Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 21 luglio 2016, n. 38670

Presidente: Canzio - Estensore: Vessichelli

RITENUTO IN FATTO

1. Giulio Maria Tommaso C. ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in data 10 dicembre 2015 con la quale il Tribunale di Alessandria ha rigettato la richiesta di riesame dell'ordinanza di sequestro conservativo adottata, su istanza della parte civile, il 27 marzo 2015, dal Tribunale di Alessandria quale giudice procedente nei confronti del medesimo ricorrente e di altri imputati, in ordine ai reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale e preferenziale.

In particolare tali reati erano stati contestati con riferimento al fallimento della s.r.l. Comal, con un danno, nei confronti dello stesso fallimento costituito parte civile, quantificato in complessivi euro 4.871.879, pari al valore del denaro e dei beni mobili distratti e, altresì, con riferimento al fallimento della s.r.l. Zucuor, con danno quantificato in euro 1.229.988, in relazione a condotte analoghe.

2. Il giudice procedente ha ritenuto sussistente il fumus boni juris e il periculum in mora ed ha pertanto disposto la misura cautelare con riferimento a un'autorimessa e a un'abitazione in villini, entrambi intestati all'odierno ricorrente.

Il Tribunale ha ritenuto infondata la doglianza riguardante la pretesa illegittimità della misura per mancanza di specificazione degli elementi (ammontare del credito da garantire, del valore dei beni sequestrati e della capacità reddituale del ricorrente) concorrenti a determinare il periculum in mora.

Ha altresì ritenuto infondato il rilievo che il ricorrente non avrebbe materialmente posto in essere condotte distrattive, osservando, in contrario, che egli è chiamato a rispondere in forma concorsuale dei reati e, in forma solidale, della responsabilità da fatto illecito.

Ha respinto infine il motivo di impugnazione con il quale era stata dedotta la violazione degli artt. 316 c.p.p., 46, n. 4, l. fall. e 170 c.c., e cioè la illegittimità del sequestro conservativo in quanto disposto su beni impignorabili. Si trattava, invero, secondo la tesi del richiedente, di beni conferiti in un fondo patrimoniale costituito con atto notarile trascritto il 4 novembre 2009 e annotato a margine dell'atto di matrimonio, sottratti al pignoramento, e dunque al sequestro conservativo, per debiti che, come nel caso di specie, il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

Ha osservato il Tribunale, in via preliminare, che la questione della impignorabilità dei beni che sono stati sottoposti a sequestro conservativo dal giudice penale, appartiene alla competenza del giudice dell'esecuzione civile.

3. Ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell'imputato.

3.1. Ha dedotto in primo luogo la violazione dell'art. 324, comma 7, c.p.p., in relazione all'art. 309, commi 9 e 10, sostenendo che, avendo presentato l'istanza di riesame in cancelleria il 27 novembre 2015, corredata di documentazione, il dispositivo avrebbe dovuto essere depositato entro dieci giorni, mentre era stato pubblicato tardivamente il 10 dicembre 2015.

3.2. Con il secondo motivo ha dedotto la omessa motivazione sul periculum, in violazione dell'art. 316 c.p.p., sul duplice rilievo che sarebbe apodittica l'affermazione della mancanza di garanzie del credito, essendo stata omessa qualsiasi analisi della situazione patrimoniale e della capacità di reddito del ricorrente e dei coimputati e che il credito vantato dalla parte civile corrisponde a condotte di distrazione non contestate al ricorrente.

La risposta del Tribunale, d'altra parte, sarebbe insoddisfacente, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in sede civile, per cui in caso di illecito plurisoggettivo, ciascuno può essere chiamato a rispondere solo dei danni che ha provocato o concorso a provocare.

In altri termini, rispetto alla posizione del ricorrente, l'entità del credito rilevante ai sensi dell'art. 316 c.p.p. non sarebbe determinata né determinabile.

Sarebbe mancata del tutto, inoltre, da parte del Tribunale, la valutazione della consistenza patrimoniale dell'imputato.

La conclusione del giudice a quo sarebbe in contrasto con i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 51660 del 2014, laddove si è ritenuto che fossero imprescindibili la chiarificazione della situazione patrimoniale dell'imputato e il comportamento in concreto assunto.

3.3. Si è dedotta, infine, con il terzo motivo di ricorso, la violazione dell'art. 316 c.p.p. in relazione agli artt. 671 c.p.c., nonché 167 e 170 c.c. e 46 l. fall.

Era stato documentato dalla difesa come i beni caduti in sequestro fossero confluiti in un fondo patrimoniale costituito, ai sensi dell'art. 167 c.c., antecedentemente non solo alla misura cautelare in esame ma anche ai fatti oggetto del procedimento, richiamando la tesi giurisprudenziale sulla impignorabilità - e, dunque, insuscettibilità di sequestro conservativo - dei beni assoggettati al regime del fondo patrimoniale.

4. Il Procuratore generale, in data 11 febbraio 2016, ha presentato la propria requisitoria concludendo con la richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso, osservando in particolare che la giurisprudenza di legittimità riconosce la confiscabilità, pro quota, dei beni che costituiscono il fondo patrimoniale e che dall'art. 317, comma 3, c.p.p. si ricava testualmente che il sequestro conservativo disposto dal giudice penale è soggetto alle forme previste dal codice di procedura civile, nel senso che è il giudice in sede di esecuzione civile il solo deputato a risolvere le questioni relative ai limiti di pignorabilità dei beni.

