Note introduttive ad un'indagine
sul potere giuridico (e su quello costituente)

Marcello Piazza (*)

1. In via preliminare, un'analisi in astratto sul rapporto tra potenza e potere, nonché sulla pretesa distinzione tra «potere di» e «potere su»

Nell'esaminare il concetto di potere, innanzitutto, si deve partire dalle riflessioni che gli sono state dedicate da un punto di vista del tutto astratto.

Con una considerazione di ordine generale, comunque, bisogna mettere in evidenza che mai come in questo campo, forse, si tratta di mettersi d'accordo sui termini adottati, avendo tale scelta degli immediati riflessi sostanziali.

Il che, in primo luogo, vale per ciò che concerne il rapporto intercorrente tra potenza e potere: ad es., facendo leva sul comune riferimento alla capacità di agire, è stato asserito che la prima apparterrebbe alla sfera di operatività di un singolo individuo, mentre il secondo sarebbe propriamente attribuibile soltanto ad un'entità collettiva (1). E, in tal caso, si verte su di un pensiero condizionato da una pregiudiziale ideologica, derivandone altresì l'asserzione secondo cui il potere, «lungi dall'essere il mezzo per un fine, (sarebbe) effettivamente la reale condizione che consente a un gruppo di persone di pensare e di agire nei termini della categoria mezzi-fine» (2). Al contrario, invero, ciò potrebbe semmai corrispondere alla nozione di potenza.

Allora, a prescindere da qualsiasi implicazione di natura socio-politica (3), di primo acchito conviene utilizzare delle categorie aristoteliche, deducendo semplicemente che la capacità di un ente di tradursi in actu identifica l'essere in potentia (4).

Quindi, nel privilegiare il profilo attivo dell'intuizione platonica in base a cui è lo stesso concetto di essere a risolversi in una potenza (5), non vale la pena di adoperare il vocabolo potentia per indicare il potere di tutte le cose naturali di cominciare ad esistere e di agire per continuare a farlo, riservando la parola potestas a contrassegnare il potere sugli altri (6). Infatti, pur avendo una certa correlazione con la valenza giuridica del termine potestà (7), ciò determinerebbe una seria difficoltà concettuale: sarebbe impossibile, così, suddividere il terreno della pura capacità da quello dell'esercizio in concreto; un'esigenza che, per contro, sussiste in entrambe le circostanze (8).

Ad ogni buon conto, con riferimento alla dimensione dell'uomo, appare evidente che la diade potenza/potere ha un carattere universale, appoggiandosi sulla capacità di trasformare il mondo, che è appunto costitutiva dell'agire umano (9).

Dunque, in potenza, il potere coincide con la libertà, avendo l'uomo la facoltà di scegliere se, come, quando e perché modellare l'ambiente in cui è situato, oltre alla sua persona (10), nei limiti delle sue possibilità.

E, in simbiosi parallela con l'agire libero, il potere attuale è la capacità di conseguire ciò che si desidera; mentre, dato che alcune (se non tutte le) aspirazioni umane sono virtualmente illimitate, può casomai diversificarsi tra la brama autoreferenziale di potere, da quella che intravede in esso soltanto un mezzo per la realizzazione di altri scopi; ma, a simile livello di astrazione, non ha senso alcuno distinguere tra «potere di» e «potere su», dato che - in maniera analoga all'energia in fisica - il potere assume di volta in volta forme differenti, potendo essere esercitato su cose ed individui, sempre in vista dell'obiettivo preso di mira (11).

Né, ex adverso, può ritenersi che, nel momento in cui ci si sofferma sul «potere di», svanirebbe il profilo conflittuale del potere (12). Decisiva, infatti, è la considerazione che il potere implica di necessità una resistenza (13) che, in un qualsiasi aggregato umano, viene fatalmente contrapposta pure da persone.

Insomma, il «POTERE di un uomo (considerato in senso universale) consiste nei mezzi di cui si dispone al presente per ottenere un apparente bene futuro ed è originario o strumentale» (14).

Pertanto, scontando che anche il potere è una nozione «disposizionale» (15), sembra chiaro che qui non rimane spazio per nessuna forma di riduzionismo (16), specie qualora esso tenda a vincolare la fisiologica tendenza all'infinito del concetto medesimo, in simmetria con quello di libertà (17).

Sotto altro profilo, poi, è del tutto incongruo favorire aprioristicamente l'aspetto relativo alle capacità innate, nei confronti di quelle acquisite (18): infatti, il potere appartiene bensì all'essenza dell'uomo ma, siccome l'essere è una «questione aperta», la sua verità si mostra soltanto storicamente (19). E la storia, come ben sappiamo, è fatta dagli uomini con un mix di virtù e fortuna, difficilmente scomponibile con esattezza nei suoi due elementi (20).

Sia come sia, sta di fatto che la vita umana consiste in una ricerca della potenza lato sensu concepita (21). Questo, sul versante dei soggetti passivi, implica comunque un «assoggettamento»: agli altri oppure, quand'anche inconsapevolmente e/o in via congiuntiva, a se stessi (22). Ciò, da una parte, smentisce una volta di più che la classica differenziazione tra «potere di» e «potere su» abbia un fondamento rigido laddove, dall'altra, costituisce un'ulteriore indicazione del fatto che la radice del fenomeno consiste proprio nella potenzialità dell'essere libero, pure dal punto di vista della passività dei subordinati (23).

2. Riflessi dell'impostazione adottata, circa il radicamento in ambito socio-politico del potere lato sensu inteso

Restringendo l'analisi al contesto socio-politico, in primis, è oltremodo opportuno eliminare una possibile fonte di confusione: quella secondo cui la categoria del potere, invece di essere sempiterna, dovrebbe essere limitata agli ordinamenti in voga dall'età moderna in avanti, almeno per quanto attiene alle nostre attuali rappresentazioni (24).

Invero, si tratta di una concezione unidirezionale che, inesorabilmente, è destinata a cadere dinanzi alla constatazione secondo cui - quali che siano le valutazioni di moda nell'Occidente moderno - i rapporti collettivi sono stati da sempre imperniati su di un dislivello fra soggetti, ceti e/o classi (25). Il che, perciò, significa che al concetto in esame deve senz'altro essere assegnato un impiego imperituro, per la sua icasticità nel descrivere qualsiasi assetto sociale.

Infatti, certamente, è alquanto dubbio che la società integri una condizione necessaria del potere (26) (perché, salvo delle doverose correzioni di rotta, in linea di massima può convenirsi sul fatto che il potere risieda nella mera «possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto») (27). Però, di sicuro vale la reciproca, se sinora ubi societas, ibi... potestas (28).

Ciò posto, il potere sociale può essere definito quale capacità di conformare la realtà che si avvale dell'operato della gente quando, in maniera diretta, non abbia ad oggetto il controllo degli altri (29).

Nel frangente, quindi, non viene necessariamente in risalto il potere in un'accezione circoscritta, come capacità di sottomettere le masse provocandone acquiescenza e/o dipendenza (30). Piuttosto, nell'immediato, mi pare opportuno usare una nozione onnicomprensiva: il potere, in società, si estrinseca in uno o più comportamenti usati per indurre gli uomini ad agire su stessi o in relazione a cose organiche o inorganiche (31).

A questo punto, concentrando il discorso sul piano interpersonale, anche qui sorge il problema del rapporto tra potenza e potere. E, al riguardo, ci si può imbattere in concezioni asimmetriche, volte comunque a sminuire - in alternativa - o la prima (32) o il secondo (33).

Ebbene, appare corretta quella prospettiva che risolve il dilemma attraverso lo schema genus/species: se la potenza è la possibilità di influenzare, comandare e costringere dei membri del corpo sociale, il potere ne integra la variante in atto (34), potendo al più designarne una particolare (modalità di) concretizzazione.

In tutti i modi, ragionando in termini di potere in senso lato, non è affatto detto che il suo esercizio debba ridondare in danno di coloro che vi sono sottoposti: per questi, le conseguenze di tale utilizzo possono essere pure di segno positivo, come nel caso benigno del paternalismo (35).

Ma, movendo dal presupposto che la potenza è una chance di mutare delle probabilità, va ribadito che in ogni frangente «A ha potere su B nel momento in cui può ottenere che B faccia qualcosa che, altrimenti, lo stesso B non farebbe» (36). In tale ambito, può darsi per appurato che il potere è di per sé oppressivo (37): difatti, a prescindere dalle sue forme di estrinsecazione (38), nonché dalla circostanza - che, a ben vedere, risulta intimamente collegata - se sia da preferire la «concezione generativa» o quella «distributiva» del potere stesso (39), il fenomeno trova il suo caposaldo nella potenzialità di offendere gli interessi e la persona altrui (40).

Ora, in qualunque azione collettiva, sorge il problema del «free rider» e, cioè, di colui il quale vuole beneficiare dell'agire di gruppo in modo parassitario (41); ma, al di là dell'opportunismo latente, l'individuo o l'élite al potere ha sempre il bisogno di vincere le resistenze che, perlomeno in astratto, gli assoggettati possono opporre alla realizzazione dei suoi obiettivi. Allora, nell'immancabile ripartizione di ruoli in seno a qualsivoglia comunità, si palesa la necessità di un esercizio strumentale del potere che, in prima battuta, si svolge precisamente con la formulazione di un'alternativa: un ricatto, nel caso della minaccia; un atto di corruzione, nell'ipotesi della promessa (42).

E, dietro siffatta prospettazione, almeno in veste nascosta si colloca inevitabilmente la forza: viene in rilievo una vigoria morale, intellettuale o materiale, se non strettamente fisica.

3. Esame specifico delle varie forme di potere sociale: 3a. Il potere coercitivo...

Il che, per antonomasia, si verifica nel potere coercitivo, questo appoggiandosi sulla capacità di comminare delle sanzioni negative, che vincolano gli altri ad agire in una certa maniera, indipendentemente dal volere di questi ultimi.

Per meglio dire, a parte subiecti, la coercizione comprime la libertà, perché non si è disposti a pagare il prezzo che servirebbe a riaffermare la propria autonomia: quindi, malgrado tutto, ci si sottomette liberamente alle imposizioni (43), perlomeno nella stragrande maggioranza dei casi (44). Qui, viene ulteriormente dimostrato che il contrasto non è tra libertà e potere, bensì fra due sfere di libertà o, che è la medesima cosa, tra due domini di potere. Altrimenti, piuttosto, si deve ragionare di una mancanza di libertà, ovverosia di potere, in capo ai sottomessi (45).

Sicché, ceteris paribus, si tratta di uno scontro tra due o più volontà, senza tener affatto conto della loro razionalità o ragionevolezza: come al solito, in un clima conflittuale, va evocato il brocardo «hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas» (46). E, all'imprescindibile condizione di essere suffragato dalle altre risorse personali e materiali (47), la spunta il volere più forte (48): ecco tutto; ed è così dalla notte dei tempi (49).

Tuttavia, che nelle relazioni di potere vi sia abitualmente un minimum di volontà nell'obbedire, dettata da un «interesse (interno o esterno) all'obbedienza» (50), non significa che in mancanza di una costrizione diretta il potere sia soltanto un catalizzatore, essendo insuscettibile di essere trattato come causa dei comportamenti dei subordinati, neanche in via potenziale: nell'impostazione contestata, esso implicherebbe una situazione eziologicamente neutra tra due partners, in cui le evenienze da evitare sarebbero solo strutturate in maniera diversa, con il subalterno che sarebbe semplicemente quello più incline a scongiurare la propria alternativa (51).

All'opposto, si evidenzia una sorta di «causazione sociale», incardinata per lo più su di una rete di relazioni prive di equilibrio, ove chi esercita potere spessissimo cagiona in maniera intenzionale una condotta altrui che, di norma, rimane ciononostante dotata di un grado di volontarietà (52).

Dalla parte degli assoggettati, in linea di principio, la coercizione non esclude dunque il consenso e viceversa, per quanto essi operino autonomamente (53). Dal punto di vista dei sovraordinati, per converso, è da considerarsi pressoché pacifico il rapporto tra potere ed intenzionalità; ma ciò non vuol dire che questi debbano sempre serbare un contegno attivo, dato che l'inazione è per lo più lontana del costituire un «non-evento informe», in vista di risultati almeno prefigurabili (54).

Infatti, il potere si esercita altresì nell'astenersi da un'azione che si ha la possibilità di compiere (55). E, invero, resta un caso-limite quello di non prevedere le conseguenze di una condotta omissiva: in tali frangenti, invece, la volontarietà deve essere presupposta, fino a prova contraria (56); senza contare, per giunta, che un potere passivo è pur sempre il risvolto di uno attivo (57).

In ogni evenienza, ancora una volta, appare importante porre in risalto che, in qualche misura, il potere è una questione tanto di possesso quanto di relazione con gli altri (58). Difatti, nonostante che esso si risolva continuamente in un rapporto improntato all'obbedienza (ai desiderata dei corrispondenti depositari), il primo aspetto caratterizza innanzitutto le cariche stabili, onnipresenti nell'agire sociale (59): la società, non per niente, sussiste per aumentare le capacità dei singoli e dei clan parentali, tramite il coordinamento delle rispettive forze (60); e, d'altronde, può parlarsi di possesso continuativo del potere, solamente attraverso un suo esercizio ricorrente, ancorché discontinuo (61).

3b. (Segue) ... e la sua legittimazione istituzionale

Ebbene, essendo nella sua natura il potere disperso in maniera oscillante e caotica (62), è inevitabile che una società si doti di un apparato istituzionale di comando, prima di tutto affinché la stessa possa essere ipostatizzata ed agire come un corpo unico, quale persona giuridica (63).

Ma a parte ciò, persino nella denegata ipotesi in cui si realizzi una condizione tendente alla massima solidarietà, la costituzione di un'organizzazione ad hoc, da parte degli ottimati, integra comunque una funzione di garanzia a che le loro esigenze siano soddisfatte, saldamente, pure in futuro (64).

Le masse, perciò, debbono sottostare ad una certa disciplina (65), evitandosi ove possibile che la loro acquiescenza discenda da un ricorso immediato alla violenza: uno strumento che è tanto costoso (66) quanto - alle lunghe - controproducente (67) ed insicuro nei suoi risultati; ma che, tuttavia, ha il contrassegno di un'extrema ratio sempre presente, all'occorrenza (68). In ultima analisi, cioè, qualsiasi potere è «fisico» (69), potendo casomai chiamarsi «potere bruto» quello privo di qualunque aggancio genetico-giustificativo con la tradizione e/o col consenso (70).

Così, «"Il potere politico nasce dalla canna del fucile"» (71), poi si stabilizza con l'assunzione dei caratteri della continuità e, da ultimo, giunge alla sua versione istituzionale, tramite l'articolazione di una pluralità di ruoli predefiniti e coordinati (72).

E, abbracciando una nozione estesa di istituzionalizzazione, si può suddividere questo processo in fasi più dettagliate, che rispecchiano da vicino il concreto divenire storico. Facendo valere le esigenze di spersonalizzazione, formalizzazione ed integrazione, in funzione di rinforzo incrementale, possono allora individuarsi vari stadi: uno preliminare, quello del «potere sporadico»; un secondo, costituito dal «potere standardizzante»; un terzo, relativo alla «posizionalizzazione del potere, dominio»; un quarto, che vede la formazione di apparati di dominio intorno ad una posizione di signoria personale; un quinto, con l'insorgenza dello Stato, che trasforma la gestione centralizzata del potere in una prassi incessante (73).

