Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 30 gennaio 2007, n. 341

FATTO

1. Il Consiglio di Amministrazione della RAI, d'intesa con l'Assemblea degli azionisti, con delibera adottata a maggioranza il 5 agosto 2005, nominava il dott. Alfredo Meocci direttore generale della società.

Nelle lettere di incarico veniva precisato che il conferimento delle funzioni di direttore generale si sarebbe dovuto inscrivere nel preesistente e tuttora vigente rapporto di lavoro, e che, alla cessazione delle medesime, al dipendente sarebbero state assegnate mansioni consensualmente ritenute equivalenti.

Con lettera del 13 settembre 2005 il Presidente della RAI, nel dare comunicazione all'AGCOM della nomina del dr. Meocci a D.G., chiedeva chiarimenti sulla questione della compatibilità del medesimo ai sensi dell'art. 2, IX comma, della l. n. 481/1995.

L'Autorità, in data 19 settembre 2005, chiedeva al Consiglio di Stato il parere circa la propria competenza e l'attivabilità d'ufficio della procedura per l'accertamento della fattispecie e per l'applicazione dell'eventuale sanzione; il Cons. Stato, Sez. I, in data 30 novembre 2005 rendeva il parere, affermando la competenza dell'AGCOM a procedere, anche d'ufficio.

Il Dipartimento Garanzie e Contenzioso, in data 27 dicembre 2005, redigeva verbale di accertamento, nei confronti della RAI e del ricorrente medesimo, per la violazione dell'art. 2, IX comma, della l. n. 481/1995; in pari data predisponeva la relativa contestazione, notificata il successivo 4 gennaio 2006.

Il Dipartimento ravvisava la violazione contestata non già nel fatto che il ricorrente, al termine dell'aspettativa per l'espletamento della funzione pubblica elettiva di commissario dell'Autorità, avesse ripreso il rapporto di lavoro alle dipendenze della RAI, ma nel fatto che avesse assunto la carica di direttore generale.

All'esito del procedimento l'AGCOM, nella seduta del 27 aprile 2006, adottava le ordinanze-ingiunzione, oggetto di gravame, recanti l'accertamento dell'incompatibilità del dr. Meocci nella carica di direttore generale, ordinando alla RAI il pagamento, a titolo di sanzione amministrativa, della somma di euro 14.379.307/00 ed al dott. Meocci il pagamento allo stesso titolo della somma di EURO 373.923,83, corrispondente a quanto da quest'ultimo percepito nel periodo preso in considerazione, al netto della retribuzione spettantegli in forza della preesistente qualifica di capo servizio.

Il Tribunale di prime cure ha respinto i due separati ricorsi proposti avverso i suddetti provvedimenti dalla Rai e dal Meocci.

I due originari ricorrenti propongono ora distinti appelli.

Si sono costituiti in giudizio l'Autorità e, con intervento ad opponendum, l'associazione utenti radiotelevisivi.

Le parti hanno affidato al deposito di apposite memorie l'ulteriore illustrazione delle rispettive tesi difensive.

All'udienza del 19 dicembre 2006 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

2. Ragioni di connessione oggettiva e soggettiva rendono opportuna la riunione dei due giudizi.

3. Meritano una preliminare delibazione le pregiudiziali censure che mettono sul tappeto, sotto varie angolazioni, problemi relativi alla competenza dell'Autorità.

3.1. Con un primo motivo, comune ad entrambi i gravami, le parti appellanti tornano a sostenere l'assunto dell'incompetenza dell'Autorità all'irrogazione della sanzione di che trattasi. Osservano, infatti, che né la l. n. 481/1995, né la l. n. 249/1997 stabiliscono espressamente l'organo competente ad accertare e sanzionare le violazioni al divieto posto dall'art. 2, IX comma, della l. n. 481 in tema di incompatibilità successive. Viceversa, il legislatore ha dettato precise disposizioni in merito alle competenze attribuite all'Autorità; sicché, in ossequio al principio ubi lex voluit dixit, si deve escludere che all'AGCOM sia normativamente riconosciuto alcun potere in ordine alla fattispecie in esame. Tanto più perché appare difficilmente immaginabile che l'Autorità possa sanzionare un suo ex componente, non facente più parte del suo ordinamento sezionale.

L'unica potestà sanzionatoria prevista dalla l. n. 481/1995 è, per converso, quella di cui all'art. 2, XX comma, per il caso di inosservanza dei propri provvedimenti, o di inottemperanza alle richieste di informazioni od a quelle connesse all'effettuazione di controlli, che nulla ha a che vedere con le questioni attinenti all'incompatibilità successiva.

Neppure la l. n. 249/1997 offre dati certi per radicare la competenza dell'AGCOM nella materia controversa.

Le competenze dell'Autorità sono enucleate dall'art. 1, VI comma, della legge da ultimo indicata.

Tra queste, la più conferente potrebbe apparire quella di cui all'art. 1, VI comma, lett. c), sub n. 14, ribadita al successivo comma ventunesimo; peraltro l'individuazione degli effetti del richiamo dell'art. 2 della l. n. 481/1995 non è operazione ermeneutica delle più semplici.

L'opzione interpretativa preferibile sembra essere quella per cui all'AGCOM spettano gli stessi poteri conferiti alle Autorità operanti in materia di servizi pubblici essenziali.

Peraltro, come premesso, l'art. 2, XX comma, lett. c), della l. n. 481/1995 non attribuisce una competenza generale all'Autorità in materia sanzionatoria; conseguentemente, il richiamo alla disposizione non vale a fondare una potestà sanzionatoria dell'AGCOM in caso di violazione dell'art. 2, IX comma, della l. n. 481/1995.

