerciale dell'attività posta in essere dalla società di fatto costituiva il riflesso, con scopo illecito, dell'organizzazione dei mezzi delle società commerciali dirette e coordinate, secondo un modello di impresa che non necessitava d'altro che dell'elaborazione delle direttive e delle istruzioni da impartire alle società figlie, esattamente nel senso dell'abuso indicato dall'art. 2497 c.c.

Nell'ottica di tale norma l'attività di direzione e coordinamento consiste, invero, nell'esercizio effettivo di un'ingerenza qualificata nella gestione di una o più società, espressione di una posizione di potere tale da incidere stabilmente nelle scelte gestorie e operative dei singoli organi amministrativi e tuttavia concretizzata in comportamenti estranei alla sfera della corretta gestione societaria e imprenditoriale, animati dal perseguimento di interessi propri o di terzi.

In simile situazione, proprio a seguire l'indirizzo giurisprudenziale richiamato dai ricorrenti, un problema di spendita del nome non aveva alcuna ragione di porsi, essendo stata la società eterodirigente costituita come occulta.

XI. Bisogna aggiungere un'altra considerazione, che concorre con quella appena svolta e che consente di esplicitare un concetto che la corte distrettuale ha appena lambito negando rilevanza al requisito della esteriorizzazione.

La corte d'appello ha osservato che si trattava, nella specie, di obbligazioni risarcitorie integrate dalla violazione di doveri di comportamento causativa di danno alle società eterodirette e, di riflesso, ai loro creditori.

Questa concorrente ratio decidendi è esatta.

L'eccepita mancanza del requisito della spendita del nome della società di fatto non poteva interessare, non solo perché la società - come detto - era occulta, ma anche perché non venivano in rilievo le obbligazioni volontariamente assunte.

I ricorrenti omettono di tener conto che la responsabilità, posta a base della valutazione di insolvenza, era ancorata all'art. 2497 c.c., essendo stata dedotta - e poi dal giudice del merito accertata - la realizzazione di comportamenti estranei alla fisiologica destinazione dei poteri legittimi di direzione e di coordinamento.

Come anticipato, l'orientamento giurisprudenziale evocato nei ricorsi muove dalla considerazione che la società di fatto holding è assoggettabile a fallimento in quanto imprenditore commerciale; e in questo senso è assoggettabile solo ove, nell'esercizio dell'attività di direzione, abbia posto in essere in nome proprio atti che siano fonte di obbligazioni.

In sostanza, la holding fallisce per obbligazioni proprie, ex art. 2740 c.c., non mai per obbligazioni delle società figlie, pur dirette e coordinate; e quindi fallisce se ha assunto direttamente obbligazioni in proprio.

Il problema dell'agire in proprio riguarda l'ambito della responsabilità patrimoniale della holding, individuale o collettiva, giacché l'insolvenza, ovvero l'impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, deve essere valutata con riguardo alle (sole) obbligazioni proprie.

Tuttavia, per quanto una siffatta soluzione debba essere in linea generale mantenuta, siccome rispondente alla distinta soggettività giuridica - e all'autonomia patrimoniale - delle singole società, che non viene meno in ipotesi di rispondenza di tutte codeste a un'attività di direzione unitaria, vi è che la stessa non giova ai ricorrenti.

Da quella discende che i creditori legittimati a chiedere il fallimento della società di fatto holding sono soltanto i suoi creditori.

Ma il fatto che i creditori delle società figlie non siano nel contempo, e per ciò solo, creditori della società di fatto holding non rileva allorché si discorra - come nella fattispecie - di obbligazioni risarcitorie gravanti sulla holding secondo il disposto dell'art. 2497, per il pregiudizio arrecato ai creditori delle società figlie dalla lesione cagionata, in dipendenza di un'agire illecito, all'integrità del patrimonio di quelle società.

Chi esercita l'attività di direzione e coordinamento in modo illecito, approfittando e abusando dei poteri di direzione, ed eludendo per fini propri i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art. 2497, comma 1), risponde non di obbligazioni derivanti da un'agire negoziale, in questo senso contratte direttamente (e per le quali potrebbe in astratto valere un problema di spendita del nome), ma di obbligazioni appunto risarcitorie. E trattandosi di responsabilità di tipo esclusivamente risarcitorio (extracontrattuale) per i danni arrecati dall'attività di direzione abusiva (ai soci e) ai creditori delle società dirette e coordinate - suscettibile di esser fatta valere, in caso di sopravvenuto fallimento delle società figlie, dai rispettivi curatori - non si pone, e non può porsi, un problema di esteriorizzazione, non essendosi dinanzi - come esattamente dalla corte d'appello sottolineato nel breve passaggio della pur lunga motivazione - a obbligazioni "volontarie".