Comunque sia, l'intero sviluppo è guidato da procedure di legittimazione (74), che hanno proprio la finalità di raggiungere un peculiare tipo di consenso, da parte del maggior numero di consociati: appunto, il «consenso di legittimità» (75), grazie al quale si forma l'autorità propriamente politica (76).

Però, se il potere politico è più efficace di quello illegittimo (essendo, in fin dei conti, moralmente giustificato) (77), la sua costituzione non implica affatto una rinuncia a minacciare o, alla bisogna, ad utilizzare effettivamente la violenza, per reprimere le trasgressioni al sistema stabilito (78). Semmai, la strutturazione del potere legittimo rappresenta una reale condicio sine qua non per la durevole realizzazione degli interessi della classe vittoriosa nel conflitto sociale, fissando uno specifico rapporto di dominazione/subordinazione (79).

Sicché, il codice del potere - come qualsiasi altro mezzo selettivo di comunicazione - sorge affinché i dominanti possano neutralizzare la volontà dei sottoposti, fungendo da restrizione alla libertà di scelta di costoro: si evita, così, che le aspettative dei primi siano condizionate dai secondi (data la regolare tendenza a rifiutare un apporto che, in ogni modo, comporta un determinato dispendio di energie psico-fisiche) (80).

3c. Il potere giuridico

In particolare, quando il potere si istituzionalizza, lo strumento giuridico è quello che ne rende fattibile una «specificazione in termini universalistici» (81), poiché il diritto è l'unica forma di dover essere che ha il carattere della coattività (82).

Quindi, a dispetto della visione «ecumenica» oggi imperante (83), la legalità apportata dal fenomeno giuridico non implica un distacco dalla forza fisica: al contrario, il diritto ha un'intima relazione con la violenza sia dal punto di vista formativo, sia da quello operativo-funzionale (84).

Tralasciando il primo aspetto, però, nella dinamica di un sistema legale compiuto vi è una profondissima differenza, rispetto all'esercizio di un potere sfrenato: infatti, finché permane inalterato, il diritto assicura certezza in veste di calcolabilità dei risultati (85); pertanto, esso può perfino perdere l'eventuale legittimazione trascendente, ma il bisogno di norme giuridiche rimane comunque «immune da ogni banalizzazione» (86).

Adesso, dunque, viene in rilievo il potere giuridico che, in generale, indica la capacità di un soggetto di realizzare delle modificazioni innanzitutto nell'ordine di relazione, ponendone le conseguenze a carico di altri (87).

Nel diritto, come la libertà, il potere subisce tuttavia delle metamorfosi: il che, a mio avviso, consente una serie di differenziazioni concettuali che non sussistono, in assoluto. E la primaria tra simili relativizzazioni, poi, è proprio quella che fa capo alla distinzione tra il licére ed il posse, ovverosia fra il dürfen ed il können (88).

Con riferimento alla figura giuridica che ora interessa, inoltre, la ripartizione basilare è quella tra potere di diritto pubblico e potere giusprivatistico: in linea di massima, il primo ha «carattere azionatorio» ed è in effetti un potere di agire che, traducendo la vulgata spinoziana (89) in una funzione da espletare per dovere, viene designato con il nome di potestà; di contro, tranne che nel caso di un ufficio di diritto privato (ove, analogamente, si verte su potestà indisponibili), il secondo mantiene un «carattere azionabile», riflettendo la giuridica attribuzione di una possibilità di agire (90).

Insomma, il potere quale capacità di determinare con intenzione un certo effetto de jure (91), alternativamente, è collegato alla libertà o alla doverosità (92); ma, mentre la seconda ipotesi è quella che si verifica in via ordinaria nel diritto pubblico (93), per chi agisce jure privatorum la normalità è quella del diritto potestativo, in cui il titolare ha il potere conformare una porzione della realtà, eventualmente a discapito di altri soggetti (94).

In quest'ultimo contesto, più ovviamente rispetto ai diritti di libertà (95), è manifesto che si tratta di un residuo del potere naturale. Ad ogni buon conto, ugualmente, bisogna tener presente che in qualsiasi evenienza il diritto traccia dei vincoli: pertanto, si parla pur sempre di facultas agendi circondate da limiti. Ciò, peraltro, vale altresì per qualunque detentore del potere politico; anzi, a maggior ragione perlomeno sotto il profilo logico-astratto, dal momento che i pubblici poteri si identificano con la legalità del sistema in auge. Invero, per il «paradosso dell'onnipotenza» (96), anche un autentico autocrate - malgrado tutto - è destinato a rispettare la Grundnorm del sistema, sino a che non se ne verifichi il rivolgimento.

Nonostante questo, però, la libertà aumenta proporzionalmente con il potere (soprattutto politico) che si ha a disposizione, o viceversa, non essendoci seri motivi per aderire ad altri paradossi del tipo «Più si è grandi e meno si può decidere: si dipende dagli avvenimenti e dalle circostanze» (97) o, peggio, «chi è realmente tiranno è realmente schiavo» (98).

3d. I poteri di fatto ed il loro rapporto con la legalità

Tra i poteri di fatto, in primo luogo, va considerata l'autorità nell'accezione non-istituzionale che, spesso, è fondata sulla semplice tradizione (99): si verte, cioè, su di un'entità personale o collettiva che viene ascoltata e/o obbedita sulla base di un mero riconoscimento di competenza, oppure in virtù della potenza discendente dal suo status sociale, a prescindere da una costrizione fisica effettiva o ventilata (100).

Ora, dunque, viene in risalto una specie d'influenza stricto sensu che, in ogni caso (101), si risolve in un potere sulle credenze e/o sulle azioni degli altri (102) e che, quando tende a sviare gli interessi di questi alterandone la capacità di giudizio, assume propriamente i contorni della manipolazione: un potere veramente segreto (103).

Volendo, allora, si può parlare di una «terza dimensione del potere», che fa leva sulle virtù demiurgiche dell'ars retorica, nei confronti del volere, delle preferenze e degli obiettivi che agitano il quisque de populo (104). Una dimensione, questa, che si è accresciuta di gran lunga con l'avvento della «società disciplinare», che - massimamente nell'età contemporanea - consente di ragionare anche nei termini di una bio-politica (105).

È noto, e non da oggi, che massa e potere si richiamano circolarmente (106); e, del pari da lunghissimo tempo, si dà per acquisito che la classe al governo (in senso lato) ha la possibilità di trarre in inganno i governati, grazie alla fisiologica capacità di vagliare meglio i propri interessi, essendo meno offuscata dai sentimenti (107); però, nella situazione odierna, si assiste ad una crescita esponenziale del potere di manipolazione, tanto da potersi sostenere che in Occidente - nonostante un ben diverso involucro costituzionale - vige «"una dittatura fondata sullo sfruttamento della natura sentimentale delle masse"» (108): difatti, l'élite della post-modernità ha degli strumenti sconosciuti in passato per l'orientamento degli animi, a partire dal sistema di educazione obbligatoria sino agli enormi mezzi di comunicazione e d'informazione (109).

Per giunta, non si tratta più della semplice fondazione di una morale pubblica che, quando si assesta, ha come scopo principale di preservare il sistema socio-economico in vigore (110). Infatti, a prescindere dalla questione se tuttora l'etica detenga o no il primato nell'organizzazione immateriale della società (111), l'equiparazione giuridico-formale fra tutti i membri del popolo (da noi, ex art. 3 co. 1 Cost.) ha trovato il suo risvolto compensativo nell'espansione dei meccanismi egemonici (112): oggigiorno, viene investito il modus vivendi in maniera capillare, senza più limitarsi - sul versante spirituale - ai temi eticamente sensibili (113).

E, siccome è la conoscenza che dirige e controlla qualsiasi campo dell'esperienza umana (114), ciò significa che attualmente il sapere «è più che mai la questione del governo» (115). Invero, col ribadire che l'individuo comune si adagia sui modelli in voga nel suo humus socio-politico (116), si scopre che la forza del sapere non è specifica delle autorità puramente culturali, ma accomuna da sempre anche il potere politico e religioso, costituendone una potentissima risorsa (117).

Anzi, più in generale, gli è che nell'esplicazione dei comportamenti di soggetti coscienti, consapevoli o meno, si deve tener presente la conoscenza di cui sono dotati, oltre che le loro finalità (118): in qualsivoglia evenienza, ne va del potere di costoro, dato che la «grammatica della parola "sapere" è ... strettamente imparentata alla grammatica delle parole "potere" ed "essere in grado"» (119).

Infatti, se il sapere si trasforma sistematicamente in convinzioni, queste sono alla base di tutte le forme di potere (120), quantomeno con riferimento a coloro che lo esercitano. Dalla parte di quanti sono destinati a subire, poi, vero è che un potere fisicamente irresistibile può permettersi il lusso di non calcolare le valutazioni dei suoi destinatari, ma sappiamo bene che la legittimazione, ordinariamente, ha una grandissima incidenza in tali rapporti (121). Per volere, insomma, bisogna o perlomeno è bene conoscere, dal lato attivo e passivo.

Ora, nel far accettare un'opinione malferma nei suoi fondamenti, a parità di condizioni vi è l'esigenza che essa sia supportata da una propaganda più prolungata ed aggressiva, nei confronti di una credenza che goda di qualche dimostrazione; sicché, giocando soprattutto sullo scarto che intercorre fra razionalità e razionalizzazione (122), i detentori del potere possono influenzare le convinzioni, attraverso una pubblicità ripetitiva e suggestionante (123). E, in tale ambito, è peraltro facile che si creino dei surrogati del comune modus agendi dell'autorità politica, soprattutto grazie ad un'auto-celebrazione mitologica dei leader (124).

Come al solito, dunque, il potere amministra la verità (125) e questo vale, in special modo, per il potere legittimo: d'altronde, si verte su due mezzi di comunicazione differenziati che, sviluppandosi per iscritto in termini logici, informano all'unisono le società progredite sulla base del principio di non-contraddizione (126). Poi, pure l'edificazione e la conservazione di un regime costano: pertanto, dal momento che la «ricchezza, come ogni massa, diventa forza» (127), essa è collegata anche alla costruzione del consenso (128).

Stando così le cose, allora, figuriamoci quale possa essere la situazione nei nostri tempi, caratterizzati da una globalizzazione economico-tecnologica, in cui sono comparsi saperi alquanto specializzati, strumentali ed efficienti, che cambiano radicalmente le coordinate della conoscenza universale (129).

Però, andando al di là del particolare, la questione sta nella circostanza che il controllo delle risorse, talvolta denominato potere di disposizione (130), opera a supporto di ogni altra specie di potere (131). E, se i vari poteri formano una sinergia in vista del rafforzamento reciproco (fino a rappresentare, alla bisogna, una «coalizione di forze coercitive») (132), la ricchezza interagisce prima di tutto con il potere politico, quando non è da esso posseduta in via diretta: quindi, sostanzialmente, anche in tale ipotesi c'è una vera e propria relazione strutturale tra il governo lato sensu inteso ed i gruppi economici dominanti (133), detentori - più o meno occulti - dell'autentico potere capitalistico. Un potere che, all'insegna della sua impersonalità, è l'unico a non essere regolato dall'etica (134) o, meglio, a seguire una morale autonoma.

Peraltro, la predetta convergenza è sempre esistita (135) ma, per ritrovare in Occidente un impianto simile a quello di oggi, occorre risalire allo Stato patrimoniale del Medioevo: siccome, allo stato, le forze economiche più potenti costituiscono ormai degli organismi cruciali a livello mondiale, l'élite dominante realizza una combinazione quasi perfetta tra il potere economico e quello politico-militare (136), sfruttando d'altro canto un amalgama fisiologico (137).

E, in effetti, qui riemerge proprio la natura del potere o della libertà, allorché scende a patti con un ordinamento giuridico. Ragion per cui, tutto sommato, che i diritti di proprietà siano delle «concessioni di autorità» che gli abbienti godono in misura maggiore rispetto agli altri cittadini, lungi dal provare che la ricchezza non costituisca il sostegno del potere (138), rispecchia invece ciò che accade per i diritti di libertà: del resto, la matrice di queste ss.gg.ss. è univoca, vertendosi su di una dose consistente del potere naturale (139).

In generale, poi, vi è ben altro. Infatti, ricorrendo alla codificazione de jure, il potere si sottopone a sfide pericolose, per i vincoli consustanziali alla giuridicità che, sempre, provocano una rinuncia alla fluida indeterminatezza del possibile; di conseguenza, ove i fondamenti su cui riposa l'autorità legittima non esprimano più il vero impianto socio-economico, delle due l'una: o il diritto, non riuscendo più a regolare e/o prevenire il potere informale, impiega la sua «rule of evasion», consistente nell'adeguamento della realtà giuridica alle relazioni di fatto (140); oppure, scocca l'ora della rivoluzione.

In altre parole, il punto è che la verità sul potere risiede nelle concrete relazioni tra le differenti autorità (141). Quindi, dovendosi distinguere tra potere formale e potere reale (142), si può determinare uno spostamento dal primo al secondo, non tanto a causa della dinamica interna al sistema politico (143), ma soprattutto in base all'effettivo atteggiarsi dei rapporti di classe (144).

Dunque, ad un certo momento, una mutazione radicale dell'ordine costituito deve reputarsi normale dato che, a ben vedere, se si vuole essere potenti è imprescindibile avere in mano le sorti delle istituzioni (145): sicuramente, in società, esistono dei «limiti alla possibilità di politicizzare il potere», per la presenza organica di poteri estranei al circuito della legalità; tuttavia, le forze dominanti in senso compiuto debbono ineluttabilmente occupare il potere politico, la cui differenziazione è una conquista pressoché irreversibile (146).

Note

(*) Professore associato di diritto costituzionale nella Facoltà di Economia dell'Università della Calabria.

(1) In questo senso, cfr. H. Arendt, Sulla violenza (1970), trad. it. a cura di S. D'Amico, Parma 1996, 40, secondo cui nel «momento in cui il gruppo dal quale il potere ha avuto la sua origine iniziale (potestas in populo, senza un popolo o un gruppo non c'è potere) scompare, anche il "suo potere" svanisce».

(2) Ivi, 47.

(3) ... altrimenti, risulta impossibile una stipulazione terminologica sufficientemente neutra e, pertanto, tendente all'oggettività.

Difatti, è appena il caso di ricordare che «il concetto di potenza ... è ... usato dalla scienza politica soprattutto per indicare l'elemento di "forza", mentre il concetto di potere è usato nel caso di una forza legittimata» [così, N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali (1968), trad. it. di A. Chitarin con prefazione a cura di G. Vacca, Roma 1971, 127, il quale - subito appresso - osserva che, in fondo, questa è «una distinzione che concerne le forme di potere, le forme di dominazione-subordinazione implicate nei rapporti di potere»].

(4) V. Aristotele, Metafisica (metà del IV sec. a.C.), trad. it. con testo greco a fronte con introduzione, note e apparati a cura di G. Reale nonché con appendice bibliografica di R. Radice, IV ed., Milano 2003, 417.