Non essendo riscontrabile una disposizione specifica in materia di competenza, pare che per default debba riconoscersi la competenza ministeriale; in tale senso rileva anche la previsione dell'art. 2, XIII comma, della l. n. 481/1995, che attribuisce il potere di comminare le sanzioni più gravi (sospensione e decadenza della concessione) al Ministro, sia pure su proposta dell'Autorità, e con un "diritto di insistenza" dell'Autorità, che determina la delibera della Presidenza del Consiglio. Ulteriore conferma della competenza ministeriale si ricava dalla disciplina di cui all'art. 52 del d.lgs. n. 177/1995 (Testo Unico della Radiotelevisione) ed all'art. 32 ter del d.lgs. n. 300/1999.

Il motivo non è fondato.

La Sezione osserva che, in assenza di disposizioni univoche, l'enucleazione della competenza deve affondare le sue radici sulla valorizzazione della ratio della potestà sanzionatoria. Come osservato dal Cons. Stato, Sez. I, con il parere n. 4008/2005, reso nell'adunanza del 30 novembre 2005, all'AGCOM, le sanzioni amministrative sono infatti poste a specifica tutela delle funzioni proprie di un'Amministrazione e degli interessi che la sua attività coinvolge; donde il corollario alla stregua del quale le sanzioni medesime devono essere comminate, in applicazione del principio generale che trova espressione nell'art. 17 della l. n. 24 novembre 1981, n. 689, dal soggetto pubblico "nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione".

Soccorre allora la ratio che sorregge l'art. 2, IX comma, della l. n. 14 novembre 1995, n. 481, data dalla duplice esigenza, per un verso, di evitare che l'esercizio della carica commissariale sia inquinato anche solo dal sospetto di future personali utilità; e, sotto altro profilo, dalla necessità di scongiurare il rischio che la peculiare esperienza e le relazioni maturate dai componenti delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità durante lo svolgimento dell'incarico possano essere utilizzate, dopo la cessazione dell'incarico stesso, da imprese operanti nei rispettivi settori al fine di trarne utili e vantaggi incompatibili con la trasparenza e la parità della competizione nel mercato. Ed infatti, le sanzioni, di entità ragguardevole, sono previste sia a carico degli ex componenti delle Autorità che a carico degli imprenditori che abbiano violato il divieto.

È pertanto concettualmente chiaro che la sanzione in esame è posta a tutela della delicata funzione svolta dall'AGCOM, la quale "opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione" (art. 1, I comma, della l. n. 31 luglio 1997, n. 249).

Ne consegue la configurabilità di un chiaro "nesso finalistico fra la norma assistita dalla sanzione amministrativa e le funzioni attribuite all'Autorità" (così, ancora, Cons. Stato, Sez. I, parere n. 4008/2005); e, in definitiva, la necessità logico-sistematica dell'ascrizione in capo all'Autorità del compito di assicurare, in sede di accertamento dell'incompatibilità e di adozione delle misure conseguenti, la tutela dei valori di autonomia, indipendenza, trasparenza e funzionamento corretto del mercato che sono il proprium della sua missione istituzionale.

Ne deriva che, pur non disconoscendosi il principio generale alla stregua del quale le norme di legge attributive di competenze sono affidate di massima a criteri di elencazione analitica piuttosto che a clausole generali fondanti un implied power, si deve convenire che nella specie, per le peculiari ragioni logico-sistematiche ora esposte, l'art. 2, comma 9, della l. 14 novembre 1995, n. 481, sancisce una specifica, ancorché non testuale, attribuzione di competenza in favore dell'AGCOM, idonea a sottrarre la fattispecie alla disposizione di chiusura recata dall'art. 32 ter del d.lgs. n. 300/1999.

3.2. Deve essere disattesa anche la censura di incompetenza assoluta dedotta dalla RAI, nell'assunto che sussisterebbe una preclusione per AGCOM a sindacare l'evoluzione del rapporto di lavoro del dr. Meocci a seguito della sua legittima riammissione in servizio alle dipendenze della RAI

La lettura del provvedimento gravato in prime cure consente infatti di affermare che la nomina a direttore generale del dr. Meocci è presa in considerazione dall'Autorità solamente come fattispecie violativa del divieto, gravante in capo agli ex componenti dell'AGCOM, di intrattenere qualsivoglia specie di rapporto professionale con le imprese operanti nel "settore di competenza". La misura amministrativa è quindi espressione della potestà pubblicistica (di vigilanza e sanzionatoria) prevista da una norma di diritto pubblico ispirata alla duplice esigenza prima rammentata e non si ammanta di contorni giuslavoristici di pertinenza esclusiva del giudice del lavoro. Anticipando osservazioni che saranno svolte successivamente in modo più compiuto, il nodo del contendere non tocca, infatti, il profilo giuslavoristico della coerenza dell'incarico con il rapporto di lavoro anteriore alla nomina presso l'Autorità né l'aspetto civilistico della configurabilità di detta progressione come meccanismo estintivo-costitutivo di stampo schiettamente novativo bensì il dato, eminentemente pubblicistico, della coerenza con il vetitum normativo del conferimento dell'incarico di direttore generale in seno ad una società sottoposta alla diretta vigilanza dell'Autorità.