5. Le parti civili costituite, curatela del fallimento Zucuor s.r.l. e del fallimento Comal s.r.l., con memoria si sono riportate alle conclusioni del Procuratore generale, citando, con particolare riferimento alla questione controversa, la giurisprudenza che qualifica come questione di merito, non sindacabile in Cassazione, l'apprezzamento sulla sequestrabilità del bene conferito in fondo patrimoniale.

6. Con ordinanza del 4 maggio 2016 la Quinta Sezione ha preso atto del contrasto giurisprudenziale e ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, chiedendo di pronunciarsi sul se le questioni attinenti alla impignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo possano essere proposte al tribunale del riesame nell'incidente cautelare ovvero se la competenza funzionale a deciderle sia devoluta al giudice dell'esecuzione civile.

7. Con provvedimento del 24 maggio 2016, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone la trattazione alla odierna camera di consiglio.

8. È stata depositata nuova requisitoria del Procuratore generale, il quale, reiterando le precedenti richieste, ha posto in evidenza, in primo luogo, che i limiti di pignorabilità dei beni, quando questi vengano sottoposti a sequestro conservativo, non possono che venire in considerazione nel tempo e nella sede processuale in cui essi sono deducibili: e cioè nella sede esecutiva civile, cui può accedersi dopo la definitività della condanna, quando il sequestro conservativo si converte in pignoramento.

Inoltre la deduzione della impignorabilità soggiace al principio dispositivo, con la conseguenza che, in mancanza di opposizione da parte dell'interessato, anche un bene impignorabile può divenire oggetto di esecuzione forzata.

In terzo luogo il Procuratore generale ha evocato l'assetto normativo - ed in particolare quello derivante dal combinato disposto degli artt. 192 e 185 c.p. -, nonché il costante orientamento giurisprudenziale civile per cui il fondo patrimoniale, quale atto a titolo gratuito, sarebbe inopponibile alla massa dei creditori, soprattutto in considerazione del suo connotato di fraudolenza, essendo stato istituito, dal debitore, dopo la realizzazione degli atti di distrazione, sebbene poco prima della dichiarazione di fallimento.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno.

Va peraltro preliminarmente osservato, affrontando il primo motivo di ricorso, che pone una questione pregiudiziale, che esso è destituito di qualsiasi fondamento.

Come esattamente rilevato nell'ordinanza di rimessione, in tema di misure cautelari reali, il termine di dieci giorni imposto, a pena di decadenza della misura, dal combinato disposto degli artt. 324, comma 7, e 309, commi 9 e 10, c.p.p., per la decisione da parte del tribunale del riesame, decorre dal giorno della ricezione degli atti processuali e non dalla ricezione dell'istanza di riesame (v. fra le molte, Sez. 2, n. 38091 del 5 giugno 2013, Dilucca, Rv. 257064).

Nel caso di specie risulta che il Tribunale si è ritenuto in possesso degli atti solo il 1° dicembre 2015, a seguito della ricezione della risposta del giudice procedente all'uopo interpellato, a nulla rilevando, in senso contrario, che, in allegato all'istanza di riesame fossero stati introdotti nell'incidente cautelare atti che, secondo la prospettazione del richiedente il riesame, sarebbero stati sufficienti alla decisione del medesimo.

2. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è il seguente:

"Se le questioni attinenti alla pignorabilità dei beni (costituenti, nella specie, un fondo patrimoniale) sottoposti a sequestro conservativo siano deducibili con la richiesta di riesame e debbano essere decise dal tribunale del riesame, oppure siano devolute in via esclusiva al giudice dell'esecuzione civile dopo la conversione del sequestro conservativo in pignoramento, a seguito della irrevocabilità della sentenza penale di condanna".

3. La fattispecie concreta che ha dato origine alla rimessione è quella della opposizione, in sede di incidente cautelare reale dinanzi al tribunale del riesame, dello specifico vincolo, gravante sui beni sequestrati, che deriva dal pregresso conferimento degli stessi in un fondo patrimoniale, vincolo del quale, dunque, si richiede il riconoscimento e la immediata operatività.

Con riferimento a tale fattispecie si registra un contrasto giurisprudenziale sulla competenza a provvedere, il quale, peraltro, si inserisce in un dibattito che aveva preso le mosse da fattispecie sostanziali diverse, con riguardo ad ipotesi di impignorabilità dei beni sottoposti al sequestro conservativo penale derivanti da vincoli di destinazione differenti dal fondo patrimoniale, e segnatamente quelli concernenti crediti retributivi o quelli derivanti da polizze assicurative sulla vita.

3.1. Va dunque rilevato, in primo luogo, che, relativamente alla specifica questione della deducibilità, nell'incidente cautelare penale, da parte dell'imputato-debitore, del vincolo di destinazione determinato dal conferimento del bene sequestrato in un fondo patrimoniale, si rinvengono due sole decisioni della Corte di cassazione.