(5) Cfr. Platone, Sofista (prima metà del IV sec. a.C.), in Id., Tutte le opere, raccolta trad. it. con testo greco a fronte di E.V. Maltese con saggio introduttivo a cura di F. Adorno, Roma 1997, 579, ed ivi la susseguente affermazione secondo cui «qualunque cosa possiede in sé una forza sia per poter influire su un'altra cosa ... o anche da essere influenzata».

Sul punto, torneremo nel prosieguo (§ 3a., nei pressi della nota 56 ss.), ma - per l'intanto - quanto appena riportato serve a rettificare la considerazione di A. Kenny, Will, Freedom and Power, Oxford 1975, 123 (traduzione di chi scrive), per il quale la differenziazione tra poteri «attivi (ad. es. potere di uccidere) ... e poteri passivi (ad es. potere di essere ucciso)» risalirebbe alla filosofia scolastica, sulle orme di Aristotele.

(6) Per questo distinguo, v. B. Spinoza, Trattato politico (1677), trad. it. con introduzione a cura di L. Pezzillo, Roma-Bari 1991, 8, 12.

(7) In proposito, cfr. infra, § 3c. nei pressi della nota 89.

(8) Dunque, si può assumere l'osservazione per la quale «il potere appare come una possibilità (potenza, chance, disposizione) e allo stesso tempo agisce come tale», con «una proiezione nella sfera del possibile (che) permette di colmare le lacune del reale» [N. Luhmann, Potere e complessità sociale (1975), trad. it. di R. Schmidt e D. Zolo con saggio introduttivo a cura del secondo, Milano 1979, 26].

(9) In questo senso, v. ad es. H. Popitz, Fenomenologia del potere2 (1992), trad. it. di P. Volonté e L. Bargazzoli a cura di S. Cremaschi, Bologna 2001, 17.

In tema, fra gli altri, cfr. inoltre A. Zanfarino, voce Potere, in Enc. dir., vol. XXXIV, Milano 1985, 607. Contra, non si può operare indebitamente con la distinzione che ci occupa, pretendendo: che il «problema del potere (sarebbe) incapsulato nel seguente paradosso: quando tu semplicemente hai potere - in potentia - niente accade e tu s(aresti) senza potere; quanto eserciti potere - in actu - altri sta(rebbero) eseguendo azioni e non tu»; e che, quindi, in sé, «la nozione del potere (sarebbe) ... vuota», dato che il «potere non (sarebbe) qualcosa che tu p(otresti) accumulare e possedere, (sarebbe) qualcosa che può essere costruito» dagli «altri, i soli che s(arebbero) realmente potenti (in actu)» [B. Latour, The Powers of Association, in J.A. Law (cur.), Power, Action and Belief, Londra-Boston-Henley 1986, risp. 264 s., 266, 274; traduzione di chi scrive]. Come si vedrà nel prosieguo, le cose non stanno affatto in tal modo, sotto tutti gli aspetti.

(10) Così, ad es., E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), trad. it. di E. Filippini con prefazione a cura di E. Paci, III ed., Milano 2008, 35 s.

Ai fini della migliore comprensione del presente articolo, va avvertito che esso andrebbe letto alla luce delle conclusioni rassegnate nel mio Meditazioni poco convenzionali sul concetto di libertà, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di A. Pace, Jovene, Napoli, dove si sostiene proprio che - per quanto possa sembrare un paradosso - i concetti di libertà e potere sono convergenti, nella loro assolutezza.

(11) In termini, sfumature a parte, si esprime B. Russell, Il potere (1938), trad. it. di L. Torossi con introduzione a cura di M. Dal Pra, Roma-Milano 1954, risp. 43, 279, 277.

Sull'ultima questione, ad es., v. altresì M. Foucault, L'etica della cura di sé come pratica della libertà (1984), trad. it. di S. Loriga in Id., Archivio Foucault: interventi, colloqui, interviste, vol. III (a cura e con introduzione di A. Pandolfi), 1978-1985. Estetica dell'esistenza, etica, politica, Milano 1998, 270; C.J. Friedrich, L'uomo, la comunità, l'ordine politico (1963), trad. it. di G. Catalini con introduzione a cura di S. Ventura, Bologna 2002, 126; H. Popitz, Fenomenologia, cit., 22; M. Stoppino, voce Potere, in N. Bobbio-N. Matteucci-G. Pasquino (curr.), Dizionario di politica, Torino 1976, 767; A. Zanfarino, op. e loc. ultt. citt.

(12) Così, S. Lukes, Il potere (2002), trad. it. a cura di O. Janni, Milano 2007, 45.

(13) In tal senso, ad es., cfr. M. Foucault, op. ult. cit., 284 (la cui posizione in merito, comunque, sarà meglio riportata infra, nel corso della nota 22).

(14) Così, T. Hobbes, Leviatano (1651), trad. it. ed introduzione a cura di A. Pacchi (con la collaborazione di A. Lupoli), Roma-Bari, 1989, 69, per il quale, mentre il potere originario è quello «naturale», sono «strumentali» i poteri che - una volta acquisiti grazie al primo o alla buona sorte - diventano mezzi per un ulteriore accrescimento delle potenzialità del titolare.

(15) ... nel procedere, di pari passo, con una serie più o meno vasta di condizioni o ipotesi: in questa direzione, per l'intanto, v. ad es. S. Lukes, op. ult. cit., 74, che altrove - in omaggio alla visione criticata subito infra (in corrispondenza della nota 18) - deduce tuttavia che il potere sarà pure contrassegnato dalla disposizionalità, ma sapremmo «quali enunciati condizionali o ipotetici specificano le disposizioni di un dato oggetto (o soggetto) solo perché (sapremmo) già che esso ha determinati poteri» (Id., voce Potere, in Enc. sc. soc., vol. VI, Roma 1996, 722).

In argomento, nondimeno, cfr. soprattutto G. Ryle, Lo spirito come comportamento (1949), trad. it. con introduzione e nota bibliografica a cura di F. Rossi-Landi, Einaudi, Torino, 1955, 116.

(16) Nel contesto in discussione, esistono anzitutto due tipi di riduzionismo: ad es., «Hume, sostenendo che la distinzione tra potere e l'esercizio di questo è completamente frivola, volle ridurre il potere all'esercizio del potere. Descartes, tentando di identificare tutti i poteri dei corpi con le loro proprietà geometriche, volle ridurre i poteri ai loro veicoli» [così, A. Kenny, Will, cit., 10, che - in seguito - attribuisce alla filosofia aristotelico-scolastica pure l'introduzione della dicotomia secondo cui «qualche potere è innato (come quelli dei sensi), altri (come l'abilità di suonare il flauto) sono acquisiti con la pratica» (123)].

(17) Il che, idealmente, non può essere contestato ammettendo - appunto - che ogni «potere, anche quello che si considera assoluto, è in realtà condizionato e situato, ed ogni analisi del potere è una analisi delle sue condizioni, delle sue trasformazioni e delle sue possibili limitazioni» (A. Zanfarino, voce Potere, cit., 609).

(18) Contra, sulla scia di R.W. Emerson, Condotta di vita (1860), trad. it. a cura di B. Soressi con introduzione di G. Maraini, Soveria Mannelli 2008, 84, in rappresentanza del «realismo scientifico» cfr. per tutti R. Harré-E.H. Madden, Causal Powers, Oxford, 1975, part. 86 s. (traduzione di chi scrive), per i quali, fondamentalmente, ascrivere un potere ad una qualsiasi entità significa che questa avrebbe la capacità di compiere una determinata azione «in virtù della sua intrinseca natura» (fermo restando che - affinché il potere si manifesti - può risultare determinante l'insorgenza di «circostanze estrinseche»).

Sul piano strettamente filosofico, ciò può sfociare in un'impostazione egotistica, in base a cui «La mia potenza è la mia proprietà. // La mia potenza mi dà la proprietà. // La mia potenza sono io stesso e grazie a essa io sono la mia proprietà» [M. Stirner, L'Unico e la sua proprietà (1845), trad. it. con nota di L. Amoroso e saggio critico a cura di R. Calasso, Milano 1999, 195].

(19) Così, ad es., H. Plessner, Potere e natura umana (1931), trad. it. di B. Accarino e N. Casanova con introduzione a cura del primo, Roma 2006, 98.

(20) Celeberrima, al riguardo, è la trattazione di N. Machiavelli, Il Principe (1513), ed. con note di G. Inglese nonché con saggio introduttivo a cura di F. Chabod, Torino 1995, 33 ss.

(21) ... «e questo è un elemento di cui il mondo è talmente saturo - non c'è crepa o fenditura in cui non si trovi - che nessuna onesta ricerca è senza ricompense» (R.W. Emerson, op. ult. cit., 79).

(22) In tal guisa, si è voluta estendere la notazione che l'«"assoggettamento" indica il processo del divenire subordinati al potere tanto quanto il processo del divenire un soggetto» [J. Butler, La vita psichica del potere (1997), trad. it. di E. Bonini e C. Scaramuzzi con postfazione a cura di C. Weber, Roma 2005, 8 s.].

Ancor prima, sempre sulla scorta di L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato (1970), in Id., Freud e Lacan, raccolta di scritti trad. it. con introduzione a cura di C. Mancina, Roma 1977, 119, per un simile «gioco concettuale» v. ad es. M. Foucault, L'etica, cit., 284, il quale ne trae la conseguenza, a mio parere forzata, che «le relazioni di potere po(trebbero) esistere soltanto nella misura in cui i soggetti sono liberi»; visto che, se non vuole obbedire, in definitiva colui che è meno forte potrebbe sempre suicidarsi. In senso contrario, gli è che può bensì parlarsi della libertà di suicidio, ma giammai a fronte di una limitata gamma d'alternative, specialmente ove questa sia preconfezionata dall'altrui contegno.

Mutatis mutandis, a simili obiezioni si espone la tesi di N. Luhmann, Potere, cit., 7, per cui, siccome il potere presupporrebbe che a chi lo subisce «siano accessibili altre possibilità di azione», esso potrebbe «essere accresciuto soltanto congiuntamente ad un aumento della libertà da parte di coloro che» vi sono sottoposti. Sul punto, tuttavia, cfr. altresì infra, 3a., nei pressi della nota 43 ss.

(23) In questo senso, complessivamente, v. G. Marramao, Hyperbolé. Politica, potere, potenza, in aut aut, n. 347/2010, 169 s., il quale - sotto il primo punto di vista - si rifà altresì alla considerazione marxiana (ineccepibile, se non altro a livello potenziale) secondo cui il potere tende alla «cosificazione» degli assoggettati.

Per quanto concerne il secondo profilo, inoltre, dalla «circostanza che la libertà originaria che sta a presupposto della relazione di potere è la potenza», il medesimo Autore arriva a sostenere «l'irriducibilità del potere alla dimensione fattuale della forza» (ivi, 170). Sul punto, però, non mi sembra il caso di consentire, non solo per quanto esplicitato nel corso della nota precedente, ma anche per quel che si dirà nel seguito (3b., in corrispondenza della nota 68 ss.).

(24) In questo senso, cfr. ad es. G. Duso, Premessa, in Id. (cur.), Il potere (1999), rist., Roma 2006, 11.

(25) Per vero, «in tutte le società, ... esistono due classi di persone: quella dei governanti e l'altra dei governati: la prima, ... meno numerosa ... la seconda, più numerosa» (G. Mosca, Elementi di scienza politica2, Torino 1923, 52).

Ed è naturale, poi, che tale situazione valga per «tutta la storia, ... dai re più antichi sino ai reggimenti democratici odierni» (V. Pareto, Compendio di sociologia generale, a cura di G. Farina, Firenze 1920, 446): la «posizione dominante della cerchia di persone appartenenti a quella formazione di potere nei confronti delle "masse" dominate poggia ... su quella ... "superiorità del piccolo numero"» [M. Weber, Economia e società (1922), trad. it. in 2 voll. a cura di P. Rossi, II ed., Milano 1968, vol. II, 257]. Quindi, per la «ferrea legge delle oligarchie» [formulata da R. Michels, Democrazia formale e realtà oligarchica (1909), trad. it. a cura di V. Merli in G. Sivini (cur.), Sociologia dei partiti politici, Bologna 1971, 27 ss.], l'«élite del potere è composta di uomini che si trovano in posizioni tali da poter trascendere l'ambiente dell'uomo comune» [C. Wright Mills, La élite del potere (1956), trad. it. a cura di P. Facchi, Milano 1959, 10].

(26) In senso contrario, per tutti, v. però N. Luhmann, Potere, cit., XLI.

(27) In termini, cfr. M. Weber, op. ult. cit., vol. I, 52.

Tuttavia, nel prosieguo (spec. nota 42), si vedrà che la prospettiva weberiana è troppo angusta.

(28) ... essendo incontestabile che il potere è il «principale fondamento dell'agire di gruppo» [come posto in luce, ad es., dallo stesso M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913), in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, raccolta di scritti con introduzione a cura di P. Rossi, rist., Torino 1999, 298].

(29) Sicché, per le sue restrizioni, risulta erroneo che il potere sociale sarebbe diretto soltanto a controllare gli individui [secondo quanto ritengono, ad es., A. Costabile, Il potere politico, Roma 2002, 14, e H.J. Morgenthau, Politica tra le nazioni (1985), trad. it. di P. Poggi con introduzione a cura di L. Bonanate, Bologna 1997, 47].

Infatti, i detentori di potere possono tranquillamente mirare a sfruttare oppure a modificare la materia, considerando all'occorrenza le persone alla stregua di un semplice strumento per raggiungere l'obiettivo. Non bisogna, cioè, avere per forza il desiderio di soggiogare o manipolare gli altri.

(30) In questo senso, invece, v. altresì S. Lukes, voce Potere, cit., 731.

(31) Così, ad es., F. Hunter, Community Power Structure, Chapel Hill, 1953, 2 s.

(32) In tale direzione, cfr. soprattutto M. Weber, Economia, cit., vol. I, 51, il quale, rilevando che la «potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un'opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità», ritiene che essa sarebbe un «concetto ... sociologicamente amorfo», dato che tutte «le possibili qualità di un uomo e tutte le possibili costellazioni possono metterlo in condizione di far valere la propria volontà».

(33) V., ad es., S. Lukes, Il potere, cit., 22, nella parte in cui afferma che «il potere (sarebbe) una capacità, non l'esercizio di tale capacità».

(34) In termini, cfr. R. Aron, Macht, Power, Puissance: prosa democratica o poesia demoniaca? (1964), in Id., Études politiques, Parigi, 1972 (traduzione mia), 175 s., cui adde - fra gli altri - B. Barnes, La natura del potere (1988), trad. it. a cura di L. Cecchini, Bologna 1995, 114.

(35) In proposito, v. ad es. S. Lukes, voce Potere, cit., 736, dove si deduce che «A agisce paternalisticamente nei confronti di B se e solo se: 1) A intende evitare un danno o procurare un beneficio a B; 2) A agisce in contrasto con i desideri e le preferenze attuali di B e 3) l'azione di A costituisce una limitazione dell'autonomia di B».