3.3. Non coglie nel segno neanche l'ulteriore motivo svolto dalla Rai con il quale si affaccia un dubbio di competenza interna a provvedere, assumendo che questa avrebbe fatto capo, in base al generale criterio di distinzione tra funzioni di indirizzo e di gestione richiamato dall'art. 2, comma 10, della l. n. 481/1995, non all'organo consiliare bensì alla dirigenza dell'Autorità. Infatti, lo stesso art. 1 della l. n. 249/1997, dopo avere previsto che ai componenti dell'AGCOM si applicano le disposizioni dell'art. 2, commi 8, 9, 10 e 11 della l. n. 481/1995, contiene un'analitica enucleazione delle competenze dei propri organi collegiali, specificando, al sesto comma, sub lett. c), al n. 14, che il Consiglio "esercita tutte le altre funzioni e poteri previsti nella l. 14 novembre 1995, n. 481, nonché tutte le altre funzioni dell'Autorità non espressamente attribuite alla Commissione per le infrastrutture e le reti e alla Commissione per i servizi e i prodotti"

4. Con ulteriore profilo di censura, comune ad ambo gli appelli, si deduce la tardività della contestazione, in relazione al disposto dell'art. 14, comma 2, della l. 24 novembre 1981, n. 689.

Si osserva, in particolare, che la contestazione dell'addebito è intervenuta in data 4 gennaio 2006, e dunque ben oltre il termine di novanta giorni dall'accertamento dell'illecito; dies a quo previsto dall'art. 14, comma 2, della medesima l. n. 689, e da identificare, con riferimento alla vicenda in esame, al più tardi, nella data del 13 settembre 2005, alla quale risale la lettera del Presidente della RAI indirizzata al Presidente dell'AGCOM, finalizzata ad acquisire le valutazioni dell'Autorità stessa sul problema dell'incompatibilità del dr. Meocci.

Il mezzo è infondato.

L'arco di tempo entro il quale l'Amministrazione procedente deve provvedere alla notifica della contestazione ai sensi dell'art. 14 della l. n. 689 cit. è collegato, ai sensi di legge, non alla data di commissione della violazione ma al tempo di accertamento dell'infrazione. La giurisprudenza pacifica ha, a sua volta, inteso per data di accertamento, in una prospettiva teleologicamente orientata, non già la notizia del fatto ipoteticamente sanzionabile nella sua materialità ma l'acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita; conoscenza, a sua volta, implicante il riscontro, anche ai fini di una corretta formulazione della contestazione, dell'esistenza e della consistenza dell'infrazione e dei suoi effetti (Cass., Sez. I, 12 febbraio 2006, n. 469; 18 febbraio 2005, n. 3388; 4 febbraio 2005, n. 2363; Cass., Sez. lav., 8 agosto 2005, n. 16642; Cass., Sez. I, 18 febbraio 2005, n. 3388; Cass., Sez. lav., 3 luglio 2004, n. 12216).

Ne discende la non computabilità del tempo ragionevolmente occorso, in relazione alla complessità delle singole fattispecie, ai fini dell'acquisizione e della delibazione degli elementi necessari allo scopo di una matura e legittima formulazione della contestazione.

Trasponendo le coordinate ermeneutiche in parola al caso che occupa si deve mettere l'accento sulla circostanza fattuale della richiesta rivolta al Consiglio di Stato da parte dell'Autorità, in data 19 settembre 2005, ai fini dell'acquisizione di parere sulla competenza ad irrogare le sanzioni previste dall'art. 2, IX comma, della l. n. 481/1995; parere poi reso in data 16 dicembre 2005.

Prendendo le mosse da tale dato storico il Collegio di prime cure ha correttamente rimarcato che la complessa, opinabile e nuova questione giuridica concernente l'individuazione del soggetto munito di potestà sanzionatoria, di cui sopra si è detto (par. 3), consente di ritenere tutt'altro che dilatoria la richiesta di parere; e, per conseguenza, non computabile, ai fini di cui al comma 2 dell'art. 14 della citata l. n. 689, il tempo occorso ai fini della relativa evasione.

La coerente applicazione del citato art. 14 della l. 689 (così come dell'art. 4 del regolamento dell'Autorità sulle procedure sanzionatorie) porta poi ad includere, nell'alveo delle indagini necessarie ai fini dell'elevazione della contestazione, anche, e a maggior ragione, l'accertamento, per definizione pregiudiziale, in merito al radicamento della competenza all'esercizio della potestà sanzionatoria. Se si considera che l'incompetenza a provvedere implica anche l'incompetenza a procedere - in guisa da escludere, in assenza di norma puntuale, l'emersione di una competenza alla contestazione di tipo per così dire avulso o solitario - appare allora del tutto coerente con il sistema normativo che l'autorità abbia atteso lo scioglimento del nodo gordiano della sussistenza del potere prima dell'avvio della procedura. D'altronde, lo stesso richiamo giurisprudenziale al principio della non decorrenza del termine per il tempo necessario ai fini della "corretta formulazione della contestazione" non può che essere inteso nel senso che la contestazione, dotata di una sua valenza sostanzialmente afflittiva, non può per definizione essere corretta, siccome affetta da un vizio più radicale in quanto pregiudiziale, ove mossa da un organo privo della potestas decidendi.

Ne deriva che, anche a tenere in non cale la natura permanente dell'illecito (arg. ex art. 158, comma 1, c.p.), l'avvio della procedura è risultato tempestivo se solo si considera che, pervenuto il parere il 16 dicembre 2005, l'accertamento formale del direttore del Dipartimento garanzie e contenzioso è intervenuto con processo verbale del 27 dicembre 2005 (e dunque a distanza di circa dieci giorni) e l'atto di contestazione, coevo, è stato notificato il successivo 4 gennaio 2006.

5. Si può ora passare all'esame delle censure che riguardano il profilo di merito dell'esistenza o meno della causa di incompatibilità accertata con i provvedimenti impugnati in prime cure.

Le articolate censure svolte dalle parti appellanti non colgono nel segno.