Sez. 6, n. 4435 del 17 gennaio 2011, Trozzi, non mass., ha rilevato che il conferimento di beni in fondo patrimoniale non esclude la legittimità del sequestro conservativo disposto dal giudice penale, né lo condiziona al limite posto per l'esecuzione del pignoramento perché l'art. 317, comma 3, c.p.p. rinvia alle forme previste dal codice di procedura civile, sicché, fermo il titolo del sequestro conservativo disposto dal giudice penale, le questioni relative ai limiti di pignorabilità dei crediti sono proponibili solo in sede di esecuzione civile; Sez. 5, n. 598 del 1° ottobre 2003, dep. 2004, Rv. 227445, Orlando, si è limitata a decidere ex professo la questione della opposta impignorabilità derivante dal conferimento nel fondo patrimoniale, di fatto schierandosi, senza rilievi critici, a favore della tesi della competenza del giudice dell'incidente cautelare penale ed affermando che era illegittimo il sequestro conservativo disposto su beni facenti parte di fondo patrimoniale a garanzia di un debito contratto da una società fallita, in quanto necessariamente conosciuto come estraneo ai bisogni della famiglia, con la ulteriore precisazione che era irrilevante il fatto che il debito fosse stato contratto prima della costituzione del patrimonio familiare, in quanto la pignorabilità andava considerata al momento in cui ha luogo l'esecuzione.

3.2. Sul tema, in generale, della competenza a decidere riguardo alla impignorabilità di beni sottoposti a sequestro conservativo, dedotta dall'imputato colpito dal sequestro, la espressa articolazione di tesi contrapposte deriva, da un lato - oltre che dalla già citata sentenza Trozzi - dalle sentenze Sez. 5, n. 35531, del 25 giugno 2010, Donigaglia, Rv. 248495, e n. 42244 del 10 ottobre 2010, Ricci Maccarini, Rv. 248891, entrambe in tema di sequestro conservativo di somme derivanti da crediti lavorativi, e favorevoli alla competenza del giudice della esecuzione civile.

A favore della tesi opposta, e cioè del riconoscimento della competenza del giudice del riesame penale, e contestuale esclusione della riserva di competenza del giudice della esecuzione civile, in pendenza dell'incidente cautelare penale, si rinvengono le seguenti sentenze, relative al sequestro conservativo di crediti di lavoro: Sez. 6, n. 2033 del 22 maggio 1997, Lentini, Rv. 209111; Sez. 6, n. 16168, del 4 febbraio 2011, De Biase, Rv. 249329; Sez. 5, n. 31733 del 26 maggio 2015, Valeria, Rv. 264768.

Vale la pena citare, a sostegno della impostazione adottata dall'orientamento maggioritario, anche la sentenza Sez. 2, n. 46626 del 20 novembre 2009, Melis, Rv. 245466 che ha riconosciuto, in capo al giudice penale che dispone il sequestro conservativo, il potere previsto dall'art. 496 c.p.c., che consente al giudice, ove risulti l'esorbitanza dei beni originariamente staggiti rispetto all'ammontare del credito, la riduzione del pignoramento.

Possono ascriversi a tale filone giurisprudenziale anche le sentenze che, nell'ambito dell'incidente cautelare penale, sono passate alla diretta disamina del tema dell'applicabilità delle regole sulla impignorabilità a quanto sottoposto a sequestro preventivo: Sez. 1, n. 4081 del 6 luglio 1995, Caprara, Rv. 202884, che ha escluso la soggezione al limite di parziale impignorabilità delle somme percepite dal lavoratore a titolo di crediti di lavoro e in sua libera disponibilità, in quanto ormai confuse nel suo patrimonio, mentre l'art. 545 c.p.c., al quale rinvia l'art. 317 c.p.p., fissando il limite di pignorabilità nel "quinto" di detti crediti, si riferisce alla pignorabilità presso il datore di lavoro; Sez. 5, n. 16750 del 30 marzo 2016, Barberini, Rv. 266703, ha convalidato la tesi del tribunale del riesame sull'assoggettabilità a sequestro conservativo, a determinate condizioni, di somme derivanti dal riscatto di una polizza assicurativa sulla vita cui debba riconoscersi natura e finalità non previdenziali ma di strumento finanziario.

4. Tanto premesso, ritengono le Sezioni Unite che meriti di essere condiviso l'orientamento maggioritario da ultimo rievocato.

L'analisi della questione in esame non può che prendere le mosse - sia pure dopo la necessaria panoramica sulla evoluzione normativa che ha riguardato l'istituto del sequestro conservativo penale nella fase della impugnazione e una rassegna sinottica delle discipline di rilievo, nei codici di rito penale e civile e nei codici sostanziali - facendo leva sulla interpretazione letterale e sistematica dell'istituto menzionato, quale si evince dall'art. 316 c.p.p. e dalle norme susseguenti.

4.1. Tale precetto è stato concepito nel codice di procedura penale del 1988, per ridisegnare - attribuendole il giusto rilievo connesso alla incisività della misura, destinata a determinare anche la inibizione di rilevanti attività della persona - una tutela di tipo cautelare reale conservativo, capace di imporsi sulla precedente fisionomia dell'istituto, caratterizzata dall'essere una garanzia patrimoniale di esecuzione.