Tuttavia, il punto sub 2) suscita delle obiezioni, le stesse che inficiano parzialmente la definizione di L. Gallino, voce Potere, in L'Universale. Filosofia, Milano 2003, vol. II, 886, in base al quale il potere sociale è «il possesso ... della capacità di raggiungere i propri fini in una sfera specifica della vita sociale, nonostante la volontà contraria di altri». Infatti, ai fini del potere, è ininfluente - perlomeno, in assoluto - se gli altri abbiano volontà, preferenze e desideri ad esso contrari: in generale, gli è che potere in «sintesi indica la capacità di fare qualcosa o di non farla non importa quali siano le agevolazioni o le resistenze interne o esterne» (F. Ferrarotti, Il potere, Roma 2004, 72); sicché, in definitiva, per «uomo potente intendiamo ... colui che è in grado di fare ciò che vuole, anche se gli altri vi si oppongono» [C. Wright Mills, La élite, cit., 15].

Con il che, tutto sommato, resta chiaro come non si possa affatto accogliere l'impostazione irenica di T. Parsons, Teoria sociologica e società moderna (1967), trad. it. con introduzione a cura di P. Maranini, Milano 1971, spec. 220, in ragione della quale il conflitto - qualora, in buona sostanza, non sia rimosso ab imis - viene nondimeno relegato in secondo piano. A mio avviso, invece, si verte su di un'eventualità che si verifica quasi puntualmente, anche se non sempre. D'altronde, solo cum grano salis può asserirsi che «le forze particolari non si possono riunire senza che anche tutte le volontà si riuniscano» [Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), trad. it. in 2 voll. con introduzione a cura di S. Cotta, II ed., Torino 1965, vol. I, 63]. In tema, comunque, si rinvia di nuovo al 3b., in corrispondenza della nota 43 ss.

(36) R.A. Dahl, The concept of the power (1957), in J. Scott (cur.), Power, Londra-New York 1994, vol. I, 290 (traduzione mia).

Con riferimento alla prima parte del ragionamento, analogamente (ma con fare oltranzista) si pronunzia N. Luhmann, Potere, cit., 11, per cui «il potere è la chance di accrescere la probabilità che si realizzino determinati nessi selettivi improbabili».

(37) In termini, ex multis, cfr. ad es. J.E.E. Acton, Lo studio della storia moderna (1895), in Id., Cattolicesimo liberale, raccolta di scritti trad. it. con introduzione a cura di P. Alatri, Roma 1990, 71.

(38) Sul punto, valga la lezione B. Spinoza, Trattato, cit., 12: «Un uomo ha un altro in sua potestà quando lo tiene legato, o gli ha sottratto le armi, i mezzi per difendersi o fuggire, o quando gli ha ispirato timore o se lo è a tal punto legato con un beneficio, che quello preferisce fare a modo del benefattore piuttosto che proprio, e vivere secondo il giudizio dell'altro piuttosto che secondo il proprio»; tra l'altro, anche «la facoltà di giudicare può essere soggetta ad altri nella misura in cui la mente può essere ingannata da altri: da ciò segue che la mente in tanto è soggetta a se stessa, in quanto può far retto uso della ragione».

(39) Qui, si verte su di una vexata quaestio, che dipende da quella cui si è accennato nel testo subito prima, perché le diverse tipologie di potenza/potere hanno al loro interno - nel complesso - una differente possibilità di variazioni quantitative: questa è notevole nelle forme fluide e, invece, meno ampia in quelle cristallizzate, soprattutto giuridicamente.

Comunque, quello dell'invarianza della somma di potere rappresenta un «teorema, presupposto dell'intera tradizione liberaldemocratica» (D. Zolo, Complessità, potere, democrazia, in N. Luhmann, Potere, cit., XVII), tanto è vero che, ancor prima - ad es. - di C. Wright Mills, La élite, cit., passim, e H.D. Lasswell-A. Kaplan, Potere e società (1950), trad. it. con introduzione a cura di M. Stoppino, Bologna 1997, part. 137, si sono espressi a favore di esso J. Locke, Due trattati sul governo (1690), trad. it. con introduzione e nota biografica a cura di L. Pareyson, VI ed., Torino 1968, trattato II, Del governo civile, 348 s., nonché J. Stuart Mill, Della libertà (1859), trad. it. con prefazione ed introduzione a cura di M. Lerner nonché con uno scritto di L. Einaudi, Firenze 1974, passim. Di contro, riprendendo la posizione di T. Hobbes, Leviatano, cit., 69, a vantaggio dell'impostazione generativa si è schierato, oltre - sempre ad es. - a T. Parsons, Teoria, cit., part. 212, e N. Poulantzas, Potere, cit., 143 ss., N. Luhmann, op. ult. cit., 130, 69, 79, secondo cui, in verità, la «soluzione che un determinato codice del potere dà al ... problema ... della fluttuazione dei rapporti di potere ... può consistere nel porre il presupposto della invarianza della somma totale del potere» (59).

In linea di principio, mio avviso, si deve astrattamente propendere per la seconda ipotesi, però non già poiché l'alternativa - che vede nel potere una risorsa da distribuire - porterebbe all'«'errore di veicolo'» e, cioè, alla sua identificazione «con le risorse del potere, come la ricchezza o la condizione sociale, oppure le forze armate e le armi» (S. Lukes, Il potere, cit., 81). In effetti, nella specie non si può parlare di un errore, alla luce di quel che sarà chiarito infra (spec. § 3d., in corrispondenza della nota 130). Piuttosto, il punto dolente della concezione distributiva è che ha la pretesa di assegnare ad ognuno una quota predeterminata di espansione, illudendosi che la società sia un sistema compiuto ed immobile, laddove il «potere si forma e si esprime anche nei consolidamenti strutturali i quali risultano da combinazioni e mediazioni di varia natura, esistenziale e collettiva, ideale e materiale, qualitativa e quantitativa» (A. Zanfarino, voce Potere, cit., 607).

Malgrado questo, credo che sia opportuno ribadire che il contrasto in analisi è un po' apparente, giacché in «ogni situazione concreta si possono infatti osservare entrambi i casi» (L. Gallino, voce Potere, cit., 887). Rimane impregiudicata, nondimeno, la considerazione che il «potere si spende nell'uso, ma può essere investito con qualche rischio per produrre più potere», dove il pericolo è proprio quello di perderlo [P.M. Blau, Exchange and power in social life2 (1986), III rist., New Brunswick 1992, 141 s.; traduzione di chi scrive].

(40) Così, ad es., H. Popitz, Fenomenologia, cit., 19.

Per tale motivo, appunto, il potere è «una categoria universale dell'esistenza sociale propria dell'esperienza umana» (N. Luhmann, Potere, cit., 105).

(41) In tema, cfr. ad es. S. Lukes, voce Potere, cit., 723.

(42) In termini, si pronunzia ancora H. Popitz, op. ult. cit., 20.

Per quanto concerne i metodi impiegati, al fine di ridurre le masse all'obbedienza, bisogna aggiungere pure la propaganda latamente intesa (secondo quanto rilevato, ad es., da B. Russell, Il potere, cit., 44), non potendosi negare che esista un potere di persuasione e che, almeno in certe occasioni, nella «coercizione si può far rientrare anche un alto grado di allettamento» (M. Stoppino, voce Potere, cit., 770 s.). In tal guisa, vi è il pericolo di «confondere le acque» con il concetto ancor più vago di influenza, questa designando «in generale e senza ulteriori attributi la trasmissione di prestazioni produttive» (N. Luhmann, op. ult. cit., 86). E, nel senso più ristretto possibile, l'influenza è la capacità di modificare il comportamento altrui, spendendo qualsiasi qualità riconosciuta come superiore dal soggetto su cui si esercita, ma non in via istituzionale (sul punto, in prima battuta, v. L. Gallino, op. ult. cit., 886). Pertanto, essa non viene mai esplicata in forma di comando, consistendo «le sue forme caratteristiche ... nel persuadere, nel suggerire, e perfino nell'insinuare»; però, quale «tipo di potere indiretto e non strutturato», incide largamente pure sul potere istituzionale (C.J. Friedrich, L'uomo, cit., risp. 127, 131 s.).

Tuttavia, preferiamo correre il predetto rischio considerando che, ex adverso, si è soliti assumere: o che addirittura il suggerimento può diventare una fonte di potere, ancorché non «tutti i tipi d'influenza riflett(erebbero) il potere d'imporsi sugli altri» (P.M. Blau, Exchange, cit., 141); oppure, in maniera reciproca (nei confronti della visione da me accettata), che il potere sarebbe una «specie dell'influenza» (H.D. Lasswell-A. Kaplan, Potere, cit., 119) e, eventualmente, una forma oltremodo significativa di questa (come ritiene, ad es., S. Lukes, Il potere, cit., 67; Id., voce Potere, cit., 726 ss.). Totalmente contraria all'assimilazione in esame, invece, è l'impostazione di M. Weber, Economia, cit., vol. I, 207, in base al quale il potere non corrisponde a «qualsiasi possibilità di esercitare "potenza" e "influenza" su altri uomini»; però, si è già anticipato retro - e, esplicitamente, nel corso della nota 27 - che a mio avviso questa visione è da rigettare, poiché alquanto limitata.

In merito, più diffusamente, si tornerà comunque infra, § 3d. nei pressi della nota 99 ss.

(43) Così, seguito anche da S. Lukes, voce Potere, cit., 725, G. Simmel, Sociologia (1983), trad. it. di G. Giordano con introduzione a cura di A. Cavalli, II ed., Torino 1998, 118.

(44) Fermo restando che l'esercizio di un'irresistibile vis coactiva annulla la volontà di chi ne è soggetto (e, per tale riserva, cfr. già supra, § 1, nota 22), in ogni altra circostanza resta intatta l'intenzionalità di costui, che si esprime nel subire non reagendo in modo consono.

In punto di diritto, poi, non per niente la teoria generale del negozio giuridico insegna che persino nell'«ipotesi di violenza ... la volontà non manca (coactus tamen volui): è viziata» (A. Torrente-P. Schlesinger, Manuale di diritto privato12, Milano 1985, 183).

(45) Al riguardo, usando delle parole di Spinoza, Trattato, cit., 12, è bene ricordare che «ciascuno è soggetto ad un altro fino a quando è in potestà di un altro, e a se stesso in quanto può respingere ogni violenza, punire un danno subito seguendo solo il proprio giudizio, e, in maniera generale, in quanto può vivere a modo suo».

(46) Giovenale, Satire (primi decenni del II sec. d.C.), trad. it. con testo latino a fronte, commento, note ed introduzione a cura di G. Viansino, Milano 1990, satira VI, 224.

(47) In effetti, pur all'interno dell'umanamente possibile, «Non omnia possumus omnes» [Virgilio, Bucoliche (~ 42-39 a.C.), in Id., Opere, raccolta trad. it. con testo latino a fronte ed introduzione a cura di C. Carena, II ed., Torino 1976, Ecloga VIII, 132].

(48) Dunque, variazioni terminologiche a parte, non si può interamente condividere - ad es. - il giudizio secondo cui la «proporzionalità tende a sparire tra la potenza - relazione tra le volontà - e la forza - strumento di costrizione fisica» (R. Aron, Macht, cit., 186).

(49) ... se, all'alba della civiltà occidentale, gli stessi ateniesi affermavano «Noi crediamo ... che per legge di natura chi è più forte comandi» [stando alla testimonianza di Tucidide, La guerra del Peloponneso (II metà del V sec. a.C.), trad. it. di C. Moreschini rivista da F. Ferrari con note di G. Daverio Rocchi e saggio introduttivo a cura di D. Musti (riferito anche alle Storie di Erodoto, pubblicate contestualmente), Milano 2008, 1325]; e se, per il resto, non sembra di molto esagerata la prospettiva in virtù della quale la «storia della politica del potere non è nient'altro che la storia del crimine nazionale e internazionale e dell'assassinio di massa (inclusi alcuni tentativi per eliminarli)» [K. Popper, Sulla storiografia e sul senso della storia (1962), in Id., Tutta la vita è risolvere problemi (1994), raccolta di scritti trad. it. con premessa a cura di D. Antiseri, Milano 1996, 175].

(50) Così, pure M. Weber, Economia, cit., vol. I, 207.

(51) In termini, per contro, si pronunzia N. Luhmann, Potere, cit., risp. 12, 11, 23.

(52) In tale maniera, M. Stoppino, voce Potere, cit., 768, qualifica il potere attuale, ponendo giustamente in rilievo - tra l'altro - che nei subordinati può non esservi consapevolezza, come nel caso della manipolazione.

Però, ivi, anch'Egli differenzia inflessibilmente il potere coercitivo dall'uso della forza materiale, insistendo sulla volontarietà degli atteggiamenti passivi. E, a questo vizio per eccesso, ne aggiunge uno per difetto, sostenendo che potrebbe altresì parlarsi di relazioni di potere non intenzionali, da parte dei superiori: in tema, tuttavia, cfr. subito infra, iniziando dal testo.

(53) Sul punto, in prima battuta, v. C.J. Friedrich, L'uomo, cit., 129, e N. Luhmann, op. ult. cit., 80.

Al riguardo, è importante mettere in evidenza, immediatamente, che il «"consenso" è anzitutto un semplice "adattamento" a ciò che è abituale, poiché è abituale»; pertanto, persino un'insoddisfazione permanente dei sudditi «non elimina il "consenso" finché il detentore del potere ha una chance rilevante di contare sull'esecuzione (...) dei suoi comandi» (così, M. Weber, Alcune, cit., risp. 299, 281, cui adde - ad es. - G. Ferrari, Introduzione ad uno studio sul diritto pubblico consuetudinario, Milano 1950, 96, e N. Irti, Norma e luoghi4, Roma-Bari 2006, 170).

(54) In tale direzione, cfr. S. Lukes, Il potere, cit., 64, il quale - a p. 80 - osserva quindi che il potere è pure la capacità di opporsi ad un cambiamento, perfezionando la ripartizione tra potere attivo e passivo come capacità di «esercitare oppure di ricevere qualche mutamento» [J. Locke, Saggio sull'intelletto umano4 (1700), trad. it. con testo inglese a fronte, note ed apparati di V. Cicero-M.G. D'Amico nonché con introduzione a cura di P. Emanuele, II ed. Milano 2007, 417].

(55) In questo senso, ad es., v. inoltre A. Kenny, Will, cit., 53, nonché C. Wright Mills, La élite, cit., 35.

(56) Per vero, «la "non scelta" è comunque una decisione» (R. Rumiati, Decidere, Bologna 2000, 66).

E, se spesso «il detentore del potere non ha nemmeno bisogno di impartire un ordine, perché anche gli ordini non impartiti vengono prontamente osservati», ciò avviene perché il potere è un codice che determina «una ripartizione «innaturale» tra la volontà e la non-volontà come condizione di operazioni specifiche» (come posto in evidenza, nonostante tutto, proprio da N. Luhmann, Potere, cit., risp. 39, 37).