L'obbligazione risarcitoria ex art. 2497 c.c. trova fonte nell'illecito costituito dall'agire nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione di doveri e principi di corretta gestione delle società eterodirette, ove da ciò sia derivato un danno patrimoniale alle società figlie e di riflesso (per quanto interessa in questa sede) al ceto creditorio di queste società.

Per cui, ferma la già sottolineata peculiarità della società occulta, la società di fatto holding risponde delle obbligazioni volontariamente assunte in nome proprio ma risponde anche delle obbligazioni risarcitorie derivanti dall'aver esercitato l'attività direttiva in modo estraneo alla fisiologica corretta gestione societaria e imprenditoriale; e in tal secondo caso l'obbligazione risarcitoria sorge nei confronti dei creditori delle società figlie per il sol fatto che l'agire illecito abbia causato il danno all'integrità patrimoniale della società diretta e coordinata, tale da renderne il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese dei creditori.

XII. Nel quarto, quinto e sesto motivo dei ricorsi B. e D.G., e nel secondo motivo del ricorso L./I., è posta la questione dell'art. 10 l. fall.

Ci si duole dell'avere l'impugnata sentenza escluso la cessazione di attività d'impresa della società di fatto a far data dal 2 maggio 2012, in cui era stato dichiarato il fallimento della società eterodiretta.

Anche questi motivi sono infondati.

È innanzi tutto da puntualizzare che, diversamente da quanto eccepito, la sentenza non ha consegnato la decisione a un lapidario assunto di non operatività dell'art. 10 della l. fall. per le società non iscritte al registro delle imprese.

La sentenza ha esplicitamente affermato di voler prescindere da tale questione, come evincesi dall'inciso di esordio della frase che ne rappresenta il profilo (v. a pag. 12: "a prescindere dal tema dell'operatività della regola (...) alle società non iscritte nel registro delle imprese").

La ratio decidendi è un'altra, ed è che non era stata fornita la prova che la società di fatto avesse cessato da oltre un anno la propria attività e che tale circostanza fosse stata resa nota ai terzi.

A fronte della mancanza di prove, elementi contrari erano invece da ravvisare, secondo la corte distrettuale, nella missiva del 27 agosto 2012 con la quale il professionista, che aveva difeso la DCN ai fini della proposta di concordato preventivo, dopo il fallimento aveva trasmesso dieci accordi datati 2 agosto 2012 con cui i soci di fatto si erano impegnati a mettere a disposizione della procedura i beni costituiti in trust.

L'accertamento in ordine alla cessazione dell'attività è istituzionalmente rimesso al giudice del merito ed è insindacabile in cassazione ove i fatti storici a esso correlati siano stati - nell'ottica del nuovo testo dell'art. 360, n. 5, c.p.c. (cfr. Sez. un. 8353-14) - considerati.

A tal riguardo, i fatti storici denunciati hinc et inde sono stati appunto dalla corte d'appello ritenuti insufficienti a provare che la società di fatto (esercente la direzione) avesse cessato la propria attività da oltre un anno, dopo il fallimento della eterodiretta, con modalità conoscibili ai terzi.

E lo sono stati pure i fatti storici enunciati dalla difesa delle ricorrenti L./I., incentrati su un asserito recesso per effetto di revoca dell'impegno finanziario assunto.

Il recesso - giova dire in termini generali - dà per presupposta l'esistenza della società di fatto, di contro negata dagli altri ricorrenti. Quel che rileva è peraltro che il giudice a quo lo ha ritenuto niente affatto desumibile dalla dedotta revoca ai fini della conoscenza della corrispondente circostanza da parte dei creditori della società DCN.

La conclusione alla quale la corte distrettuale è infine pervenuta - vale a dire che nessuna prova era stata fornita onde potersi dire integrata la fattispecie ex art. 10 della l. fall. - resiste alle censure.