E ciò, in favore sia di crediti dello Stato dipendenti dalla celebrazione del processo concluso sfavorevolmente per l'imputato, sia di crediti della parte civile per le obbligazioni derivanti dal reato, con espansione della misura cautelare reale anche ai beni immobili e la successiva e coerente previsione, nell'art. 218 disp. att. c.p.p., della abrogazione dell'istituto dell'ipoteca legale sugli immobili, che era stata prevista a garanzia del pagamento di una serie anche maggiore di crediti dello Stato e della parte civile, unitamente al sequestro dei beni mobili, ritenuto peraltro estensibile anche a somme o cose mobili dovute da terzi all'imputato - previsione poi codificata nella edizione dell'art. 316 c.p.p. - ma non all'azienda.

Si è venuto così a delineare un istituto che, nelle sue connotazioni, ambisce a contemperare i vari interessi coinvolti, dovendo equilibrare la tutela della persona danneggiata dal reato, i diritti dei terzi creditori e di quelli che sono titolari apparenti dei beni sequestrati all'imputato uti dominus, la pretesa risarcitoria dello Stato e, non ultimo, il diritto dell'imputato a vedere esaminati i profili di legittimità della misura, particolarmente afflittiva perché destinata ad inibirgli in concreto l'esplicazione di diritti anche di rilevanza costituzionale: ciò che risulta evidente dalla avvenuta assimilazione, quanto al regime e alla collocazione nel codice, alle misure cautelari personali (v. Relazione al Progetto preliminare del codice di rito, pag. 79).

Parallelamente e contestualmente alla disciplina del codice penale sulla ipoteca legale e sul sequestro conservativo sopra citata, quella contenuta nel codice di rito del 1930 trovava sede negli artt. 616 e ss., con una impronta fortemente pubblicistica derivante dal potere-dovere di iniziativa del solo pubblico ministero (al quale, invece, oggi si aggiunge, come già prevedeva il codice di procedura penale del 1913, quello della parte civile), titolare esclusivo anche del potere di iscrivere direttamente la ipoteca legale, e con la previsione di un sistema di contestazione successiva da parte del colpito, che era di semplice "opposizione" (art. 618 c.p.p. previgente), da decidersi con le forme stabilite per l'incidente di esecuzione ad opera, a seconda dei casi, della corte di appello o del tribunale. Un complessivo sistema che una parte della dottrina dell'epoca aveva visto come caratterizzato da "provvedimenti di diritto civile del giudice penale" e che la giurisprudenza di legittimità reputava limitato al controllo e alla verifica dell'esercizio dei poteri attribuiti al p.m. (Sez. 3, 2 giugno 1981, Rametta, Rv. 149792), in tal senso venendo riconosciuto anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 136 del 1980).

Il vigente sequestro conservativo penale è un istituto ridisegnato anche sulla falsariga del sequestro conservativo civile, previsto dall'art. 2905 c.c. e regolato, nella procedura, dall'art. 671 c.p.c., del quale ricalca il limite alla autorizzabilità da parte del giudice rispetto a beni impignorabili, e la eseguibilità con forme (secondo le norme stabilite per il pignoramento presso il debitore o presso terzi o mediante trascrizione), che ne rendono evidente la natura di pignoramento anticipato. Omologa è anche la norma che prevede la conversione del sequestro conservativo in pignoramento (art. 686 c.p.c.).

Correttamente, tuttavia, la dottrina ha rimarcato che il carattere simile degli istituti disciplinati dai due codici di rito non deve far perdere di vista il fatto che il sequestro conservativo di cui all'art. 316 c.p.p. è una misura cautelare penale e il suo funzionamento va analizzato utilizzando "i criteri di fondo" di questo sistema.

4.2. La introduzione, nel vigente codice di rito (art. 318) del riesame dell'ordinanza di sequestro conservativo penale - attivabile sia dal pubblico ministero che dalla parte civile e da chiunque vi abbia interesse - ha segnato perciò la sostituzione di un vero proprio mezzo di impugnazione, anche nel merito, al precedente istituto dell'opposizione che, peraltro, se in origine conviveva con un assetto parallelo processualcivilistico nel quale, di regola, era esclusa l'impugnabilità dei provvedimenti di sequestro, destinati ad essere assorbiti dalla pronuncia sul merito, a partire dal 1990, a causa della lentezza delle procedure, aveva visto anche in tale sede modellare un più penetrante potere di reclamo dinanzi a giudice diverso da quello che aveva emesso la misura (con la formulazione dell'art. 669-terdecies c.p.c. ad opera dell'art. 74, comma 2, l. 26 novembre 1990, n. 353).

5. L'adozione della misura cautelare reale in sede penale comporta l'accertamento - che può essere operato tanto dal giudice emittente, in un non previsto ma neppure vietato contraddittorio preventivo, quanto dal giudice dell'impugnazione cautelare - dei presupposti applicativi che anche la dottrina classifica come "presupposti di legittimità" di pari dignità e rilevanza: il periculum in mora, descritto come fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie dei crediti erariali elencate nell'art. 316 c.p.p. e (per quanto riguarda la parte civile) delle obbligazioni civili derivanti da reato; la pendenza del processo penale nella fase di merito e la presenza di un soggetto al quale il reato venga ascritto, così intesi i limiti di individuazione del fumus boni juris; la deduzione ad opera delle parti legittimate, di uno dei crediti garantiti dalla norma; la disponibilità del bene da sequestrare (o sequestrato ad altro titolo), da parte dell'imputato.