Sicché, non mi convince appieno la tesi per la quale, il «potere della élite non esclud(erebbe) necessariamente che la storia non sia anche formata da una serie di piccole decisioni, nessuna delle quali (sarebbe) pensata in anticipo» (C. Wright Mills, La élite, cit., 28). Infatti, le decisioni «storiche» - com'è ovvio - assumono una forma giuridicamente rilevante, nel senso di costituire un ordinamento o di modificarlo nei suoi principi essenziali. Quindi, nel contesto, è davvero illusorio discettare di comportamenti involontari, a meno che non si presumano azioni od omissioni verificatesi per errore: il che è quantomai inverosimile, nei tentativi di organizzazione normativa di qualunque relazione sociale (e specialmente nel diritto, in tutte le sue branche), dove entrano in contatto interessi multiformi: in questa direzione, rinviando al mio Consuetudine e diritto costituzionale scritto, Roma 2008, spec. 31 ss., cfr. almeno P. De Francisci, Punti di orientamento per lo studio del diritto, in Riv. it. sc. giur., 1949, 81; G. Ferrari, Introduzione, cit., 46; C. Lipartiti, voce Consuetudine (diritto internazionale), in Noviss. dig. it., vol. IV, Torino 1957, 327 s.; M. Mazziotti di Celso, voce Norma giuridica, in Enc. giur., vol. XXI, Roma 1990, 6; nonché, problematicamente, F. Modugno, voce Ordinamento giuridico (dottrine), in Enc. dir., vol. XXX, Milano 1980, 680.

Ciò, in sede di teoria generale del diritto, vale a recuperare l'incontestabile nucleo di verità che sta dietro la concezione imperativistica [per la quale tutto «il diritto di una comunità consiste in imperativi»: A. Thon, Norma giuridica e diritto soggettivo (1878), trad. it. con saggio introduttivo a cura di A. Levi, Padova 1939, 113], ribadendo che non «c'è norma senza un atto di volontà che la statuisca, ovvero - ... - nessun imperativo senza imperator, nessun comando senza comandante» [H. Kelsen, Teoria generale delle norme (1979), trad. it. di M. Torre con studio introduttivo a cura di M.G. Losano, Torino 1985, 6].

(57) Contra, su tutta la linea, cfr. ancora S. Lukes, voce Potere, cit., 737 s., il quale, da un lato, fa leva sul fatto che «la maggior parte delle nostre azioni innesca innumerevoli catene di conseguenze involontarie, alcune delle quali estremamente significative»; dall'altro, asserisce che «non ogni potere passivo deriva direttamente da un potere attivo esercitato in precedenza. Ne è un esempio il potere derivante da uno status che induce deferenza».

In relazione alla seconda questione, anzitutto, va premesso che essa riguarda una nozione di potere passivo diversa da quella canonica (che si risolve nella capacità di subire: unitamente alla precedente nota 54, cfr. vieppiù retro, § 1, nota 5): ora, si verte su poteri di segno comunque positivo, anche dal punto di vista della loro fondazione. Riferendosi al suddetto esempio, difatti, è evidente che in realtà l'acquisizione di uno status discende - in maniera diretta o no, poco interessa ai fini di cui si discute - da un potere attivo messo in opera in via antecedente, quand'anche non dal medesimo individuo o gruppo.

(58) Per vero, il potere potenziale è bensì caratterizzato dalla detenzione di risorse ad hoc, ma la sua concretizzazione dipende dalla capacità di renderle efficaci, a patto che a ciò corrisponda negli altri una determinata «attitudine ... a lasciarsi influenzare» (così, ad es., M. Stoppino, voce Potere, cit., 769).

(59) In tale direzione, nel complesso, v. una volta di più C.J. Friedrich, L'uomo, cit., 126.

(60) La differenza fondamentale tra comunità e società, tutto sommato, consiste unicamente nel fatto che la «società muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente l'uno accanto all'altro, ma che non sono già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimangono legati nonostante tutte le separazioni» [F. Tönnies, Comunità e società8 (1935), trad. it. con introduzione a cura di R. Treves, Milano 1963, 83].

Comunque sia, alla radice della cooperazione sociale, si colloca l'osservazione che il «maggior potere umano è quello costituito dai poteri del maggior numero di uomini, riuniti per loro consenso in una sola persona, naturale o civile» (T. Hobbes, Leviatano, cit., 69). Ma, se la società crea «delle forze collettive superiori alla somma delle singole parti e capaci di esercitare su di esse un ascendente ideale e un condizionamento pratico», ivi non si verifica mai una sintesi completa e definitiva: per contro, rimane sempre una «possibile tensione tra attività soggettive e fenomeni sociali» (A. Zanfarino, voce Potere, cit., 607 s.).

(61) In termini, cfr. ad es. L. Gallino, voce Potere, cit., 886.

(62) Al riguardo, v. per tutti N. Luhmann, Potere, cit., 48.

In tema, cfr. peraltro R. Aron, Macht, cit., 190 s., il quale, pur contrastando la teoria delle élites, afferma che essa contiene una parte di verità quando pone in rilievo che la potenza sociale è disseminata irregolarmente.

(63) È ovvio, cioè, che l'«istituzionalizzazione della autorità d'ufficio» comporta che «sia il singolo individuo che ricopre una determinata carica sia ... l'organizzazione burocratica stessa possono agire "ufficialmente" per l'organizzazione, cioè "in nome" di questa, che altrimenti non potrebbe esistere» (T. Parsons, Teoria, cit., 219 s.).

Per converso, la «molteplicità dei livelli simbolici, in particolare la distinzione fra ufficio e persona, presuppone come condizione l'organizzazione» (N. Luhmann, op. ult. cit., 42).

(64) L'istanza di cristallizzazione del potere, peraltro, aumenta in ragione della complessità sociale [come, tra l'altro, pone in rilievo M. Crozier, Il fenomeno burocratico (1964), trad. it. di G. Vezzoso con introduzione a cura di P. Maranini, Milano 1969, 192].

(65) Nel frangente, «per disciplina si deve intendere la possibilità di trovare, in virtù di una disposizione acquisita, un'obbedienza pronta, automatica e schematica ad un certo comando da parte di una pluralità di uomini» (M. Weber, Economia, cit., vol. I, 52).

(66) Sul punto, cfr. ad es. S. Lukes, voce Potere, cit., 724, dove - insieme al fatto che «l'uso strategico della forza può rendere efficaci le altre forme di potere» - si pone esattamente in luce che «la forza, rispetto ad altre forme di potere, è altamente antieconomica», mentre «la coercizione è ... più economica rispetto alla forza», specie quando una minaccia di sanzioni «non ha nemmeno bisogno di essere formulata», per ottenere obbedienza «attraverso la cosiddetta 'legge delle reazioni anticipate'».

In maniera analoga, sempre facendo riferimento alla «legge» appena menzionata (ed elaborata, notoriamente, da C.J. Friedrich, L'uomo, cit., 132 ss.), v. altresì M. Stoppino, voce Potere, cit., 770.

(67) In proposito, basti riflettere su quanto afferma G. Ferrero, Potere (1942), II ed. it. con introduzione di U. Campagnolo e postilla di L. Valiani nonché con prefazione a cura di G. Ferrero Lombroso, Milano 1959, 378: «la forza è la paura in azione; e la paura ... è contagiosa. Impossibile far paura agli uomini senza finire per averne paura ... Per combattere questa jattura l'umanità fino ad ora non ha trovato che due rimedi: prima le filosofie e le religioni mistiche, poi, negli ultimi due secoli, i principi di legittimità».

(68) M. Weber, Economia, vol. I, 53.

Con la massima chiarezza, pertanto, va detto che la forza fisica è un tipo di potere, anzi ne è l'estrinsecazione primigenia. Dunque, non possono assolutamente accettarsi quei pregiudizi intellettuali secondo cui il «potere e la violenza (sarebbero) opposti; dove l'una governa in modo assoluto l'altro (sarebbe) assente. La violenza compar(irebbe) dove il potere è scosso, ma lasciata fine a se stessa fini(rebbe) per far scomparire il potere» (H. Arendt, Sulla violenza, cit., 51).

(69) Così, M. Foucault, Il potere psichiatrico (2003), trad. it. di M. Bertani della raccolta di lezioni tenute al Collège de France nel 1973-'74 con avvertenza a cura di F. Ewald ed A. Fontana, Milano 2004, 26.

Peraltro, sulle concezioni di tale Autore si tornerà infra, § 3d., in corrispondenza della nota 105.

(70) Sul punto, cfr. B. Russell, Il potere, cit., 47.

(71) Mao Tse-tung, Problemi della guerra e della strategia (1938), trad. it. a cura del Comitato centrale del Partito comunista cinese, Pechino 1968, 9.

(72) In tema, v. ad es. M. Stoppino, voce Potere, cit., 769 s.

(73) In termini, cfr. H. Popitz, Fenomenologia, cit., risp. 190, 192, 194, 198, 206 s., 209.

Una scansione diversa, ad es., viene elaborata da R. Aron, Macht, cit., 177 s., che riserva alla dominazione un posto eventuale ed a sé stante, poiché essa «suppone un certo grado d'istituzionalizzazione (...), ma il termine dominazione evoc(herebbe) la relazione diretta tra il padrone e il servitore piuttosto che la relazione tra governanti e governati». E, su questa falsariga, diventa pertanto facile concludere nel senso che la dominazione «deriv(erebbe) solo dall'esercizio illegittimo del potere» (I. Shapiro, The State of Democratic Theory, Princeton-Woodstock 2003, 4; traduzione di chi scrive). Di contro, in conformità con la dottrina weberiana (riportata infra, nota 78), si deve confermare che in linea di massima il «dominio è il potere politico istituzionalizzato», tendendo «a produrre quel tipo di potere coercitivo che può essere considerato un possesso» (C.J. Friedrich, L'uomo, cit., 130)

Piuttosto, può concedersi che «il concetto di dominazione aggiunge a quello di potere sugli altri un'ulteriore sfumatura: i subordinati sono resi meno liberi, per dirla con Spinoza, di vivere secondo i dettami della natura e del loro giudizio» (S. Lukes, Il potere, cit., 124). Però, così facendo, diviene necessaria un'ulteriore diversificazione, tra il dominio basato sull'autorità legittima e quello che, invece, si fonda sul riconoscimento di una preminenza spiccatamente socio-culturale (in tema, specificamente, v. infra, all'inizio del § 3d.). E, di conseguenza, s'impongono due accezioni di dominazione che, per quanto distanti, sono accomunate dall'essere uno strumento univoco di «normalizzazione» coercitivo-disciplinare (sul punto, invece, si rinvia sempre al § 3d., nei pressi della nota 105).

(74) Sulle modalità atte a configurare l'ordine costituito come legittimo, fra gli altri, cfr. P.P. Portinaro, voce Legittimazione, in Enc. sc. soc., vol. V, Ist. Enc. it., Roma 1996, 235 ss., che rielabora le categorie ideate da M. Weber, Economia, cit., vol. I, 207 ss., il quale - in sintesi - parla di «tre tipi puri di potere legittimo": quello «razionale» (rispetto al valore o allo scopo), quello «tradizionale» e, infine, quello «carismatico» (210).

Tale classificazione, però, andrebbe integrata con l'aggiunta di una razionalità legata al tempo: la «legittimazione mediante procedimento», tramite cui il «sistema politico legittima se stesso» [N. Luhmann, Sociologia del diritto (1972), trad. it. con prefazione a cura di A. Febbrajo, Roma-Bari 1977, risp. 260, 263]. Comunque, se la tradizione ha soprattutto un valore confermativo dello status quo, la «congiunzione dell'autorità legittima e dell'autorità personale sembra all'origine dei grandi destini» (R. Aron, Macht, cit., 193). Pertanto, qui bisogna valutare al massimo «il ruolo giocato dal carisma» (H.J. Morgenthau, Politica, cit., 50), collocandolo in posizione di primazia insieme alla «disciplina razionale»: difatti, fra «tutti quei poteri che reprimono l'agire individuale», questi sono i tipi più importanti, realizzando sulla massa un'«uniformità nell'agire comandato» (M. Weber, op. ult. cit., vol. I, 462): in effetti, nella storia, i momenti di svolta sono determinati da individui che riescono a spostare i parametri della legalità, convincendo gli altri - in virtù di un notevole seguito personale - che i tempi siano maturi per l'instaurazione di un nuovo assetto socio-politico. Non per niente, è stato affermato che il cammino dell'umanità si ciba del «contrasto fra conservatori e rivoluzionari in tutti i campi, dal campo del pensiero al campo della politica» [B. Croce, Tra il serio e il giocoso (1939), in Id., Dal libro dei pensieri, raccolta di scritti a cura di G. Galasso, Milano 2002, 101].

(75) Così, ancora M. Weber, Alcune, cit., 297 s., il quale - peraltro - formula la considerazione secondo cui la «chance della validità empirica del consenso sarà ..., pari restando le altre condizioni, tanto maggiore quanto più si potrà far conto che gli individui, i quali obbediscono, lo facciano considerando la relazione di potere come "vincolante" per essi anche soggettivamente».

In merito, v. altresì G. Ferrero, Potere, cit., 357.

(76) In tema, oltre a L. Gallino, voce Potere, cit., 886, e M. Stoppino, voce Potere, cit., 772, cfr. ex multis G. Marramao, Hyperbolé, cit., 173 s., il quale evidenzia che «questa dimensione simbolica si manifesta con chiarezza nel momento in cui poniamo in rapporto l'auctoritas con la potestas», deducendo che «da questa polarità, dalla sua insolubile tensione, che trae origine la segreta logica che presiede a tutti i miti di fondazione: la mitologia di una fonte unica e "sovrana" del potere».

Insomma, «la funzione principale del mito costitutivo sta nella fondazione della legittimità, ovvero di quell'obbedienza che (normalmente) si avrà senza bisogno di coercizione» materiale [B. Moore jr., Potere politico e teoria sociale (1957), trad. it. a cura di C. Mannucci, Milano 1964, 22].

(77) In tal senso, ad es., si esprime H.J. Morgenthau, op. e loc. ultt. citt.

Difatti, in generale, gli è che le «percezioni o immagini sociali del P(otere) esercitano un'influenza sui fenomeni del P(otere) reale», per cui «la reputazione del P(otere) costituisce una possibile risorsa di P(otere) effettivo» (M. Stoppino, op. ult. cit., 770). Poi, si rifletta sul fatto che il «libero arbitrio, nella tradizione europea, è una proprietà attribuita all'azione, mentre la motivazione ne costituisce il corrispettivo moderno» (N. Luhmann, Potere, cit., 21).

(78) Invero, stricto sensu, il dominio si verifica quando la sussistenza e l'ordinamento di una qualsivoglia comunità politico-territoriale «vengono garantite continuativamente mediante l'impiego e la minaccia di una coercizione fisica da parte dell'apparato amministrativo» (M. Weber, Economia, cit., 53).

D'altro canto, è di comune dominio che «quello politico è il potere sociale supremo, l'unico autorizzato a usare la forza fisica» (A. Costabile, Il potere, cit., 20). Meno consueta, per una ritrosia dovuta probabilmente all'imperante «buonismo» politically correct, è la sottolineatura che «il rapporto di sovranità reca sempre ... il marchio di un'anteriorità fondatrice» e, perciò, ha bisogno di «essere costantemente riattualizzato» con «un certo supplemento di violenza, o una certa minaccia di violenza» (M. Foucault, Il potere, cit., 51). Ricordando l'insegnamento di N. Machiavelli, Il Principe, cit., 116 s., sulla conservazione del potere mediante forza e captatio del consenso, ciò significa che, «tolte poche eccezioni di breve durata, da per tutto si ha una classe governante poco numerosa, che si mantiene al potere, in parte con la forza, in parte con il consenso della classe governata, molto più numerosa. Le differenze stanno principalmente: in quanto alla sostanza, nelle proporzioni della forza e del consenso; in quanto alla forma, nei modi con i quali si usa la forza e si consegue il consenso» (V. Pareto, Compendio, cit., 444).