Questa corte ha già affermato che il principio emergente dalla sentenza n. 310-00 e dalle ordinanze n. 361-01 e n. 131-02 della Corte costituzionale secondo cui il termine di un anno dalla cessazione dell'attività, prescritto dall'art. 10 l. fall. ai fini della dichiarazione di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese, anziché dalla definizione dei rapporti passivi - se, da un lato, non esclude l'applicabilità del termine anche alle società non iscritte nel registro, dall'altro suppone nei confronti di queste un bilanciamento tra opposte esigenze, di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche.

Simile bilanciamento richiede di individuare il dies a quo nel momento in cui la cessazione dell'attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, o comunque sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata (v. Sez. 1 n. 6199-09; n. 18618-06).

Il citato insegnamento deve essere coordinato con la situazione di specie, nella quale la società di fatto, per quel che emerge dalla sentenza adottata dalla corte di merito, era occulta.

In tale prospettiva l'accertamento della tempestività della dichiarazione di fallimento andava assunto in base al criterio di effettività, essendo quello della società occulta un caso equiparabile, per quanto rileva, ai casi supponenti la prova dell'esercizio concreto di un'attività (cfr., per le fattispecie risalenti all'epoca anteriore alla istituzione del registro delle imprese, Sez. 6-1, n. 8033-12).

Riprendendo la similitudine, l'accertamento della tempestività era quindi da affidare al momento in cui fosse stata portata a conoscenza dei terzi la ipotetica cessazione dell'attività (di direzione) in sé e per sé considerata, indipendentemente dal soggetto al quale fosse imputabile.

È agevole osservare che neppure dal ricorso risulta che le difese dei ricorrenti abbiano assolto all'onere dimostrativo circa l'esistenza di consimile, specifica, oggettiva condizione, essendo stato il tema offuscato dietro un'inferenza del tutto astratta, secondo cui il fallimento della eterodiretta sarebbe in sé prova della cessazione dell'attività di direzione.

Questo, da un lato, è inesatto, proprio a cagione dell'eccesso di astrattismo che lo inficia, e, dall'altro, è smentito dal giudice del merito, il quale, con una valutazione di fatto non implausibile, ha individuato i segni tangibili della persistenza dell'attività direttiva (giova ripetere: in sé e per sé considerata) nelle iniziative finanziarie perpetuate anche dopo la dichiarazione d'insolvenza.

XIII. Nei motivi dal settimo all'undicesimo motivo dei ricorsi B. e D.G. e in parte nel terzo motivo del ricorso L./I. è posta la questione dell'esistenza del credito risarcitorio e della conseguente valutazione dello stato di insolvenza della società di fatto.

Si deduce che la corte d'appello, limitandosi a una verifica di semplice verosimiglianza dell'esistenza del credito risarcitorio azionato dalla curatela del fallimento di DCN, unico creditore istante, avrebbe mancato di effettuare l'accertamento che si richiedeva e avrebbe altresì errato nel ritenere che il debito della fallita DCN, per la raccolta abusiva del risparmio, fosse tale da rappresentare di per sé il danno da imputare alla società di fatto.

In alternativa si sostiene che la corte d'appello avrebbe infranto l'obbligo di motivazione di cui all'art. 132 c.p.c. ovvero avrebbe omesso di esaminare il fatto decisivo dell'avvenuto incasso di dividendi.

La critica consegnata ai citati motivi di ricorso è priva di fondamento.

L'impugnata sentenza ha valutato il credito risarcitorio in base al principio per cui nel fallimento l'insolvenza del debitore può essere accertata, in relazione ai crediti contestati, con cognizione incidenter tantum (v. per tutte Sez. 1 n. 6306-14).

Ne ha quindi ravvisato l'effettività in relazione non alla raccolta abusiva del risparmio in sé considerata - fatto che la corte d'appello ha affermato "comunque riconosciuto dalla società nella proposta concordataria" ma (pag. 61 della motivazione) alla "indubbia e rilevante sottrazione di attivo dalle casse sociale della DCN". Tale sottrazione ha giustappunto imputato ai soci illimitatamente responsabili della società di fatto holding, che avevano programmato il sistematico rastrellamento delle risorse della società eterodiretta e ne avevano attuato, in ultima analisi, la spoliazione.