Occorre preliminarmente rimarcare che oggetto del giudizio innanzi all'Autorità, così come nella presente sede giurisdizionale, non è la legittimità dell'ipotetica (e non venuta in essere) riassunzione, da parte del Meocci, delle medesime funzioni assolte anteriormente alla nomina commissariale (rispetto alle quali era intervenuta nell'anno 1998 la collocazione in aspettativa) bensì l'effettiva assunzione della carica di direttore generale della Rai-Radiotelevisione s.p.a.

Tale essendo l'oggetto esclusivo del giudizio, si appalesano non pertinenti le ricostruzioni offerte dalle difese delle parti appellanti a dire delle quali, una volta data per pacifica la legittimità del rientro in azienda del dott. Meocci nella veste originaria, non sarebbero configurabili, sul versante insieme costituzionale, civilistico e giuslavoristico, limiti all'espansione delle potenzialità di carriera del dipendente. E tanto specie in una situazione nella quale emerge con chiarezza la volontà delle parti di plasmare il nuovo incarico in termini di continuità rispetto alla precedente configurazione del rapporto di lavoro, sì da escludere la ricorrenza dell'animus novandi e, con essa, la matrice novativa dell'operazione per difetto dell'elemento soggettivo ex art. 1230, comma 2, c.c.

La prospettiva deve essere invece ribaltata, atteso che al vaglio del Collegio non è sottoposta la (invero mai realmente acclarata) liceità della riassunzione dell'originaria posizione lavorativa bensì la sola tematica della sussumibilità, nel raggio di azione della disciplina sull'incompatibilità, dell'attribuzione al dipendente di un'azienda sottoposta alla vigilanza dell'Autorità, una volta cessata la carica commissariale, della veste di direttore generale dell'azienda medesima.

La risposta , ad avviso del Collegio, non può che essere negativa.

L'art. 2, comma IX, della l. n. 481/1995 stabilisce che "per almeno quattro anni dalla cessazione dell'incarico i componenti delle Autorità non possono intrattenere, direttamente od indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese operanti nel settore di competenza".

La lettera della norma nella sua ampiezza, riguarda anche il conferimento dell'incarico di direttore generale, senza distinguere a seconda che si tratti di soggetto già legato, o meno, da un rapporto di lavoro con l'impresa operante nel settore.

Si è già osservato che la duplice ratio di tale norma risiede, da un lato, nell'esigenza di evitare che l'esercizio della carica sia inquinato anche solo dal sospetto di future utilità personali, e, dall'altro, nella volontà di scongiurare l'eventualità che la peculiare esperienza e le relazioni maturate dai componenti delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità durante lo svolgimento dell'incarico possano essere utilizzate, dopo la cessazione dell'incarico stesso, da imprese operanti nei rispettivi settori al fine di trarne utili e vantaggi incompatibili con la trasparenza e la parità della competizione nel mercato. Ed infatti, le sanzioni, di entità ragguardevole, sono previste sia a carico degli ex componenti delle Autorità che a carico degli imprenditori che abbiano violato il divieto.

Tale ratio ricorre, con chiarezza paradigmatica, nel caso di specie.

Il conferimento dell'incarico manageriale relativo alla conduzione generale dell'azienda assume infatti una connotazione, al tempo stesso, spiccatamente premiale a vantaggio dell'incaricato e fortemente strategica per gli interessi dell'azienda: lo spessore premiale incarna la prima ratio dando corpo al rischio (sul piano di quell'apparenza che la norma, pure, vuole dissipare) che l'attività commissariale sia stata espletata in modo da essere piegata a vantaggio dell'azienda vigilata (oltretutto uno dei due competitori dominanti nel mercato televisivo analogico) onde porre le basi per una gratificazione sinallagmatica successiva; il ruolo strategico rivestito dal direttore generale dà invece corpo al secondo timore che la norma sull'incompatibilità vuole fugare, vista la possibilità che, nella veste apicale di direttore generale, l'ex componente dell'Autorità sfrutti, a vantaggio dell'azienda, il patrimonio di esperienze e conoscenze accumulato nel corso dell'espletamento dell'incarico collegiale, sì da realizzare, a favore dell'azienda già vigilata, quel vantaggio competitivo di stampo distorsivo che la statuizione di legge vuole appunto fronteggiare.

Nella prospettiva fin qui tracciata perdono consistenza le eleganti dispute, sul versante civilistico e giuslavoristico, circa la caratterizzazione novativa o continuativa dell'incarico di direttore generale rispetto alla precedente qualifica di giornalista capo- servizio rivestita dal dott. Meocci.

Si deve infatti osservare, in primo luogo, che il provvedimento non ha accertato l'ammissibilità della riassunzione della posizione originaria con la conseguenza che il rapporto tra il nuovo ed il vecchio incarico non assume rilievo decisivo, restando impregiudicata la questione se la conservazione del posto di lavoro garantita con la collocazione in aspettativa debba riverberarsi nel congelamento dello stesso (ossia conservazione in senso statico) per quattro anni ovvero nella concreta riassunzione in termini effettivi della funzione. In ogni caso, ove pure, per ipotesi, si intendesse abbracciare un'interpretazione garantistica e costituzionalmente orientata tesa a favorire la riassunzione della posizione primigenia, la legittimità della nomina come direttore generale andrebbe nondimeno scrutinata non in base a coordinate civilistiche e giuslavoristiche bensì alla stregua di parametri di stampo essenzialmente pubblicistico legati alla finalità che la norma applicata, in una con i provvedimenti attuativi gravati nel corso del presente contenzioso, intende perseguire.