Ulteriore e imprescindibile requisito, previsto dallo stesso art. 316, comma 1, è che il bene di cui si chiede il sequestro sia suscettibile di pignoramento, posto che il successivo art. 320, comma 1, stabilisce che il sequestro si converte in pignoramento, una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria ovvero quella che condanna l'imputato al risarcimento del danno.

Specularmente, non vi è motivo per non riconoscere che sia valutabile dal giudice che procede o da quello della impugnazione cautelare il rispetto dei parametri normativi che condizionano o possono paralizzare la deduzione della impignorabilità.

In questa prospettiva, che è quella che interessa ai fini della soluzione del contrasto giurisprudenziale denunciato, la catena dei rinvii, dall'art. 318 c.p.p. all'art. 324, fino al comma 9 dell'art. 309, rende evidente come il controllo demandato al tribunale del riesame sia "pieno" e non soffra delimitazioni ma debba tendere alla verifica di legittimità della misura ablativa per tutti i suoi profili, compresi quelli di sostanza e derivazione civilistiche, salvo l'esercizio del potere di devoluzione al giudice civile ai sensi dell'art. 324, comma 8, c.p.p.

5.1. Con riferimento ai crediti elencati nell'art. 189 c.p., le parti legittimate possono far valere, già in sede di richiesta della misura cautelare, e a maggior ragione in sede di riesame, le ipotesi di inefficacia automatica degli atti a titolo gratuito compiuti dall'imputato-debitore dopo il reato, previste con tali caratteristiche dall'art. 192 c.p., in quanto connotate da evidente callidità e senza che possa rinvenirsi alcuna ragione di tutela in favore dei beneficiari.

5.2. Ma possono essere fatte valere, con un onere di allegazione più complesso, anche quelle riguardanti gli atti a titolo gratuito compiuti prima del reato, al massimo entro l'anno precedente, se si prova che furono realizzati, dall'imputato, in frode (arg. ex art. 194, primo e secondo comma, c.p.); infine, quelle riguardanti gli atti a titolo oneroso eccedenti la semplice amministrazione ovvero la gestione dell'ordinario commercio, compiuti dopo il reato, dei quali la legge (art. 193, primo comma) presume essere stati fatti dal debitore in frode, pur richiedendo (al secondo comma) la prova della malafede dell'altro contraente, e gli atti di quest'ultimo tipo compiuti prima del reato, con la prova, richiesta dall'art. 194, secondo comma, della malafede sia dell'imputato che dell'altro contraente.

6. Invero, quelle descritte sono le ipotesi di c.d. revocatoria penale configurate per operare come altrettante cause di inefficacia relativa dell'atto dispositivo del bene, verso il creditore che agisce, appunto, per la relativa revoca in sede civile: creditore verso il quale l'atto, che in sé rimane valido, è destinato ad essere riconosciuto come "non opponibile" dal "colpevole", ossia dal soggetto già condannato, con la conseguenza della legittimazione di tale creditore ad aggredirlo con atti di esecuzione forzata.

Ciò nondimeno, le stesse cause di inefficacia ben possono spiegare i loro immediati effetti anche relativamente alla cautela penale, nella sede della emissione e della impugnazione del sequestro conservativo, prima che si converta in pignoramento.

Ed in tale assunto si sostanzia la ragione per la quale non può essere condiviso ma va piuttosto riclassificato il rinvio al giudice civile, per l'esame delle stesse, come considerato dalle sentenze afferenti all'orientamento minoritario qui disatteso.

6.1. È utile, in tale prospettiva, ricordare che mentre l'art. 317, comma 3, c.p.p. prevede le modalità di esecuzione del titolo cautelare mediante rinvio alle forme prescritte dal codice di procedura civile con riferimento all'omologo istituto (e cioè, deve intendersi, all'art. 678 c.p.c., per l'esecuzione del sequestro conservativo sui mobili e all'art. 679 dell'esecuzione sugli immobili), il successivo art. 320 c.p.p. disciplina, sempre con rinvio alle forme prescritte dal codice di procedura civile, le modalità di attuazione della fase cronologicamente successiva, ma solo eventuale, della esecuzione forzata sui beni sequestrati, che ha luogo dopo l'irrevocabilità della sentenza di condanna, quando il creditore agisce non più sul terreno cautelare reale ma aziona il procedimento della espropriazione forzata.

In quest'ultimo caso, non v'è dubbio che il rinvio normativo debba intendersi alla competenza del giudice civile per il procedimento esecutivo (art. 513 e ss. c.p.c. per l'espropriazione mobiliare e art. 555 e ss. c.p.c. per l'espropriazione immobiliare).

Può dirsi, in altri termini, che il rinvio alle forme del codice di procedura civile sia stato formulato, nel primo dei due articoli sopra citati, per disciplinare - in modo peraltro attagliato alla specifica natura della misura, distinta dall'altra misura cautelare reale rappresentata dal sequestro preventivo - la sola modalità per la concreta imposizione del vincolo nella fase cautelare; nel secondo dei precetti, per affermare le modalità esecutive per la soddisfazione del credito mediante la esecuzione forzata, dopo la conversione in pignoramento, e contemporaneamente far emergere la competenza funzionale del giudice civile.