Il ragionamento della corte territoriale è ben evincibile e la motivazione al riguardo spesa è altresì finanche congruente.

L'entità delle risorse in tal modo sottratte è stata invero plausibilmente quantificata in sorte capitale prossima a quanto indicato (almeno) nella proposta concordataria, vale a dire nella somma minore tra quelle che le risultanze istruttorie avevano consentito di stimare: una somma comunque rilevantissima (Euro 680.000.000,00, nella migliore delle ipotesi), a fronte del fallimento della eterodiretta e della totale mancanza di attivo della stessa società di fatto.

L'accertamento non è sindacabile da questa corte.

Non lo è neppure sul versante del presunto omesso riferimento a incassi di dividendi nel contesto della società DCN, non fosse altro che per difetto di autosufficienza, non essendo minimamente spiegato dai ricorrenti in qual senso i dividendi avrebbero inciso sull'enorme ammanco constatato dagli organi fallimentari.

La prova dell'incapienza è nella infruttuosità della richiesta di adempimento che il creditore abbia indirizzato alla eterodiretta.

Ove sopravvenga il fallimento di questa l'incapienza patrimoniale può considerarsi pacifica, cosicché il curatore del fallimento, valutata la sottrazione delle risorse previamente costituite (nella specie discendenti da raccolta di risparmio), è ben legittimato a esercitare l'azione secondo la disciplina dettata dall'art. 2497, ultimo comma, c.c.

XIV. Deve essere infine esaminato il dodicesimo motivo dei ricorsi B. e D.G., nel quale è denunziata un'omissione di pronuncia della corte d'appello sull'eccezione di prescrizione del credito risarcitorio di cui all'art. 2497 c.c.

Il motivo va disatteso.

L'art. 2497 c.c. collega la responsabilità risarcitoria all'esercizio di attività di direzione abusiva. Parlando, al comma 2, di "fatto lesivo", evoca un tipo di responsabilità extracontrattuale, del resto così esplicitamente qualificata nella relazione di accompagnamento della riforma di diritto societario.

In ciò la norma trova riscontro nell'art. 90 del d.lgs. n. 270 del 1999 per la disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d'insolvenza, la quale, nei casi di direzione unitaria delle imprese del gruppo, già sancisce per gli amministratori che abbiano abusato di tale direzione una responsabilità solidale con gli amministratori della società insolvente quanto ai danni cagionati "in conseguenza delle direttive impartite"; con chiara allusione, quindi, a una responsabilità extracontrattuale per direttive effettivamente impartite, più che a una responsabilità per inadempimento di obbligazioni assunte nei confronti di soggetti determinati.

Orbene, secondo un consolidato orientamento, l'omessa pronuncia, qualora cada su domanda inammissibile (v. Sez. 1 n. 12412-06, nonché Sez. 6-1 n. 24445-10), ovvero su domanda infondata (v. Sez. 2 n. 2313-10), non costituisce vizio della sentenza e non rileva nemmeno come motivo di ricorso per cassazione, in quanto alla proposizione di una tale domanda non consegue l'obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito.

Il principio ovviamente si attaglia anche laddove si discorra di eccezioni.

L'eccezione di prescrizione, in quanto eccezione in senso stretto, deve fondarsi su fatti allegati dalla parte, quand'anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice. E questa corte ha chiarito che il debitore, ove eccepisca la prescrizione del credito, ha l'onere di allegare e provare il fatto che, permettendo l'esercizio del diritto, avrebbe determinato l'inizio della decorrenza del termine ai sensi dell'art. 2935 c.c. (cfr. Sez. lav. n. 16326-09, ma v. anche, implicitamente, Sez. 1 n. 11843-07).

Può allora osservarsi che il motivo di ricorso, raffrontato al tipo di responsabilità che qui rileva, non soddisfa il necessario livello di specificità quanto all'eccezione che si assume a suo tempo avanzata, non risultando indicato a quali specifici fatti lesivi tra quelli realizzati a mezzo delle direttive abusivamente attuate, e in concreto a quali poste risarcitorie, essa era stata rivolta.

Tanto determina il rigetto del dodicesimo motivo e, con esso, il rigetto integrale di tutti i ricorsi.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, alle spese processuali, che liquida per ciascuna parte resistente, in Euro 20.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi.

A. Di Tullio D'Elisiis

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