In questa prospettiva perde, allora, consistenza la disputa sulla natura civlisticamente novativa o meno del conferimento del ruolo di direttore generale, assumendo invece rilievo cardinale il punto della sua compatibilità con le esigenze pubblicistiche che animano la previsione di legge in esame. Una diversa impostazione, che desse credito al problema della natura novativa del rapporto, e pertanto alla volontà (in senso novativo o meno) espressa dalle parti in sede di conferimento dell'incarico, sortirebbe il risultato inammissibile di rimettere all'esplicazione dell'autonomia privata la decisione circa la sussistenza della causa di incompatibilità; e, quindi, di far dipendere dalla volontà dei destinatari della norma vetitoria la sua concreta applicabilità, con una non tollerabile soggezione a logiche privatistiche degli interessi pubblici di primario rango costituzionale perseguiti dalla norma di cui si discorre e, soprattutto, con il sovvertimento del principio opposto della subordinazione, ex art. 1418, comma 1, c.c. del giuoco dell'autonomia pattizia alle norme imperative quale è, senz'altro, da intendersi la norma qui in rilievo.

Riportata la tematica nel suo alveo schiettamente pubblicistico, si deve allora convenire che la nomina al vertice strategico aziendale assume una valenza così spiccatamente premiale e sostanzia un'evoluzione così straordinaria della carriera giornalistica (sui crinali dell'inedita apicalità, della diversità funzionale, dell'accessibilità agli esterni, della specificità del procedimento di investitura e della profonda diversità del trattamento economico) da concretizzare, in modo scolastico, i rischi che la norma vuole scongiurare sotto il duplice, e più volte rammentato, profilo del sospetto di strumentalizzazione a monte e del rischio di sfruttamento distorsivo a valle della veste di commissario dell'Autorità. Posto, infatti, che la veste di giornalista non costituisce un prius necessario e neanche omogeneo per l'accesso alla carica manageriale verticistica (non riservata ai soli dipendenti interni), ponendosi rispetto ad essa in un rapporto di occasionalità non necessaria, si deve infatti reputare che la nomina a direttore generale non assume una valenza conservativa o ripristinatoria ma riveste quel carattere spiccatamente innovativo o premiale che sostanzia il fondamento della norma preclusiva.

6. Le considerazioni fin qui svolte consentono di confutare i dubbi di costituzionalità sollevati, anche in sede di appello, sulla norma di cui all'art. 2, comma 9°, della l. n. 481/1995, in relazione ai referenti costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 4 e 51 della Carta Fondamentale.

È manifestamente infondato, in primo luogo, il dubbio che fa leva sulla pretesa violazione dell'art. 3 della Costituzione, in relazione al trattamento deteriore che subirebbero i componenti dell'AGCOM rispetto a quelli di altre Authorities (ed in particolare di quelli dell'Autorità Garante della Concorrenza), sottoposti ad un regime di incompatibilità solo in costanza di mandato. A tale sospetto è agevole, infatti, replicare che il modello delle Authorities riflette uno schema generale ed astratto che si cala in organismi profondamente eterogenei, sotto i profili dei settori, dei compiti, dei poteri, e dello stesso tasso di indipendenza. Ne deriva, in linea di principio, l'insindacabilità della scelta discrezionale posta in essere dal legislatore in funzione di un tertium comparationis eterogeneo. Si deve, poi soggiungere che i compiti dell'AGCOM trascendono le funzioni di mera vigilanza e concernono la regolazione di un settore di particolare sensibilità ove vene in rilievo la salvaguardia del valore costituzionalmente primario del pluralismo; donde la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalità del legislatore nel senso della predisposizione di un regime di incompatibilità successiva rigoroso, tanto più perché circoscritto ad un solo limitato settore di attività.

La Sezione reputa manifestamente infondati anche i dubbi che fanno leva sul carattere eccessivo ed ingiustificato del divieto, irragionevolmente compressivo del "diritto al lavoro", come pure della relativa sanzione, in violazione degli artt. 3, II comma, e 4 della Carta costituzionale.

Si deve rammentare, una volta ancora, che il regime di incompatibilità, secondo quanto evidenziato anche dal Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere n. 3314/03, è posto a garanzia dell'effettività della previsione dell'art. 2, V comma, della l. n. 481/1995, alla stregua del quale "le Autorità operano in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione" (norma poi ribadita dall'art. 1, I comma, della legge istitutiva dell'AGCOM). La particolare pregnanza dei valori costituzionali protetti, afferenti alla primaria tutela del pluralismo informativo e dell'imparzialità amministrativa in settori sensibili, conduce allora al precipitato della non sindacabilità di una scelta legislativa volta a sintetizzare valori costituzionali contrapposti, dando la stura ad una limitata compressione del diritto al lavoro in vista della tutela di essenziali interessi pubblici anch'essi di respiro costituzionale.

I confini temporali della compressione del diritto al lavoro ed alla carriera conoscono, poi, una cornice temporale (quattro anni) che non risulta sovrabbondante, se comparativamente ponderata con gli interessi pubblici perseguiti.

Per le stesse ragioni non sembra vulnerato il diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di assolvimento di funzioni pubbliche elettive, ex art. 51 Cost.; e tanto, specie se si pone mente al caso in esame, nel quale la norma è stata applicata al solo fine di stigmatizzare una progressione lavorativa straordinaria onde posticiparla al decorso di un torno di tempo che si è visto essere non incongruo.

Infine, la stessa cornice sanzionatoria, come si vedrà in seguito, non risulta sproporzionata se traguardata in rapporto alla valenza costituzionale degli interessi pubblici tutelati.

7. Sono infondate anche le censure con le quali le parti appellanti contestano il provvedimento sanzionatorio impugnato in prime cure nella parte in cui è stata riconosciuta la sussistenza dell'elemento soggettivo.