Nondimeno, per mantenere «la coesione sociale occorre una fede, un complesso di abitudini, un sentimento fondamentale, o meglio una comunione di tutti e tre ...: si può anche imporli con la forza ad una piccola minoranza ..., ma per la grande maggioranza debbono essere sentimenti genuini e spontanei» (B. Russell, Il potere, cit., 167). In altre parole, il «mito della legittimazione ... accresce l'impiego del potere» (N. Luhmann, Potere, cit., risp. 92, 54). Ma, costituendo il potere un «fattore di instabilità e di conflitto permanenti» (G. Marramao, Potere e secolarizzazione2, Torino 2005, 231), resta evidente che qualsiasi «limitazione del potere e della violenza istituzionalizzati deve essere essa stessa nuovamente limitata, fondando contropoteri e controforze» (H. Popitz, Fenomenologia, cit., 52). Il che, inoltre, avviene in quanto «i poteri individuali, i poteri delle forze collettive, i poteri dei ceti dirigenti appartengono a una comune dialettica che non può conoscere drastiche separazioni o gerarchie elaborate al di fuori delle mediazioni e trasformazioni dell'esperienza storica» (A. Zanfarino, voce Potere, cit., 609). Comunque, per ulteriori cenni su questa problematica del potere (costituente), si rinvia alla fine del § 3d.

(79) In questa direzione, si pronunzia ad es. N. Poulantzas, Potere, cit., risp. 124, 126.

(80) In tal senso, v. in particolare N. Luhmann, Potere, cit., risp. 10, 13 s.

(81) Così, ancora N. Luhmann, op. ult. cit., 53, ed ivi l'osservazione secondo cui pure la differenziazione tra politica e diritto è «una tappa necessaria dell'evoluzione sociale» (32), dato che - in quanto codificazione secondaria nel processo di differenziazione funzionale del potere - «il diritto ... produce legittimità in modo strutturale (e cioè a prescindere da legame con determinati valori e prescindendo persino dalla convinzione soggettiva di coloro che subiscono il potere)» (56).

(82) Infatti, nei confronti di tutta la rimanente parte del mondo normativo (e specie rispetto all'etica), l'ubi consistam del diritto si appunta sulla circostanza che le sanzioni - «norme secondarie» - a corredo dei suoi precetti - «norme primarie» - sono le uniche ad essere garantite dalla forza materiale [come si esprime H.L.A. Hart, Il concetto di diritto (1961), trad. it. con introduzione a cura di M. Cattaneo, Torino 1965, 95 ss., 198 s.].

Sul punto, soprattutto per l'ampia bibliografia, mi sia concesso di rinviare nuovamente al mio Consuetudine, cit., passim, ma part. 49 ss.

(83) Con tutta probabilità, in un'ottica razionalistica, la matrice di tale atteggiamento risale al kantismo che, non a caso, è unanimemente visto all'origine del pensiero occidentale contemporaneo: difatti, cfr. I. Kant, La metafisica dei costumi (1797), trad. it. con note a cura di G. Vidari riveduta da N. Mercker, X ed., Roma-Bari 2009, 134, dove viene asserito che «il principio del concetto del diritto ... (sarebbe) in opposizione a quello della forza».

(84) Mi si perdoni l'insistenza, ma la questione ha una portata davvero centrale, dovendosi ragionare in maniera consequenziale alla considerazione che «il diritto è un prodotto del potere, non importa se questo potere sia il potere ... del popolo o quello ... del principe» (N. Bobbio, Dal potere al diritto e viceversa, in Riv. filosofia, 1981, 347).

Allora, ex multis, v. W. Benjamin, Per la critica della violenza (1920-'21), in Id., Angelus Novus, raccolta di scritti trad. it. con introduzione a cura di R. Solmi, IX ed. recante in appendice un saggio di F. Desideri, Torino 2006, spec. 16 («Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto»), nonché J. Derrida, Forza di legge (1994), trad. it. con introduzione a cura di F. Garritano, Torino 2003, 119 («In quanto mezzo, ogni violenza fonda o conserva il diritto»).

(85) In tema, cfr. sempre N. Luhmann, Potere, cit., 58, il quale - sotto il profilo del relativo modus operandi - deduce che il «nesso condizionale che unisce le alternative (tra i detentori del potere ed i sottoposti) viene a sua volta programmato in termini condizionali attraverso il diritto»: pertanto, avendo di mira una razionalità obiettiva, la «contingenza delle alternative viene regolata e diventa quindi calcolabile».

Sulla certezza del diritto, pur rinviando al mio L'insostenibile ragionevolezza del dover essere, in questa Rivista, 2008, part. 4660 ss. (per i risvolti inerenti al metodo esegetico da doversi utilizzare, in campo giuridico), v. almeno G. Filangeri, Scienza della legislazione (1780-85), ed. Noto 1936, 62 ss., e F. Lopez de Oñate, La certezza del diritto (1942), Milano 1968, part. 161.

(86) In termini, cfr. H. Popitz, Fenomenologia, cit., 22, il quale afferma altresì che, per converso, il potere de facto «agisce al di là della controllabilità, nell'oscurità, e lo si porta con sé come un controllo interiorizzato».

(87) Così, V. Frosini, voce Potere (teoria generale), in Noviss. Dig. it., vol. XIII, Torino 1966, 440, il quale mette altresì in evidenza che, in ciò, si tratta dell'«attuazione ... di una potenzialità conferita ad una situazione giuridica soggettiva».

(88) L'impiego di siffatti termini tedeschi, in teoria generale del diritto, è dovuto alla circostanza che nella dogmatica moderna - come rilevato da A. Cerri, voce Potere e potestà, in Enc. giur., vol. XXIII, Roma 1990, 1 - tale distinguo è stato introdotto in maniera radicale da G. Jellinek, Sistema dei diritti pubblici subiettivi2 (1912), trad. it. con note e prefazione di G. Vitigliano nonché con ulteriore prefazione a cura di V.E. Orlando, Roma-Milano-Napoli 1912, 51 ss., in cui si legge istruttivamente che: le «azioni giuridicamente rilevanti, permesse dall'ordinamento giuridico, formano nel loro insieme ciò che è giuridicamente lecito (licére, Dürfen)»; invece, laddove il «non licére (Nichtdürfen) non esclude in alcun modo il potere fisico (posse, Können)», le «capacità giuridicamente rilevanti, concesse dall'ordinamento giuridico, formano nel loro complesso la potestà giuridica (das rechtliche Können)», che si aggiunge - trasfigurandola - alla «potestà naturale».

(89) Sul punto, si rinvia retro, § 1 nei pressi della nota 6.

(90) V. Frosini, op. e loc. ultt. citt.

(91) Nel frangente, va sottolineato che «quando, per giungere al diritto, si deve passare, dalla semplice capacità al potere e da questo al diritto ... allora si vede chiaramente che si ha un progressivo concretamento, una specificazione ed una determinazione più stringente nella sfera del soggetto, diversi stadii sempre più conclusivi di un procedimento, ciascuno dei quali merita un distinto nomen juris» [S. Romano, Poteri e potestà (1946), in Id., Frammenti di un dizionario giuridico, rist. con presentazione a cura di A. Romano, Milano 1983, 202].

(92) Così, ad es., A. Cerri, voce Potere e potestà, cit., 2, ed ivi - inoltre - la considerazione che, nella nostra Costituzione, «si riscontra l'impiego delle voci del verbo (potere) (artt. 76, 77, 82, 87, 2° e 11° co.), del resto già impiegate nella legislazione, con significato ... che sfugge ad una precisa definizione, non essendo chiaro se la parola evidenzia l'aspetto facoltativo o l'aspetto vincolante (per gli altri) della funzione (il licére od il posse, appunto)».

(93) ... ove, generalmente, si verte su di una funzione in senso tecnico: in tema, fra gli altri, v. F. Modugno, voce Funzione, in Enc. dir., vol. XVIII, Milano 1969, 303, il quale osserva che «la situazione soggettiva che accede o può accedere alla funzione-ufficio è il potere inteso come potestà, ossia nel senso di situazione di potere avente per fine la realizzazione di interessi alieni».

Ciò, d'altronde, è in palese connessione col fatto che i pubblici poteri si muovono in un'ottica di competenza legalmente precostituita, e non nella sfera della liceità (sul punto, cfr. per tutti A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale3, Padova 2003, 72, che - più in là - pone reciprocamente in risalto che, in «un "ufficio" di diritto privato, ... i poteri attribuiti ai privati rivestono molti dei caratteri propri delle potestà pubbliche», comportando - in ragione della loro funzionalizzazione - l'esercizio di una mera discrezionalità: 127 s.).

Si comprende, quindi, perché solitamente la potestà sia configurata alla stregua di un potere-dovere. Contra, però, v. ad es. S. Romano, Poteri, cit., 203, secondo cui «un diritto, come anche un potere, che fosse anche un dovere, non sarebbe più un diritto o un potere, perché una cosa non può essere il suo contrario. La verità è che un potere può implicare dei doveri, che però l'investano, non tutto, ma solo in qualche momento e in qualche direzione, e quindi non coincidano con esso». Il che, logicamente, «non fa una piega», ma in concreto questo non esclude che il sistema giuridico possa realizzare - nella sua dimensione - una concordia oppositorum.

(94) In termini, per tutti, cfr. P. Perlingeri-P. Femia, Nozioni introduttive e principi fondamentali, in P. Perlingeri (cur.), Manuale di diritto civile6, Napoli 2007, 69.

(95) Nondimeno, per la concezione dei diritti di libertà come rimanenze della libertà originaria, v. ad es. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), ed. commentata da AA.VV. con nota bio-bibliografica a cura di P. Custodi, Livorno 1828, 34; nonché W. Blackstone, Commentaries of the laws of England (1765-'69), ed. con introduzione a cura di S.N. Katz, Chicago-Londra, 1979, vol. I, 121 ss.

(96) ... secondo cui «è Dio capace di creare una pietra così pesante da non essere capace di sollevarla?»: al riguardo, cfr. ad es. A. Ross, Sull'autoriferimento e su un «puzzle» nel diritto costituzionale (1969), in Id., Critica del diritto e analisi del linguaggio, raccolta di saggi trad. it. a cura di R. Guastini ed A. Pollastro, Bologna 1982, 229.

Sul punto, mi sia concesso di rimandare ancora al mio Consuetudine, cit., 11 ss., 164 s. nota 107. Comunque, mi sembra che tale paradosso sia mal formulato in riferimento ad un'entità trascendente, essendo condotto attraverso categorie che - in quanto rientranti nell'ordine posto da essa - non possono classificare le qualità del medesimo fattore: queste, semmai, sono umanamente imperscrutabili.

(97) Napoleone, Lettere d'amore a Giuseppina (1981), trad. it. di L. Pellizzari della I ed. integrale a cura di C. de Tourtier-Bonazzi con introduzione di J. Toulard, Milano 1982, lettera in data 3 dicembre 1806, 190.

Invero, che dovrebbero dire gli altri, che non hanno proprio la possibilità di fronteggiare ipotetiche sfortune di tal fatta, pur subendo pesantemente gli effetti di queste e di quelle ordinarie?

(98) ... perché «il suo potere lo costringe(rebbe) a diventare, ancora più di prima, invidioso, infido, ingiusto, privo d'amici, empio, a ricettare e alimentare ogni vizio» [Platone, La repubblica (prima metà del IV sec. a.C.), trad. it. e note di F. Sartori con introduzione a cura di M. Vegetti, XI ed., Roma-Bari 2007, 300].

Quand'anche fosse, e così non è almeno necessariamente, ciò non avrebbe la benché minima incidenza sul potere (o sulla libertà) del despota.

(99) Nei confronti del potere, il «concetto di autorità si presenta in maniera più sfaccettata»: «l'autorità è intrinsecamente e in senso pieno autorevole e solo la perdita di autorevolezza avvicina l'autorità al fenomeno di "nudo" potere, ossia trasforma l'autorità e la perverte in un fenomeno autoritario»: così, ad es., F. Ferrarotti, Il potere, cit., 72 s., che fa particolarmente leva sul costume inveterato, per diversificare - nella sua purezza - l'autorità dal potere autoritario.

Però, con riferimento all'ultimo aspetto, non mi sembra che il discrimine sia questo dato che, a prescindere dalla sua autorevolezza, il decorso del tempo influisce sul modo in cui qualunque potere politico viene avvertito «dal basso»: anzi, in generale, si «può formulare la regola che quanto più antico è l'esercizio di un qualsiasi potere tanto più apparirà benevolo, e che, invece, quanto più recente ne è l'assunzione, tanto più esso sembrerà innaturale e perfino pericoloso» [J.K. Galbraith, Il nuovo stato industriale (1967), trad. it. a cura di P. Ciocca e G. Costa, Torino 1968, 50]. Ma, la questione è vieppiù complessa: cioè, non può ignorarsi che esiste pure il potere tradizionale ex se - quello, appunto, «favorito dalla forza dell'abitudine» soltanto - le cui forme classiche sono il potere sacerdotale e regale; anche se, più o meno, il primo è sempre autorevole e, storicamente, offre grandi vantaggi al secondo, appunto «perché il suo appoggio diventa essenziale al prestigio reale» (B. Russell, Il potere, cit., risp. 43, 83, 85).

(100) Così, ad es., R. Aron, Macht, cit., 181.

Sul punto, tra l'altro, ci troviamo di nuovo in disaccordo con H. Arendt, Sulla violenza, cit., 41, nella parte in cui esclude la persuasione come tratto caratteristico dell'agire d'autorità, visto l'indiscusso valore a priori che circonda quest'ultima. Difatti, avverso tale visione, gli è che la persuasività del comportamento assunto dall'autorità in questo secondo significato: da un lato, ne conferma l'aura di infallibilità; dall'altro, serve - strategicamente - a dissolvere i dubbi che possono essere sollevati nei casi spinosi.

Comunque sia, qualora manchi o quasi il fattore della coercizione, ci si potrebbe trovare dinanzi a figure peculiari del «sistema di coordinamento centralizzato»; e «potremmo indicare questi casi come esempi di concentrazione dell'autorità, distinta dalla concentrazione di potere», ancorché - in concreto - «ambedue gli elementi sono presenti in proporzioni che variano ampiamente» (B. Moore jr., Potere, cit., 13 s.).

(101) In merito, v. retro, § 2 nota 42.

Specificando quel che si è colà evidenziato, va detto che pure il consiglio autorevole può integrare una forma di potere, perché spesso un «apparente "altruismo" pervade la vita sociale ... Ma al di sotto di questo apparente disinteresse può rintracciarsi un rimarchevole "egoismo"; la tendenza ad aiutare gli altri è spesso motivato dall'aspettativa che ciò comporterà dei vantaggi sociali» (P.M. Blau, Exchange, cit., 17).

(102) In tema, cfr. ancora S. Lukes, voce Potere, cit., 728 s., che così distingue tra «'essere un'autorità'» e «'avere autorità'», dichiarando però che «l'esercizio dell'autorità non d(ovrebbe) essere necessariamente intenzionale».