6.2. È con riferimento, dunque, a tale ultima ipotesi, che vanno ricordate le numerose sentenze di questa Corte che si sono coerentemente e uniformemente pronunciate per la competenza del giudice civile a provvedere in merito al sequestro conservativo, dopo, cioè, che sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, sul presupposto che quello, al momento del passaggio in giudicato delle indicate sentenze, si converte ope legis in pignoramento: Sez. 6, n. 5406 del 7 febbraio 1995, Rv. 201277-8, Dell'Oro; Sez. 1, n. 37579 del 27 giugno 2001, Saetta, Rv. 220118; Sez. 1, n. 22468 del 16 maggio 2007, Brunengo, Rv. 236796.

7. Con riferimento alla emissione e alla impugnazione del sequestro conservativo penale, il tema della inefficacia dell'atto dispositivo, non meno che quello della impignorabilità del bene (che attiene, al pari del primo, alla opponibilità-inopponibilità del vincolo di destinazione costituito sui beni individuati per il sequestro) è agitabile viceversa esclusivamente dinanzi al giudice penale, sul presupposto di un automatico recepimento (di cui dà atto anche la giurisprudenza civile: Sez. 3, n. 23158 del 31 ottobre 2014) dell'effetto di inefficacia dell'atto di disposizione: rispettivamente, competente sarà, ove possibile il contradditorio anticipato, il giudice che emette la misura oppure, in alternativa o in aggiunta, quello del riesame ai sensi dell'art. 318 c.p.p.

In tal senso, dopo un primo pronunciamento in senso contrario (Sez. 1, n. 4950 dell'11 ottobre 1995, Fall. Bozzi, Rv. 203163) si è assestata la più recente giurisprudenza di questa Corte che, decidendo su incidenti cautelari, ha riconosciuto che possono essere oggetto di sequestro conservativo, oltre che i beni di proprietà dell'imputato o del responsabile civile, anche i beni di proprietà di terzi, a condizione che emergano elementi da cui risulti la mala fede dei terzi acquirenti o la simulazione del contratto d'acquisto (Sez. 2, n. 3810 del 19 dicembre 2008, Co.me.f.i. Metalli s.r.l. e altri, Rv. 242540). A sua volta, Sez. 2, n. 2386 del 19 dicembre 2008, Liuzzi, Rv. 243033, ha affermato che il sequestro conservativo può avere ad oggetto i beni intestati a terzi che ne hanno la titolarità in forza di un atto di donazione dell'imputato, attesa l'inopponibilità al creditore danneggiato dal reato degli atti a titolo gratuito posti in essere dall'imputato.

8. Allo stesso modo, nei confronti dell'imputato-debitore che sia fallito, può essere fatta valere, in sede di emissione o impugnazione del sequestro conservativo, la disciplina dell'art. 64 l. fall., che prevede la inefficacia degli atti a titolo gratuito compiuti dal fallito nei due anni precedenti la dichiarazione di fallimento e che, citata come fattispecie di revocatoria fallimentare (invece espressamente regolata dai successivi artt. 66 e ss.), al pari della analoga disciplina penale, è destinata a garantire una tutela più rafforzata di quella abbinata alla revocatoria ordinaria, qualificata, dall'art. 2904 c.c., come rimedio sussidiario rispetto alle altre due tipologie di inefficacia.

Anche in relazione alla disciplina dell'art. 64 l. fall. si registra l'unanime riconoscimento, da parte della giurisprudenza civile di legittimità e della dottrina, che l'inefficacia ha carattere necessario ed oggettivo ed opera automaticamente ove sussista il presupposto dell'esistenza dell'atto e della sua gratuità, tanto da potere essere dichiarata, in sede civile, con sentenza avente natura ricognitiva della situazione giuridica (Sez. 1, n. 6918 del 1° aprile 2005, Rv. 580236; Sez. 1, n. 1831 del 9 febbraio 2001, Rv. 543739; sulla stessa linea, Sez. 3, n. 23158 del 31 ottobre 2014, Rv. 633294).

In altri termini, non deve darsi luogo ad un'azione revocatoria in separata sede, posto che gli atti gratuiti, alle condizioni sopra precisate, sono inefficaci di diritto, non rilevando neppure la sussistenza dello stato di insolvenza, atteso che sono oggetto di una presunzione assoluta di frode nel biennio precedente alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Tale assunto ha trovato, recentemente, un solido conforto normativo nella previsione, contenuta nel nuovo secondo comma dell'art. 64 (aggiunto dall'art. 6, comma 1-bis, d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. dalla l. 6 agosto 2015, n. 132), secondo cui i beni oggetto degli atti di cui al primo comma sono direttamente acquisiti al patrimonio del fallimento per effetto della trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento, essendo ammesso reclamo avverso detta trascrizione.