La Sezione reputa, in primo luogo, che l'esame complessivo della motivazione offerta dall'amministrazione consenta di avere contezza del corretto iter logico-giuridico posto a sostegno della determinazione finale assunta al riguardo.

Il Collegio condivide, poi, l'assunto sostenuto dal Primo Giudice secondo cui l'accertamento dell'elemento soggettivo in capo alla Rai ed al dott. Meocci non può essere condotto in via disgiunta, valorizzando oltremodo la distinzione tra proponente e preposto ad un ufficio.

E tanto sulla scorta di entrambi gli argomenti esposti nella sentenza gravata.

Il primo concerne il fondamento della sanzione ex art. 2, IX comma, della l. n. 481/1995 che, come più volte rimarcato, mira ad evitare tanto che l'esercizio del munus di commissario dell'AGCOM sia inquinato dal sospetto di future personali utilità, quanto che l'esperienza e le relazioni maturate nella veste di componente possano essere utilizzate, dopo la cessazione dell'incarico, da imprese operanti nel settore al fine di trarre utili indebiti. Ne deriva la natura bilaterale della sanzione, che colpisce sia il componente dell'Autorità che non si sia astenuto dall'intrattenere, nell'arco del quadriennio successivo alla cessazione dall'incarico, rapporti professionali con le imprese operanti nel settore di competenza, sia l'imprenditore che abbia violato tale divieto, prefigurando una illecito strutturalmente e necessariamente plurisoggettivo. Con la conseguenza di non potersi procedere, a pena di un'evidente contraddizione sistematica, ad un accertamento differenziato dell'elemento soggettivo in capo all'ex commissario ed all'impresa.

Si deve soggiungere che la nomina a direttore generale presuppone il consenso informato del candidato anche in ordine ai potenziali rischi di incompatibilità.

Tanto premesso, una pluralità di elementi univoci, in buona parte evincibili dal tessuto argomentativo posto a corredo delle statuizioni impugnate, suffragano l'assunto della ricorrenza dell'elemento soggettivo; e, a fortiori, escludono la ricorrenza degli estremi dell'errore scusabile o dell'ignoranza invincibile al fine di vincere, in una prospettiva comunitariamente orientata, la presunzione di colpevolezza posta dall'art. 3 della l. n. 689/1981, come interpretato dalla giurisprudenza (Cass., sez. lav., 23 agosto 2003, n. 12391).

Va, in prima battuta, rimarcato che la formulazione letterale della norma sull'incompatibilità e, soprattutto, la ratio sostanziale che la anima, escludono ogni ragionevole dubbio circa la relativa applicabilità al caso di specie: l'attribuzione di un incarico apicale nell'organizzazione di uno dei due operatori dominanti sottoposti alla vigilanza del Garante nel campo televisivo, concretizza anzi, come osservato in precedenza, una situazione addirittura paradigmatica in cui si realizza quel duplice rischio di strumentalizzazione a monte e sfruttamento a valle del ruolo commissariale che è alla base di una disciplina posta a tutela di primari valori costituzionali.

La qualificazione professionale dell'azienda e del dott. Meocci escludono, poi, in radice, la ricorrenza di un profilo soggettivo di inesperienza o asimmetria informativa capace di sostanziare, nella prospettiva abbracciata dall'art. 5 c.p., una situazione di ignoranza invincibile; e anzi impongono a detti soggetti una conoscenza approfondita ed un'applicazione non superficiale di una disciplina di primario rilievo in subiecta materia.

A non diverso approdo possono condurre i pareri legali assunti nel corso della procedura da liberi professionisti interpellati sulla questione dell'incompatibilità; piuttosto, la caratterizzazione non convergente delle consulenze nell'escludere l'incompatibilità mette in luce una situazione (quanto meno) di dubbio irrisolto che, in base alla pacifica giurisprudenza penale, esclude l'applicazione dell'esimente dell'errore di fatto ex art. 47 c.p. così come di quella dell'errore di diritto ex art. 5 c.p. (come inciso, quest'ultimo, dalla sentenza additiva 24 marzo 1988, n. 34 [recte: n. 364 - n.d.r.] della Consulta).

Le medesime ragioni (chiarezza della norma, ricorrenza di una situazione che ne fotografa un caso emblematico di applicazione, professionalità dei soggetti, persistenza, a tutto concedere, di un margine cospicuo di dubbio anche all'esito dei pareri legali all'uopo sollecitati) non consentono, poi, di annettere rilievo scusante alla circostanza che in ordine alla nomina abbia espresso il proprio consenso, nella qualità di azionista della RAI, il Ministero dell'Economia. Si deve ricordare, sul punto, che, nella prospettiva penalistica, è ascrivibile un ruolo decisivo, quale fattore idoneo ad ingenerare un affidamento incolpevole, alle sole informazioni provenienti da un soggetto istituzionalmente destinato a giudicare sui fatti da realizzare (in termini vedi anche Cass., Sez. I, 26 ottobre 2004, n. 20776).

8. Si può ora passare all'esame delle censure di carattere procedimentale e formale.

8.1. In primo luogo vanno scrutinati i motivi di appello con i quali si contesta l'utilizzo del voto palese per la delibera sull'incompatibilità del dr. Meocci, in contrasto con la normativa vigente, che richiede, in linea di principio, il voto segreto per questioni riguardanti persone determinate; e senza che sia stata esaminata la richiesta di alcuni Commissari di procedere a voto segreto.

Anche tali censure devono essere confutate.

Quanto al profilo da ultimo esposto, si evince dal verbale del 27 aprile 2006 che nessuno dei componenti dell'organo ha chiesto di sottoporre a voto la questione del metodo (palese o segreto) della votazione sulla incompatibilità, né si è addivenuti ad una votazione implicita sul punto.