Alla stregua di quanto già dedotto retro (§ 3a., nei pressi della nota 52 ss.), quest'ultima visione non sembra corretta per la quasi totalità delle ipotesi, dato che anche qui «si ripropone la struttura binaria ... che questa volta si presenta come un'alternativa tra la speranza si ottenere riconoscimenti e il timore che ci vengono negati. Chi è in condizione di porre tali alternative, e le pone consapevolmente per guidare il comportamento e l'atteggiamento degli altri, esercita un potere d'autorità» sic et simpliciter (H. Popitz, Fenomenologia, cit., 22).

(103) In termini, si pronunzia ad es. C. Wright Mills, La élite, cit., 333.

Al riguardo, vero è che spesso «gli uomini perdono la libertà perché ingannati, talvolta perché sedotti da altri, ancora più sovente perché s'ingannano da sé», dal momento che «la causa prima della servitù volontaria è l'abitudine» [É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (metà del '500), trad. it. C. Maggiori con saggio introduttivo a cura di M.N. Rothbard nonché con postfazione a cura di N. Iannello e C. Lottieri, Macerata 2004, risp. 14, 19]. E, d'altro canto, non è meno certo che la «spinta al potere ha due forme: è esplicita nei capi, implicita nei seguaci» (B. Russell, Il potere, cit., 23). Tuttavia, resta il fatto che il conformismo - con cui ci si «appiattisce» sugli schemi consueti - è regolarmente basato su dei modelli creati ad arte dai depositari del potere sociale, oltre che politico (in tema, nuovamente, mi sia concesso di rinviare al mio Consuetudine, cit., 41 ss.).

Peraltro, se la segretezza costituisce parte integrante e specifica della manipolazione, ciò non toglie che - in verità - qualsiasi «potere che aspira alla continuità è un potere segreto in qualcuno dei suoi punti decisivi» (M. Weber, Economia, cit., vol. II, 257).

(104) Così, S. Lukes, Il potere, cit., 22, chiama questo tipo di manipolazione, aggiungendola al potere uni-dimensionale (consistente nella gestione dei conflitti socio-politici evidenti) ed a quello bi-dimensionale (riguardante la «non-decisione», quale capacità di soffocare sul nascere le controversie, impedendo che determinate istanze emergano nella vita pubblica, mediante il controllo del relativo «ordine del giorno»).

Secondo il medesimo Autore, inoltre, tale forma di manipolazione si colloca a fianco di un'altra, che invece «si basa, al pari della coercizione, sul fatto che gli agenti hanno desideri fissi e preferenze costanti che strutturano tali desideri»: nella sua veste più semplice, poi, quest'ultima si esplica con l'«induzione o allettamento»; però, specie in ambito politico, vi sono altre tecniche che risultano a ciò adeguate, soprattutto in riferimento alla «manipolazione delle dimensioni o degli aspetti della decisione» (Id., voce Potere, cit., 725 s.). E nel frangente, in particolare, risalta l'«erestetica», ossia la capacità dei leader politici - collegata e, al contempo, diversa dalla retorica - di «strutturare il mondo in modo tale da poter vincere», fondando «la situazione così che le altre persone vorranno unirsi a loro ... o si sentiranno forzati dalle circostanze ad unirsi a loro» (W.H. Riker, The Art of Political Manipulation, New Haven-Londra, 1986, IX; traduzione di chi scrive).

Pure in simili occasioni, comunque, va confermato che «gli uomini sono inclini a venerare il potere» e, soprattutto, che di solito un culto siffatto «nasce dalla paura» (K. Popper, Sulla storiografia, cit., 175): adesso, si tratta del timore (non già di subire danneggiamenti o di non ottenere credito personale, ma) di pensare e/o agire in modo autonomo ed originale, nel realizzare la propria personalità.

(105) Qui, naturalmente, si sta utilizzando il pensiero di M. Foucault, Il potere, cit., passim.

Sulla bio-politica, amplius, si rinvia ancora al mio Consuetudine, cit., part. 353 ss., ed ivi - tra l'altro - ulteriore bibliografia in proposito.

(106) Sul punto, ovviamente, v. E. Canetti, Massa e potere (1960), trad. it. a cura di F. Jesi, XIV ed., Milano 2009, passim, dove - come esempio - si deduce che non «c'è alcuna espressione del potere più evidente del direttore d'orchestra»: egli «è una guida e un capo per la folla nella sala» (479 s.).

E, a testimonianza della potenziale pervasività ed illimitatezza del potere (in analogia con la libertà), viene ivi affermato che per «l'orchestra il direttore rappresenta effettivamente l'intera composizione nella sua simultaneità e nella sua sequenza: poiché durante l'esecuzione il mondo non deve consistere altro che della composizione, il direttore è, finché dura, il sovrano del mondo» (481).

(107) In termini, ad es., si esprime V. Pareto, Compendio, cit., 446.

(108) M. Weber, La politica come professione (1919), in Id., Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. con note di A. Giolitti nonché con nota introduttiva a cura di D. Cantimori, III ed., Torino 1971, 89.

(109) Così, C. Wright Mills, La élite, cit., 327, ponendo in evidenza che i «mezzi dei "fabbricanti di opinioni" sono ... di non minore profondità ed efficacia rispetto alle altre istituzioni di maggior mole che avvolgono la moderna società di massa».

(110) In termini ad es., cfr. B. Russell, Il potere, cit., il quale, 242, giustamente, aggiunge che - in tal modo - si raggiunge «questo scopo con meno dispendio e con maggior efficienza di qualsiasi forza di polizia».

Ivi, tuttavia, si asserisce che la «tesi affermante che il codice morale sia espressione di potere non (sarebbe) ... del tutto vera" (250), anche perché il «potere costituisce il mezzo delle lotte economiche e di quelle politiche. Ma nei sistemi morali che hanno finora esercitato maggiore influenza esso non (sarebbe) il fine» (262). Il che, però, non mi trova affatto consenziente poiché, se non è completamente esatta la «concezione materialistica della storia», questa può soltanto essere raffinata: in tema, v. infra, nota 131.

(111) La suddetta diatriba, comunque, a mio avviso non ha ragion d'essere dal momento che - a capo dei fenomeni socio-politici - una morale collettiva esiste sempre, senza potersi fissare in anticipo i rispettivi contenuti.

È questo, ritengo, il vizio che pregiudica i moralisti d'antan, i quali paventano che il post-moderno rappresenti pure la «fine dell'etica», oltre che la «morte delle ideologie», compiacendosi del secondo risultato mentre si disperano del primo: un marchiano errore di prospettiva, in cui non ci si accorge dell'intima relazione che lega i due (pretesi) eventi. Questi, piuttosto, vanno ricostruiti in modo assolutamente diverso, per capire qual è il sostrato etico-ideologico che regge il mondo della globalizzazione: sul punto, si rinvia ancora a quanto si dirà più avanti, nei pressi della nota 134 ss.

(112) Sull'egemonia, quale assetto che induce una «falsa coscienza» nei sottoposti, cfr. spec. A. Gramsci, Quaderni dal carcere (1926-'37), II ed. critica in 4 voll. con introduzione a cura di V. Garretana, Torino 1977, passim, ove - in ultima analisi - si sostiene che «la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come "dominio" e come "direzione intellettuale e morale"» [vol. III, Quaderno 19 (1934-'35), 2010 s.]

Peraltro, prima della sua formulazione compiuta, tale tesi era stata anticipata da una serie di notazioni dello stesso tenore [v., ad es., J. Stuart Mill, La schiavitù delle donne (1869), trad. it. con nota a cura di M. Braccianini, Milano 1992, 45]. Successivamente, invece, si sono avute anche versioni deboli della medesima impostazione [sempre ad es., cfr. P. Bourdieu, La distinzione (1979), trad. it. a cura di G. Viale, Bologna 1988, passim; Id., Il dominio maschile (1998), trad. it. a cura di A. Serra, II ed., Milano 1999, 45 ss.]. Contra, però, v. fra gli altri: totalmente, J. Elster, Uva acerba (1983), trad. it. a cura di F. Elefante, Milano 1989, 149 (che, di fronte alla mancanza di scelte alternative da parte dei dominati, preferisce spiegare questo comportamento sociale tramite «le preferenze adattative e la percezione adattativa»), e J. Scott, Il dominio e l'arte della resistenza (1990), trad. it. a cura di R. Ambrosoli, Milano 2006, 109, 121 [secondo cui, in definitiva, la difficoltà insormontabile per la tesi in discussione «sta(rebbe) nella difficoltà di spiegare i conflitti sociali», che nonostante tutto affiorano, ignorando le riserve mentali che sottostanno all'acquiescenza dei dominati]; parzialmente, N. Abercrombie-S. Hill-B.S. Turner, The Dominant Ideology Thesis2, Londra 1984, passim [dove, ad ogni buon conto, si legge che nell'«ultima fase del capitalismo, tuttavia, gli apparati di trasmissione (dell'ideologia dominante) diventano potenzialmente più efficienti con lo sviluppo dei mass media ed un sistema educativo compulsivo per la massa» (158; traduzione di chi scrive)], nonché S. Lukes, Il potere, cit., 160, 133, 161 (il quale, piuttosto, ritiene di dover insistere sul «potere di fuorviare» i giudizi, disapprovando altresì un'altrettanto famosa tesi di Marcuse, che - in realtà - procede di pari passo con quella sull'egemonia).

A mio parere, le obiezioni appena riportate non colgono interamente nel segno, servendo tutt'al più ad integrare - casomai, attenuandola - la prospettiva in esame. E, specificamente, non è ictu oculi contestabile come la moderna società industriale pretenda che «i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono», per «ridurre l'opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo» [H. Marcuse, L'uomo a una dimensione (1964), trad. it. a cura di L. Gallino e T. Giani Gallino, Torino 1967, 22]. Peraltro, ha un orizzonte limitato - in quanto suggestionata dal suo stesso oggetto - la critica di F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), in Id., Opere filosofiche, raccolta in vari voll. trad. it. con introduzione a cura di S. Giametta, vol. II, Torino 2003, 113, secondo cui la libertà primordiale e gli istinti brutali della stirpe umana sarebbero stati sconfitti dagli «schiavi della morale», che dagli Ebrei in avanti avrebbero assoggettato qualunque forma sociale alla «coscienza del gregge»: in senso ampio, la morale sarà pure da (e per le) pecore, non voglio proprio discuterne, ma essa viene sempre istituita dai... leoni. Quindi, come M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali3 (1919), trad. it. con introduzione a cura di A. Pupi, Milano 1975, risp. 47, 61 s., si può bensì osservare: che «l'opprimente coscienza della propria inferiorità» trova soluzione «nel tipico sviamento dei valori del risentimento»; che, se il risentimento non trova uno sfogo, porta al fenomeno della «rimozione»; che, in alcuni casi, questo «diventa un atteggiamento negativo di certi valori apparenti»; non già, però, che si «form(erebbe) così il fenomeno ... dell'odio di classe». A ben vedere, tal modello che può impiegarsi in concorso con l'altro, una volta depurato dai suoi elementi più ostici: il che, specialmente, vale per l'ultima considerazione, che è inammissibile in via di principio, l'odio di classe non rappresentando - normalmente - un esempio di «errore paranoico».

Ad ogni modo, è innegabile che - generalmente - «i poveri seguono i ricchi, o meglio le classi dirette seguono (placidamente) le dirigenti, ogni volta che sono imbevute delle stesse opinioni e credenze ed hanno un'educazione intellettuale e morale non troppo dissimile» (G. Mosca, Elementi, cit., 103).

(113) Anche perciò, dunque, si può fondatamente «dubitare che ne corso della storia umana ci sia stata una tendenza verso una maggiore libertà» del popolo: «il progresso stesso nei presupposti della libertà ... ha contemporaneamente creato i presupposti di un dispotismo dinamico e terribile» (B. Moore jr., Potere, cit., 159).

(114) Tra l'altro, la «scienza e la potenza umana in questo coincidono, che l'ignoranza della causa rende vano l'effetto. Poiché la natura si vince solo coll'obbedirle: e ciò che nell'osservazione ci appare come causa, nell'operare lo riteniamo come regola» [F. Bacone, Nuovo organo (1629), trad. it. con prefazione e commento a cura di A. Salani, IX ed., Firenze 1969, 30].

In proposito, è importante sottolineare che «la causa prima dei rivolgimenti nella vita moderna sta sempre nel crescente potere sulla materia fornitoci dalla scienza» (B. Russell, Il potere, cit., 43), chiarendo da subito - ad ulteriore conferma dell'impossibilità di distinguere pienamente fra «potere di» e «potere su»: cfr. retro, § 1, nei pressi della nota 11 ss. - che l'agire tecnico, il «potere di creare dati di fatto è veicolato dagli oggetti, e viene trasferito sui soggetti in una forma per così dire materializzata. Questo non significa che si tratti di un potere delle cose sulle persone - ... - ma di un potere della creatività e dei creatori, ... incorporato nella cosa dal suo creatore» (H. Popitz, Fenomenologia, cit., 23).

(115) J.F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), trad. it. a cura di C. Formenti, XVI ed., Milano 2005, 20.

(116) In tema, ad es., v. di nuovo M. Foucault, L'etica, cit., 284.

(117) In senso contrario, tuttavia, cfr. J.C. Burckhardt, Sullo studio della storia (1905), trad. it. con premessa a cura di M. Montinari, Torino 1958, 42 s., che, con riferimento ai rapporti tra lo Stato, la religione e la cultura, sostiene che le «tre potenze s(arebbero) tra loro estremamente eterogenee e non coordinabili, e anche se le due stabili - lo Stato e la religione - si possono in qualche modo allineare, la cultura (sarebbe) qualche cosa di essenzialmente diverso».

Ma, a parte il fatto che il principio totemico in ambito religioso «è la prima forma della nozione di forza», «il potere morale conferito dall'opinione e quello di cui sono investiti gli esseri sacri hanno in fondo una stessa origine e sono fatti degli stessi elementi ... // ... la società consacra le cose, e soprattutto le idee. Se una credenza è unanimemente condivisa da un popolo, allora è proibito - ... - attentare ad essa, cioè negarla e contestarla» [É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa (1912), trad. it. di C. Cividali riveduta da F. Remotti con introduzione a cura di R. Cantoni, III ed., Milano 1963, risp. 217, 227].

Il che, evidentemente, sfocia altresì nell'instaurazione (e mantenimento) di una certa costituzione, dato che la «creazione di una dottrina è ... uno dei primi passi sulla via che porta al potere» politico (B. Moore jr., Potere, cit., 17). Reciprocamente, pure in un sistema organizzato in modo completamente razionale, non si può eliminare o ignorare il potere de facto, anche sotto la semplice forma di una maggiore disponibilità di conoscenze: difatti, in «questo quadro, il potere di A su B dipende dalla prevedibilità del comportamento di B per A e dell'incertezza in cui B si trova intorno al comportamento di A» (M. Crozier, Il fenomeno, cit., 178).

(118) Sul punto, ad es., v. A. Kenny, Will, cit., 46 s.

(119) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), trad. it. con nota introduttiva a cura di M. Trinchero (con la collaborazione di R. Piovesan), IV ed., Torino 2009, 81.