9. Tutto ciò premesso, deve rilevarsi che la decisione del giudice a quo, nell'affidarsi ai principi espressi dalla giurisprudenza qui disattesa, e nell'affermare che la questione relativa alla insequestrabilità dei beni conferiti nel fondo patrimoniale riguarda la fase esecutiva del sequestro e non la sua astratta legittimità, è incorsa sia nella violazione di legge denunciata dal ricorrente (ex art. 316, comma 1, c.p.p.) per avere omesso di pronunciarsi sulla eccezione di impignorabilità dei beni sequestrati, rispetto alla quale era funzionalmente competente, sia, per l'effetto, in quella derivante dalla omessa radicale motivazione (ex art. 125 c.p.p.) sul medesimo tema.

Invero, il tema posto dal richiedente, oltre a rappresentare il profilo sulla competenza funzionale del tribunale, attingeva le questioni sostanziali relative all'essere, i beni sequestrati, precedentemente vincolati dal fondo patrimoniale (ex art. 167 c.c.) e quindi insuscettibili sia di pignoramento ai sensi dell'art. 170 c.c., alle condizioni da questo previste, che, a monte, di sequestro conservativo, e all'essere, quegli stessi beni così vincolati, neppure ricompresi nel fallimento, secondo quanto disposto dall'art. 46, comma 1, n. 3, l. fall.

A tale quesito il Tribunale del riesame non ha fornito risposta alcuna, non potendosi ritenere tale la prefigurazione della astratta possibilità che venga esperita un'azione revocatoria ai sensi dell'art. 2901 c.c. È questa, infatti, una affermazione che in nessun modo rende il giudice ottemperante al dovere di pronunciarsi sulla fondatezza della tesi, in concreto, dell'impignorabilità, come dedotta dall'imputato, da valutarsi, per di più, nell'ambito normativo di riferimento che è quello sopra tracciato e che richiede la considerazione anche del suo status di fallito.

Ed infatti, se è vero che il fondo patrimoniale è destinato, in base all'art. 170 c.c. - norma generale sulla non suscettibilità di esecuzione forzata di esso - a divenire un "patrimonio separato" del debitore, tanto che l'art. 46 l. fall., evocata dal ricorrente, ne esclude l'ingresso diretto nell'attivo fallimentare, è anche vero che una norma imperativa, qual è l'art. 64, primo e secondo comma, l. fall., prevede l'inefficacia immediata e diretta di quel vincolo nei limiti cronologici dallo stesso indicati.

La eccezione di impignorabilità dei beni sottoposti a sequestro richiedeva, da parte del Tribunale, l'apprezzamento della documentazione esibita dalla parte, capace di comprovare la costituzione di tale vincolo e la anteriorità di esso rispetto al sequestro conservativo, nella prospettiva della sua opponibilità come desumibile dall'art. 2906 c.c., ossia riconoscibile solo per le alienazioni e gli altri atti che abbiano avuto ad oggetto una cosa ancora non sottoposta al vincolo del sequestro.

9.1. Oltre a ciò, il Tribunale del riesame è tenuto - e lo sarà parimenti il giudice del rinvio, nei limiti della rilevanza - a valutare il vincolo di destinazione o altra causa di sottrazione alla esecuzione e conseguentemente alla sequestrabilità, opposti dall'imputato, in relazione alla natura, quanto al primo, di atto eventualmente a titolo gratuito (peraltro, con riferimento al fondo patrimoniale, già affermata dalla giurisprudenza civile: così, tra le molte, Sez. 1, n. 19029 dell'8 agosto 2013, Rv. 627510; Sez. 3, n. 966 del 17 gennaio 2007, Rv. 593742; Sez. 3, n. 15310 del 7 luglio 2007, Rv. 598607; Sez. 1, n. 18065 del 8 settembre 2004, Rv. 576858; per la individuazione, in generale, dei criteri distintivi della gratuità degli atti posti in essere prima del fallimento, v. Sez. un. civ., n. 6538 del 18 marzo 2010, Rv. 612300), oppure a titolo oneroso.

9.2. Deve poi accertare, nei limiti del dedotto, gli ulteriori elementi condizionanti l'opponibilità del fondo patrimoniale, come descritti dall'art. 170 c.c.

9.3. È tenuto inoltre a sperimentare la operatività, per converso, delle eventuali cause di inefficacia dell'atto stesso, nell'ambito del regime per ciascuna di queste previsto dalla legge, dovendo in particolare evidenziare gli elementi di fatto - che nel caso concreto non si desumono dal provvedimento impugnato - atti a far ricostruire, in modo univoco e nel rispetto dello standard dimostrativo richiesto dalla sede cautelare - il rapporto di anteriorità-posteriorità dell'atto dispositivo rispetto al momento di commissione del reato, come richiesto dagli artt. 192 e ss. c.p., oppure nella prospettiva dell'art. 64 l. fall.

9.4. In generale, poi, con riferimento alle cose mobili di cui si deduce l'impignorabilità, il giudice penale, all'atto dell'emissione del sequestro o in sede di riesame, è tenuto a verificare i limiti di operatività di detta causa di sottrazione all'esecuzione, come disciplinata, in termini di esclusione assoluta, dall'art. 514 c.p.c. (cose mobili assolutamente impignorabili), ovvero in termini di esclusione relativa, dall'art. 515 dello stesso codice (cose mobili relativamente impignorabili).