La prospettazione in ordine all'opportunità del ricorso al voto segreto, introdotta nel corso della discussione dal prof. Mannoni, non si è infatti tradotta nella formulazione di una vera e propria proposta né, tanto meno, nell'articolazione di una richiesta rituale da sottoporre al vaglio del collegio. L'esame degli atti consente di ricavare, al riguardo, che, a seguito della posizione del problema, si è sviluppato un ampio ed articolato dibattito all'esito del quale non è stata formulata alcuna rituale richiesta di sottoporre la questione delle modalità di voto allo scrutinio del collegio.

La sottoposizione della decisione a voto palese costituisce, d'altro canto, applicazione coerente dei principi generali e delle coordinate normative in subiecta materia.

L'art. 10, comma 2, del regolamento di funzionamento dell'AGCOM, di cui alla delibera n. 316/02/CONS del 9 ottobre 2002, stabilisce, infatti, che "il voto è sempre palese; in casi eccezionali e motivati l'organo collegiale può deliberare a scrutinio segreto".

La deroga a tale regola non può essere argomentata, in modo cogente, dalla supposta ricorrenza di una deliberazione concernente una persona o involgente questioni di coscienza. L'oggetto primario della valutazione non era, infatti, un apprezzamento discrezionale relativo alla qualità di una persona ovvero una ponderazione comparativa di candidature o posizioni ma la questione, in sé oggettiva e strettamente giuridica, dell'interpretazione della normativa vigente in punto di compatibilità. La caratterizzazione essenziale dell'oggetto della votazione, in una con la disciplina regolamentare che stabilisce la regola del voto palese, depone quindi per la correttezza della decisione del Presidente di non seguire la procedura del voto segreto. E tanto specie se si consideri che nella specie non era stata formulata una espressa richiesta in tale ultimo senso onde derogare al modulo procedurale ordinario. A fronte ad una previsione regolamentare, che non può ritenersi illegittima in quanto non esclude ma sottopone a particolari cautele la possibilità del voto segreto, si deve, infatti, convenire che all'uopo occorreva una formale richiesta dei componenti interessati, sulla quale il Collegio doveva deliberare in modo motivato onde derogare alla regola generale.

8.2. Si può ora passare all'esame del motivo di appello con cui si lamenta che, nella seduta consiliare del 27 aprile 2006, si sarebbe proceduto all'approvazione di uno "schema di provvedimento" mentre la stesura finale dell'atto sarebbe stata rimessa agli uffici di supporto, in violazione delle norme regolamentari, oltre che dei principi generali che presiedono all'adozione dei provvedimenti di organi collegiali.

L'infondatezza del motivo esime il Collegio dall'approfondimento della questione relativa alla sua ammissibilità sotto il profilo dell'interesse.

Dal verbale del 27 aprile 2006 si evince che, prima della votazione, è stata rappresentata, in modo unanime, l'esigenza che i provvedimenti fossero sottoposti a revisione tecnica (cfr. pag. 8); quindi, all'esito delle operazioni di voto, il Consiglio ha incaricato gli uffici di procedere, con il supporto del servizio giuridico, alla revisione tecnica degli schemi di provvedimento presentati, come concordato (pag. 9).

Tale revisione tecnica si è tuttavia limitata all'affinamento di un testo completo nella motivazione e puntuale nel dispositivo, sul quale la volontà dell'organo collegiale si è ritualmente e compiutamente manifestata non solo con la decisione di applicare la sanzione ma anche con la fissazione, fin nei decimali, del relativo importo. Le correzioni, di stampo meramente accessorio a fronte di una potestà spesa in modo esauriente sul versante dell'an come sul piano del quantum, non hanno, quindi, inciso sulla portata sostanziale della deliberazione. Risulta pertanto esclusa, in radice, la paventata, indebita, supplenza degli uffici tecnici rispetto alla potestà decisionale dell'organo deliberante.

In questa cornice non è allora pertinente il richiamo operato in sede di appello ad una presunta nullità del provvedimento ex art. 21 septies della legge generale sul procedimento amministrativo per difetto dell'elemento costitutivo della volontà, venendo in rilievo appunto una mera revisione formale della parte motiva del provvedimento, preventivamente autorizzata dall'organo collegiale e non abbisognante di un'ulteriore approvazione da parte del medesimo.

La diversità ontologica della funzione legislativa rispetto alla competenza amministrativa, rende poi ragione della non fondatezza della richiamata estensione all'attività amministrativa dei principi e delle regole che, in coerenza con il suo spiccato tasso di sensibilità, governano il settore del coordinamento normativo.

8.3. Con un ulteriore motivo di gravame ci si duole della sottoposizione, nella seduta del 27 aprile 2006, della delibera a singole votazioni parziali - concernenti partitamente la declaratoria di incompatibilità, la relativa decorrenza e l'approvazione dello schema di provvedimento - con conseguente alterazione del processo formativo della volontà collegiale ed artificiosa frammentazione del momento decisionale. Si sottolinea, in particolare, l'incoerenza di detta frammentazione delle votazioni finali a fronte dell'impostazione unitaria seguita nel corso della discussione collegiale. Tale scissione ha poi innescato anche una variazione della composizione dell'organo decidente, visto che una parte dei commissari ha abbandonato l'aula dopo la prima votazione.

Anche tale doglianza è infondata.

La Sezione non ravvisa, invero, alcun profilo di irragionevolezza nella descritta scansione delle proposte di votazione.

