Corte di cassazione
Sezione V civile (tributaria)
Sentenza 20 ottobre 2016, n. 21290

Presidente: Tirelli - Estensore: Scoditti

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nei confronti di Albergo Florida s.r.l. venne emesso ai fini IRPEG, IRAP e IVA, relativamente all'anno 1998, avviso di accertamento per maggior imposta sulla base della contestazione di maggiori ricavi, nello svolgimento dell'attività di albergo con ristorazione, in relazione ai pasti somministrati ai dipendenti non fatturati come autoconsumo, quantificati nell'importo di Lire 127.691.000 partendo dal prezzo minimo applicato per servizi di pensione completa e di mezza pensione pari a Lire 20.000 moltiplicato per il numero dei pasti consumati dal personale. Il ricorso proposto dalla contribuente venne parzialmente accolto dalla CTP, che rideterminò il valore dei pasti in Lire 10.000. La Commissione Tributaria Regionale della Sardegna rigettò l'appello proposto dalla contribuente ed accolse quello incidentale proposto dall'Ufficio sulla base della seguente motivazione.

Va disatteso il motivo di appello relativo alla non applicabilità della proroga dei termini di accertamento prevista dall'art. 10 l. n. 289/2002 alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 356 del 2008. Il vitto fornito al personale dipendente rientra fra le attività con "finalità estranee all'esercizio dell'impresa" di cui all'art. 53, comma 2, TUIR. L'applicazione dell'IVA deriva dal carattere di cessione gratuita di alimenti e bevande prevista dall'art. 2, comma 2, n. 4, d.P.R. n. 633/1972, che considera cessione di beni anche quella effettuata a titolo gratuito quando si tratti di beni la cui produzione o commercio rientra nell'attività propria dell'impresa. "Per quanto attiene infine il valore da attribuirsi a ciascun pasto risulta che il calcolo è avvenuto in contraddittorio con il contribuente prendendo come riferimento il prezzo minimo tra 20.000 e 35.000, né ciò appare sia stato smentito nei ricorsi della parte. Poiché il giudice di prime cure non spiega quali analisi abbia effettuato per pervenire a stabilire il valore di lire 10.000 a pasto appare corretto far riferimento al prezzo minimo di lire 20.000 applicato alla clientela che usufruisce del servizio di pensione".

Ha proposto ricorso per cassazione la contribuente sulla base di cinque motivi. Resiste con controricorso l'Agenzia delle Entrate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 43 d.P.R. n. 600/1973, 57 d.P.R. n. 633/1972, 25 d.lgs. n. 446/1997, 7, 9 e 10 l. n. 289/2002 e 3 l. n. 212/2000 ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. Osserva la ricorrente che l'avviso di accertamento è stato notificato in data 9 giugno 2005, oltre il termine del 31 dicembre 2003 previsto per l'anno 1998, e che non poteva trovare applicazione la proroga biennale di cui all'art. 10 l. n. 289/2002 essendosi la contribuente avvalsa per gli anni diversi dal 1998 delle disposizioni recate dagli articoli da 7 a 9 della l. n. 289/2002.

Il motivo è infondato.

La proroga biennale di cui all'art. 10 l. n. 289/2002 trova applicazione per i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli artt. da 7 a 9 della medesima legge. La medesima ricorrente riferisce di non essersi avvalsa delle citate disposizione per quanto concerne l'anno oggetto di accertamento. Non rileva che per altri anni d'imposta la contribuente si sia avvalsa delle dette disposizioni dovendosi fare chiaramente riferimento, ai fini dell'applicazione della proroga dei termini, all'anno per il quale la detta proroga dovrebbe operare.

Con il secondo motivo si denuncia contraddittorietà della motivazione ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c. Osserva la ricorrente che, in modo contraddittorio, il giudice tributario ha fatto riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 356 del 2008, la quale rinforza quanto eccepito dalla contribuente, e cioè che solo per coloro i quali non si siano avvalsi delle disposizioni recate dagli artt. da 7 a 9 della l. n. 289/2002 trova applicazione la proroga, mentre la ricorrente si è avvalsa di detti articoli.

Il motivo è inammissibile, sotto un duplice profilo. In primo luogo esso è carente del requisito di cui all'art. 366-bis c.p.c. In secondo luogo si denuncia l'esistenza di vizio motivazionale non con riferimento ad una questione di fatto, ma con riferimento ad una questione di diritto.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 53 (ora 85) e 48 (ora 51) TUIR, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. Osserva la ricorrente che la somministrazione di pasti costituisce prestazione di servizi, e non cessione di beni, come si evince dall'art. 3, comma 2, n. 4, d.P.R. n. 633/1972, che colloca le somministrazioni di alimenti e bevande fra le prestazioni di servizi, e che tra i compensi esclusi dall'ambito delle remunerazioni in natura ai sensi dell'art. 48, che non concorrono a formare reddito, vi sono le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro. Aggiunge che trattasi di prestazione di servizi gratuita a favore dei dipendenti dell'azienda.

Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. Osserva la ricorrente che, ai sensi della norma citata, affinché le prestazioni gratuite di servizi oggetto dell'attività d'impresa siano imponibili ai fini IVA è necessario che il valore di ciascuna prestazione sia superiore a Lire 50.000 e l'IVA afferente gli acquisti di beni e servizi sia detraibile, mentre restano comunque escluse dall'IVA le somministrazioni di pasti nelle mense aziendali, e che il caso di specie, a parte il valore della prestazione pari a Lire 20.000, è assimilabile a mensa aziendale.

I motivi terzo e quarto, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono fondati. Non ignora il Collegio che in un risalente precedente (Cass. 18 aprile 1998, n. 3953, cui ha puramente e semplicemente rinviato Cass. 22 ottobre 2010, n. 21713) si sia affermato che in tema di IVA, le somministrazioni di pasti ai soci, familiari e dipendenti dell'imprenditore, che svolge attività di ristorazione, non hanno per oggetto un facere, bensì la cessione gratuita di beni, e non rientrano quindi nella previsione del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 3, comma 2, n. 4 - alla stregua del quale non costituiscono prestazioni di servizi (e quindi sono sottratte a tassazione) le somministrazioni di alimenti e bevande non effettuate verso corrispettivo -, bensì nella previsione dell'art. 2, comma 2, n. 4, del citato d.P.R., che riconduce nel concetto di cessione di beni anche quella effettuata a titolo gratuito, allorché si tratti di beni la cui produzione o il cui commercio rientri, come nella specie, nell'attività propria dell'impresa.

Deve tuttavia essere considerato quanto affermato dalla successiva Cass. 29 settembre 2005, n. 19077: "per il secondo comma dell'art. 53 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 "si comprende... tra i ricavi il valore normale dei beni di cui al comma 1" (ovverosia valore normale dei "beni... alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa") "destinati al consumo personale o familiare dell'imprenditore" mentre per il primo comma dell'art. 62 stesso d.P.R. "le spese per prestazioni di lavoro dipendente deducibili nella determinazione del reddito comprendono anche quelle sostenute... in natura a titolo di liberalità": a maggior ragione, siffatte "spese" vanno considerate deducibili dal reddito d'impresa se sostenute non a titolo di liberalità ma per obbligo contrattuale. Da tali disposizioni, quindi, si ricava che i "beni... alla cui produzione o al cui scambio è diretta l'attività dell'impresa" vanno compresi tra i "ricavi" se destinati "al consumo personale o familiare dell'imprenditore" ed alle "spese" se destinati ai dipendenti, con la precisazione che, nel caso di "consumo personale o familiare dell'imprenditore", per i beni consumati da queste persone deve essere considerato il loro "valore normale" (diverso da quello costituente "corrispettivo" di quegli stessi "beni" in caso di cessione a terzi). I "beni" attribuiti ai dipendenti, invece, per la loro natura di "costi" non possono essere compresi tra gli elementi positivi del reddito e, quindi, il loro valore non costituisce elemento presuntivo di afferente percezione di reddito". Sulla base quindi della puntuale distinzione stabilita da Cass. n. 19077 del 2005 la somministrazione di pasti ai dipendenti non concorre a formare il reddito.

Le conclusioni sul piano dell'IVA sono coerenti a quanto appena rilevato a proposito delle imposte dirette. Ai pasti e bevande consumati da parte dell'imprenditore o dei suoi familiari trova applicazione l'art. 2, comma 2, n. 5), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, riguardante l'autoconsumo dei beni ai fini dell'IVA, secondo il quale i beni destinati all'uso o al consumo personale o familiare dell'imprenditore rappresentano una cessione di beni assoggettabile ad Iva. Tale conclusione va comunque temperata con gli arresti della giurisprudenza euro-unitaria, per la quale deve accertarsi se gli elementi di prestazione di servizi che precedono e accompagnano la fornitura dei cibi siano o meno preponderanti (Corte giust., 10 marzo 2011, causa C-497/09 e altre). Alla stregua di quanto sopra evidenziato, la fruizione dei pasti da parte dei dipendenti non può invece essere considerata autoconsumo di beni. Si comprende così perché a mente dell'art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972 le somministrazioni nelle mense aziendali non costituiscano prestazioni di servizi ai fini dell'IVA. Non è inutile evidenziare che alle conclusioni raggiunte è conforme la risposta ad interpello 913-344/2011 dell'Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale del Lazio.

Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: la somministrazione dei pasti ai dipendenti da parte del datore di lavoro non costituisce ricavo ai fini delle imposte dirette e non è assoggettabile ad IVA.

Con il quinto motivo si denuncia motivazione insufficiente ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.

Osserva il ricorrente che la conclusione del giudice di merito ha carattere apodittico e che il riferimento ai prezzi per il servizio di pensione completa o di mezza pensione non trova riscontro nella realtà perché il pasto consumato dal dipendente non è comparabile a quello erogato al cliente.

L'accoglimento dei precedenti motivi determina l'assorbimento del motivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo e quarto motivo, con assorbimento del quinto motivo, rigetta il primo motivo e dichiara inammissibile il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Sardegna in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

R. Garofoli

Codice penale ragionato

Neldiritto, 2024

G. Fiandaca, E. Musco

Diritto penale

Zanichelli, 2024

P. Emanuele

Compendio di diritto parlamentare

Simone, 2024