(120) In tal senso, ad es., cfr. B. Russell, Il potere, cit., 148.

(121) Rinviando a quanto posto in rilevo supra, § 3b., nota 74, nel frangente occorre avvertire che i processi di legittimazione là ricordati, tranquillamente, possono essere applicati a tutti i domini del potere, e non solo a quello politico in senso stretto.

(122) In merito, fra gli altri, v. B. Flyvbjerg, Rationality and Power (1991), trad. ingl. a cura di S. Sampson, Chicago-Londra 1998, 97 s. (traduzione di chi scrive), dove si legge che sul «palcoscenico domina la razionalità, se niente altro come la razionalizzazione è presentata come la razionalità. Dietro le quinte, nascosti agli occhi del pubblico, sono il potere e la razionalizzazione a dominare».

(123) In questa direzione, ad es., cfr. sempre B. Russell, op. ult. cit., 153 s.

(124) Così, ad es., N. Luhmann, Potere, cit., 99 s.

(125) Peraltro, nella storia del pensiero occidentale, non solo la «verità dimostrativa» è stata sempre affiancata dalla «verità-evento», in cui il metodo scientifico viene sostituito da una strategia incentrata su folgorazioni illuminanti e relazioni intimamente bellicose; ma, in realtà, «la dimostrazione scientifica non è altro ... che un rituale», costruito sullo «zoccolo delle qualificazioni dell'individuo che conosce, ovvero sul sistema della verità-evento»; e, a partire dalla modernità, la verità dimostrativa ha assorbito ed «assoggettato» la verità-evento attraverso una specie d'iniziazione pedagogico-selettiva, posta in essere - di volta in volta - da «università, ... società scientifiche, ... insegnamento canonico, ... scuole, ... laboratori, ... meccanismo delle specializzazioni, quello delle qualificazioni professionali» (M. Foucault, Il potere, cit., risp. 210 ss., 221 s.).

(126) In tema, v. ancora N. Luhmann, Potere, cit., risp. 4, 55.

(127) G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese (1805-'06), trad. it. con introduzione a cura di G. Cantillo, Roma-Bari 1984, 130.

(128) In questo senso, si esprime ad es. C. Wright Mills, La élite, cit., 293.

(129) ... come rilevato, ex multis, da A. Costabile, Il potere, cit., 119.

Quindi, oggi più che mai, non può di certo convenirsi sulle valutazioni secondo cui, innanzitutto, il potere di manipolazione sarebbe distinto da quello tecnico - come controllo ed utilizzazione di conoscenze, nonché informazioni superiori - e, nello specifico, che queste sarebbero in linea di massima forme di «potere allo stato potenziale» (L. Gallino, voce Potere, cit., 886).

Sulla portata della globalizzazione, ad integrazione di quanto dedotto nel presente lavoro, mi sia concesso di rinviare una volta di più - almeno per i doverosi approfondimenti bibliografici - al mio Consuetudine, cit., 349 ss., in cui viene trattata pure la problematica del nuovo linguaggio politico, conseguentemente parametrato sui canoni del marketing.

(130) In termini, ad es., cfr. L. Gallino, op. e loc. ultt. citt.

(131) In tema, v. altresì M. Weber, Economia, cit., vol. II, 249 («Già il possesso come tale è fondamento di potenza oltre che la forma di potenza di mercato»).

Contra, si schiera una posizione che, incidentalmente, abbiamo già incontrato supra (§ 2, nota 39) e che, a dire il vero, annovera una notevole schiera di Autori: ex multis, cfr. però R. Aron, Macht, cit., 179 ss., in base al quale «la massimizzazione degli strumenti o mezzi della potenza non equiva(rrebbe) a quella della potenza stessa»; a contrario, inoltre, non varrebbe l'argomentazione facente leva sulla scarsità delle risorse, specialmente adesso, dove «il volume dei beni, limitato in un certo momento, aumenta istante dopo istante»; d'altro canto, mentre «la relazione di scambio tende, secondo il tipo ideale, verso l'uguaglianza, la relazione di potenza appare per essenza dissimmetrica e inegalitaria" e, attualmente, lo «stesso dominante ... non possede(rebbe) contemporaneamente le armi e il denaro».

Ora, che la quantità dei beni aumenti incessantemente non significa alcunché: difatti, da una parte, la scarsità delle risorse non per questo viene annullata, trattandosi di un concetto inerente ai bisogni dei luoghi e tempi in cui viene applicato; dall'altra, il punto è l'ineguaglianza nella distribuzione dei beni medesimi. Né, sotto quest'ultimo profilo, si può invocare in senso contrario il dogma della concorrenza perfetta [di A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni6 (1828; trad. it. con studio bio-bibliografico introduttivo a cura di V. Cousin), in Biblioteca dell'economista, serie I, vol. II, Torino 1852, part. 306 ss.]: difatti, la «mano invisibile» del mercato lo è veramente, non essendosi proprio mai... vista, a causa dell'insorgenza di monopoli o comunque di assetti oligopolistici. Allora, nel ritenere che il «potere economico, a differenza di quello militare, non è primario, ma derivato», sembra proprio avere ragione B. Russell, Il potere, cit., risp. 133, 141 s., deducendo sia che la «tendenza del potere economico a concentrarsi in pochi individui è ... vera per il potere in genere», sia che il «possesso del potere economico può condurre al possesso del potere militare e di propaganda, ma anche il processo opposto è altrettanto comune».

Opinando diversamente, peraltro, di solito si vuole rinnegare in toto la visione marxiana su infrastruttura e sovrastruttura sociale, secondo cui le «idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee» [così, K. Marx-F.Engels, L'ideologia tedesca (1845-'46), trad. it. di F. Codino con introduzione ed avvertenza a cura di C. Luporini, II ed., Roma 1967, 36, in cui per rapporti materiali, notoriamente, si intende forme e condizioni di produzione]. Invece, questa prospettiva va soltanto rettificata, «riconoscendo un certo grado di reciproca azione e reazione tra la sfera della produzione ed altre sfere della vita sociale» [J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia2 (1954), trad. it. a cura di E. Zuffi, Milano 1955, 10 ss.]. In altre parole, tutti i rimanenti tipi di potere sono «determinati, in ultima istanza, dal potere economico» (N. Poulantzas, Potere, cit., 137). Non si vuole certo contestare, cioè, che vi sia una circolarità dialettica tra i diversi piani d'azione sociale; tuttavia, resta innegabile che l'uomo, in quanto appartenente al regno animale, ha un'esistenza che è plasmata - basicamente - dall'istinto di conservazione: palesemente, cioè, le esigenze fisiche sono quelle primarie. Nulla di strano, quindi, nel considerare la vita umana come tesa, principalmente, alla conquista delle risorse materiali. Oltretutto, esse danno la possibilità di raggiungere qualsiasi altro obiettivo: il che, davvero, è incontestabile, tanto che persino F.A. von Hayek, Liberalismo (1978), trad. it. con premessa a cura di L. Infantino, Roma 1996, 100 s., ammette che «una qualsiasi forma di controllo economico, che conferisce potere sui mezzi, conferisce al tempo stesso potere sui fini».

Che la situazione sia questa, poi, è comprovato da quanto affermano gli avversari più autorevoli del suddetto pensiero. Insieme a B. Croce, Filosofia della pratica5, Bari 1945, 347 ss. (il quale, invero, giudica la «forma economica» essenziale per la concretezza dello spirito umano), v. lo stesso M. Weber, L'«oggettività», cit., risp. 79, 83, 63, 76, che, nel rifiutare decisamente la concezione materialistica «come denominatore comune di spiegazione causale della realtà storica» (poiché offre una «riduzione esclusiva ... non ... esauriente»), sostiene però che «rimane naturalmente vero che l'adesione dell'individuo a una certa intuizione del mondo è decisa anche, oltre che da altri elementi, e di sicuro in maniera molto elevata, dal grado di affinità che la unisce al suo "interesse di classe"», essendo tutti i fenomeni collettivi «"condizionati economicamente"».

In definitiva, fra le condizioni basilari che governano la disparità nelle relazioni sociali, accanto o subito dopo la forza stricto sensu, un ruolo principe viene appunto giocato dalla «distribuzione delle risorse nella comunità» (P.M. Blau, Exchange, cit., 140).

(132) H. Popitz, Fenomenologia, cit., 27.

(133) In tal senso, fra gli altri, cfr. F. Hunter, Community, cit., 102 s.

(134) Così, ancora M. Weber, Economia, cit., vol. I, 503, insistendo sul fatto che il potere del capitale «si manifesta esteriormente in una forma per lo più "indiretta", di modo che non si può afferrare il vero "detentore del potere"».

(135) Sul punto, insieme - ad es. - a B. Russell, Il potere, cit., 144, v. altresì G. Mosca, Elementi, cit., 60 («come il potere politico ha prodotto la ricchezza, così la ricchezza produce il potere»).

(136) In questa direzione, nel complesso, cfr. già C. Wright Mills, La élite, cit., cap. XII, §§ 2 e 3, risp. pp. 293, 298.

In sintesi, confermando che il «potere è una delle dimensioni fondamentali della stratificazione sociale» e che i suoi principali elementi sono quello politico e quello economico, il fatto è che - nella contemporaneità - esistono «apparati burocratici ... i quali ... rendono spesso difficile dire dove l'uno comincia e l'altro finisce» (L. Gallino, voce Potere, cit., 887). Modernamente, infatti, la spinta all'interdipendenza tra i diversi poteri - propria delle società complesse - «si è sviluppata attraverso due direttrici principali: quella impostata sul primato della politica e sulla politicizzazione dell'economia, che ha segnato lunghi decenni del Novecento sotto diversi regimi politici; quella fondata sul primato dell'economia e sull'economizzazione della politica, registrata soprattutto negli ultimi decenni del XX secolo e nei nostri anni» (A. Costabile, Il potere, cit., 60).

Ebbene, sulla scorta di quanto posto in risalto supra (nota 131), diventa pressoché ridicolo pensare al mondo globalizzato post-moderno come figlio della «morte delle ideologie» [contra, cfr. soprattutto F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo (1992), trad. it. a cura di D. Ceni, Milano 2003, passim]. Questa, casomai, è una meta-ideologia che ha contribuito, e pesantemente, a sedare la lotta di classe. Comunque, «quanto maggiore è la differenza tra la posizione giuridica politicamente e costituzionalmente garantita ... e gli effettivi rapporti di potenza, tanto maggiori sono le quantità di questa dinamite spirituale che si formano": ciò, paradossalmente o no, dovrebbe riguardare in maniera peculiare la società democratico-egalitaria occidentale che, in verità, è un «"sistema della concorrenza"» sbilanciata (M. Scheler, Il risentimento, cit., risp. 37, 44 s.).

(137) Sul punto, congiuntamente a V. Pareto, Compendio, cit., cap. IX, § 970 s., p. 450 s., v. altresì M. Weber, Economia, cit., vol. II, 247 s.

Ivi, anticipando un topos di Foucault (cfr. retro, nota 105), viene inoltre affermato che una «grande educatrice alla disciplina è la grande impresa economica», con particolare riferimento al capitalismo americano: qui, l'«apparato psico-fisico degli uomini viene ... pienamente adattato alle richieste che ad esso pongono il mondo esterno, lo strumento, la macchina, in breve la funzione» (vol. I, p. 469 s.).

(138) Contra, v. C.E. Lindblom, Politica e mercato (1977), trad. it. a cura di L. Aleotti, Milano 1979, 28 s.

(139) In merito, rievocando quanto posto in risalto supra (§ 3b., in corrispondenza della nota 95), si rifletta sul fatto che uno dei cardini del liberal-liberismo ottocentesco era l'«assunzione della proprietà privata come archetipo dei diritti di libertà» [così, A. Baldassarre, voce Libertà (problemi generali), in Enc. giur., vol. XIX, Roma 1990, 10, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, pure di tipo bibliografico].

Anzi, nel contesto, risuona l'affermazione per cui «dal punto di vista della libertà la proprietà, intesa come il primo esserci della medesima, è fine essenziale per sé» [G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), trad. it. con avvertenza e premessa a cura di G. Marini, V ed. recante le aggiunte di E. Gans trad. it. da B. Henry, Roma-Bari 2005, 53). Il che, in modo lampante, dimostra come sia poco peregrina l'identificazione tra libertà e potere, considerando che a quel tempo l'istituto della proprietà riecheggiava ancora i caratteri del dominium romanistico.

(140) ... eventualmente, mediante «un secondo schematismo ... interno al sistema (che) può essere utilizzato unicamente dagli iniziati» (così, complessivamente, N. Luhmann, Potere, cit., risp. 27 s., 56, 50 ss.).

(141) In termini, cfr. C.E. Lindblom, Politica, cit., 28, cui adde - ad es. - A. Zanfarino, voce Potere, cit., 608 s.

(142) D'altra parte, ciò implica che, nella ricerca empirica sul potere, tutti i criteri immaginabili - ove isolatamente utilizzati - si rivelano insufficienti: difatti, il metodo «posizionale» sconta il difetto per il quale «non è affatto detto che il P(otere) effettivo corrisponda alla posizione occupata formalmente»; invece, il metodo «reputazionale» ha una valenza di rinforzo, servendo casomai ad «individuare se e in quale misura esistano nella comunità fenomeni di P(otere) occulto»; infine, il metodo «decisionale» non tiene conto che «il processo decisionale non ha luogo nel vuoto, ma entro un determinato contesto organizzativo, fatto di istituzioni, regole del gioco e valori dominanti, che pre-selezionano le proposte ammissibili nel processo di decisione e imprimono un orientamento generale all'azione pubblica» (M. Stoppino, voce Potere, cit., 773 s.).

(143) Ricordando che il potere genera automaticamente una resistenza (v. supra, a cominciare dal § 1 nei pressi della nota 13), in tale ambito si può evidenziare che gli apparati serventi non sono soltanto una longa manus dei massimi detentori del potere politico, perché anche «entro le organizzazioni il potere produce contropotere» (N. Luhmann, op. ult. cit., 127).

Il che, se del caso, può condurre alla realizzazione di una variante del «colpo di Stato» [che, tecnicamente, individua quelle circostanze in cui i sovversivi desiderano lo stesso regime, «ma ... sotto il loro personale controllo»: Aristotele, Politica (metà del IV sec. a.C.), trad. it. a cura di R. Laurenti, V ed., Roma-Bari 2000, 154].

In ogni evenienza, pure a voler tralasciare un discorso prettamente giuridico (sul quale, per un accenno, cfr. retro, § 3c. in corrispondenza della nota 96), va comunque evidenziato che perfino un perfetto autocrate ha bisogno - sotto il profilo operativo - «di esercito, di forze di polizia, di esattori fiscali e di altri funzionari di secondo grado»; per cui, in sostanza, chiunque detenga potere può ritrovarsi alle prese con le brame di costoro e, particolarmente, «degli specialisti della conoscenza» (C.E. Lindblom, op. ult. cit., 130).

(144) Così, ad es., N. Poulantzas, Potere, cit., 141.

(145) In questa direzione, per tutti, v. C. Wright Mills, La élite, cit., 17.

(146) In termini, cfr. N. Luhmann, Potere, cit., 107 ss.

Data di pubblicazione: 14 marzo 2011.