La suddivisione degli argomenti (dichiarazione di incompatibilità, decorrenza della medesima, ed infine "schema di provvedimento") risulta, infatti, funzionale alla più attenta valutazione di una fattispecie complessa che aveva registrato posizioni eterogenee nel corso del dibattito collegiale. Se si considera che ognuna delle parti sottoposte a votazione separata aveva una propria autonomia, si deve convenire che il Presidente ha utilizzato in modo corretto la sua prerogativa di stabilire, una volta esaurita la discussione, un ordinato andamento della fase della votazione onde garantire, vista la complessità delle tematiche sul tappeto, la piena corrispondenza tra il contenuto della deliberazione, la volontà collegiale esplicitata attraverso il voto e le posizioni manifestate dai singoli componenti del collegio nel corso del dibattito. Né si appalesa censurabile la circostanza che detta disarticolazione sia stata stabilita all'esito della discussione, visto che proprio l'analisi delle considerazioni esposte dai componenti del Collegio consente di valutare appieno quali siano i temi controversi e, quindi, le più appropriate procedure per il relativo scrutinio.

Si aggiunga che nessuna alterazione del processo decisionale può essere desunta dalla mancata partecipazione alla votazione sull'applicazione della sanzione di taluni commissari, che hanno lasciato la sala dopo il primo voto sulla incompatibilità, nel quale erano finiti in minoranza.

8.4. È poi infondato anche il motivo con il quale si deduce l'illegittimità del provvedimento impugnato per essere lo stesso sottoscritto dal Presidente e dai due Commissari relatori, uno dei quali (il prof. Mannoni) aveva peraltro abbandonato la seduta dopo la votazione sulla declaratoria di incompatibilità.

Non appare, infatti, condivisibile l'assunto, che sostiene la censura, secondo cui la mancata partecipazione del relatore all'intera seduta metterebbe a repentaglio l'integrale riferibilità della delibera al relatore.

Osserva sul punto il Collegio che la titolarità dell'organo compete al collegio come tale e non i singoli suoi componenti, con la conseguenza che l'assenza del relatore dopo la prima votazione non pone un problema di solo parziale paternità dell'atto.

Si deve soggiungere che, ai sensi dell'art. 29 della delibera n. 316/02/CONS del 9 ottobre 2002, il Presidente designa, di regola al termine di un procedimento (istruito dagli uffici), un relatore ai fini della trattazione; "il relatore, sulla base delle proposte trasmesse dagli uffici, introduce la fase della discussione, formulando e illustrando le proprie conclusioni".

La funzione del relatore è quindi solo quella di introdurre la discussione collegiale, formulando ed illustrando le proprie conclusioni sulle proposte trasmesse dagli uffici. Detta funzione risulta indubitabilmente assolta dal prof. Mannoni, come si evince dai relativi verbali, senza che possa assumere rilievo contrario il suo successivo allontanamento dalla sala, peraltro non accompagnata dalla rinuncia all'incarico di relatore. Risulta quindi corretta la sottoscrizione del provvedimento da parte di un relatore che ha assolto appieno all'incarico senza manifestare alcuna volontà abdicativa.

Il principio utile per inutile non vitiatur rende in ogni caso irrilevante la circostanza della ritualità della sottoscrizione ai fini dell'apprezzamento della validità della deliberazione.

9. Infondate sono infine le censure relative all'entità delle sanzioni irrogate.

Giova rammentare che, ai sensi dell'art. 2, comma 9, della l. n. 481/1995, la violazione del divieto in esame è punita, salvo che il fatto costituisca reato, con una sanzione pecuniaria pari, nel minimo, alla maggiore somma tra 50 milioni di lire e l'importo del corrispettivo percepito e, nel massimo, alla maggiore somma tra 500 milioni di lire e l'importo del corrispettivo percepito. All'imprenditore che abbia violato tale divieto si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari allo 0,5 per cento del fatturato e, comunque, non inferiore a 300 milioni di lire e non superiore a 200 miliardi di lire, e, nei casi più gravi o quando il comportamento illecito sia stato reiterato, la revoca dell'atto concessivo o autorizzativo. I valori di tali sanzioni sono rivalutati secondo il tasso di variazione annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati rilevato dall'ISTAT.

Le sanzioni non sono quindi strutturate in modo non fisso ma seguono una banda di oscillazione in base a criterio legislativo non irragionevole rispetto alla rilevanza costituzionale degli interessi tutelati.

In particolare, la scelta legislativa di ancorare la soglia minima di afflizione alle concrete dimensioni dell'azienda appare ispirata dall'esigenza di assicurare un'afflittività reale e, quindi, di non depotenziare il precetto normativo sul versante della deterrence.

Lo stesso è a dirsi per i canoni legali che fissano il minimo edittale per l'ex componente dell'Autorità.

L'applicazione in concreto effettuata dall'Autorità risulta poi rispettosa dei parametri legali e sorretta da una puntuale esplicitazione dei criteri in concreto seguiti.

In ordine alla specifica posizione del dott. Meocci, si deve precisare che la sanzione non è stata determinata nella misura del massimo edittale, in quanto "corrispettivo percepito", in assenza di alcun indice sintomatico dell'eccesso di potere, è stato considerato non già l'intero trattamento connesso alla carica di direttore generale, ma solo le differenze stipendiali tra tale trattamento e quello (che il ricorrente avrebbe avuto titolo a percepire) di giornalista capo-servizio.

10. Le considerazioni fin qui esposte impongono la reiezione dei riuniti appelli.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo già pubblicato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riunisci i ricorsi in epigrafe specificati e li respinge.

Condanna in solido le parti ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano in complessivi euro 21.000 (ventunomila) da devolvere per due terzi in favore dell'Autorità e per la restante parte in favore dell'associazione intervenuta.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

L. Di Muro, G. Correale (curr.)

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