9.5. Con riferimento ai crediti, l'accertamento si rende necessario, ad esempio, in relazione ai limiti imposti dall'art. 545 c.p.c. (crediti impignorabili) o, ancora, alla normativa speciale sugli stipendi e compensi di qualunque specie dovuti ai pubblici dipendenti (d.P.R. n. 180 del 5 gennaio 1950); o alla diversa normativa sugli assegni vitalizi, sulle polizze assicurative, etc.; o ai numerosi altri crediti regolati dal codice civile come sottratti al pignoramento, quali quelli di cui agli artt. 2117, 326 e 1881 senza tralasciare quelli previsti dal codice della navigazione.

10. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto:

"Le questioni attinenti alla pignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo sono deducibili con la richiesta di riesame e vanno decise dal tribunale del riesame".

11. Passando alla disamina dell'ulteriore motivo di ricorso, ne va rilevata la inammissibilità, trattandosi di doglianza concernente l'insufficienza della motivazione sulla capacità patrimoniale e reddituale dell'imputato al fine di fondare la prognosi sul pericolo di dispersione della garanzia.

È noto infatti che, a partire dalla sentenza Sez. un., n. 5876 del 28 gennaio 2004, Bevilacqua, Rv. 226710, la giurisprudenza di legittimità è costante nel rilevare che nella nozione di "violazione di legge", per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell'art. 325, comma 1, c.p.p., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali.

Nel caso di specie il giudice del merito non ha affatto mancato di replicare ed anzi ha fornito adeguata risposta, peraltro riproponendo il principio affermato nel precedente di queste Sezioni Unite, n. 51660 del 25 settembre 2014, Zambito, Rv. 261118, secondo cui, per l'adozione del sequestro conservativo, è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, c.p.p., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore.

E su tale principio, il Tribunale ha sviluppato e argomentato la tesi della già attuale insufficienza del patrimonio del debitore a garantire l'elevato importo del danno potenzialmente risarcibile, come precisato nel capo d'imputazione con riferimento al valore degli atti distrattivi.

Deve infine essere esclusa la dedotta violazione relativa, nella prospettiva del ricorrente, al fatto che all'imputato, tratto a giudizio per concorso in bancarotta fraudolenta, non sia stata contestata specificamente la condotta distrattiva dalla quale è derivato il danno.

Il ricorrente ha lamentato, in altri termini, che, rispetto alla propria posizione, l'entità del credito rilevante ai sensi dell'art. 316 c.p.p. non sia stata determinata né determinabile, ciò che dovrebbe comportare la non addebitabilità ad esso del danno da reato, indicato soltanto in termini complessivi.

Invero, l'unicità del fatto dannoso richiesta dall'art. 2055 c.c. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell'illecito va intesa in senso non assoluto, ma relativo, in coerenza con la funzione propria di tale istituto di rafforzare la garanzia del danneggiato, sicché ricorre tale responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni o omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione dell'intero danno (Cass. civ., Sez. 3, n. 20192 del 25 settembre 2014, Rv. 632978).

Può dunque riconoscersi che sia censurabile solo con specifico motivo di impugnazione l'onere di motivazione del giudice, che si viene a configurare qualora il fatto illecito fonte di danno si articoli in una pluralità di azioni od omissioni poste in essere da più soggetti, essendo correlato alla necessità di verificare se ricorra un unico fatto dannoso, ovvero non si tratti, anche in parte, di episodi autonomi e scindibili, che abbiano a loro volta prodotto danni distinti, dei quali solo il partecipante a ciascun episodio può essere ritenuto responsabile.

In altri termini, proprio rispetto alla osservazione che possa essersi trattato di condotte autonome e scindibili, pur nell'ambito della medesima contestazione di reato, il ricorso risulta affetto da genericità.

D'altra parte, con riferimento al caso della unicità del fatto dannoso sostenuta dal tribunale, si rinviene costante giurisprudenza nel senso che il principio della responsabilità solidale di tutte le persone a cui sia imputabile un fatto dannoso, quale si evince dall'art. 2055, primo comma, c.c., importa che il danneggiato può agire nei confronti di uno solo dei responsabili. Poiché la unicità del fatto deve intendersi come riferita esclusivamente al danneggiato e non già come consistente in identità della azione dei danneggianti o delle norme giuridiche da questi richiesti, sussiste la responsabilità solidale di più soggetti allorché un medesimo evento sia stato prodotto da cause autonome, addebitabili a soggetti diversi, atteso che è sufficiente che le azioni di ciascuno di essi, pur costituendo diversi fatti illeciti, abbiano concorso in modo efficiente a determinare l'evento (Sez. 4, n. 10226 del 30 aprile 1984, Rv. 166762; conformi Sez. 4, n. 9677 del 9 giugno 1983, Rv. 161233; Sez. 4, n. 16998 del 24 gennaio 2006, Rv. 233832).

12. L'ordinanza impugnata va pertanto annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Alessandria, che dovrà decidere in diversa composizione, stante il disposto dell'art. 34, comma 1, c.p.p., applicabile, per la sua ratio, anche alle ordinanze emesse nell'ambito di procedure cautelari.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Alessandria (in diversa composizione).

Depositata il 16 settembre 2016.

G. Fiandaca, E. Musco

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