Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 13 gennaio 2017, n. 7680

Presidente: Fiale - Estensore: Ramacci

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza del 17 marzo 2016 ha confermato la decisione con la quale, in data 28 novembre 2014, il Tribunale di Como aveva affermato la responsabilità penale di Massimiliano L. in ordine al reato di cui all'art. 8, comma 3, l. 4 aprile 1956, n. 212, perché, in occasione delle elezioni del sindaco e del consiglio comunale di Brienno, aveva affisso adesivi di una lista della quale era candidato fuori dagli spazi appositamente destinati alla propaganda (In Brienno il 4 maggio 2012).

Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge in ordine alla mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.

Formulate alcune osservazioni sui contenuti delle deposizioni testimoniali assunte nel corso del giudizio di primo grado, rileva che il Tribunale avrebbe avuto a disposizione dati probatori di segno contrario ed osserva che i testimoni indicati nella richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, ignorata dalla Corte territoriale, avrebbero potuto dimostrare la sua innocenza.

3. Con un secondo motivo di ricorso rileva la nullità della sentenza di primo grado per la mancanza o incompletezza del dispositivo, in quanto privo di riferimenti al capo B) dell'imputazione, difetto ritenuto non emendabile con la correzione dell'errore materiale utilizzata dalla Corte di appello.

4. Con un terzo motivo di ricorso lamenta la mancata assoluzione che i giudici del merito avrebbero dovuto disporre in assenza di dati probatori significativi. Osserva, inoltre, che gli adesivi non rientrerebbero tra i mezzi di propaganda contemplati dalle disposizioni che si assumono violate e che la condotta contestata avrebbe dovuto essere qualificata come uno dei "casi di imbrattamento di arredo urbano e proprietà private a suo tempo previsti dal codice penale e recentemente depenalizzato con il d.lgs. 8/168 conv. D.L. 67/14".

Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

Va rilevato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che lo stesso appare formulato, seppure in parte, con richiami a dati fattuali ed ai contenuti delle deposizioni testimoniali che non possono avere ingresso nel presente giudizio di legittimità, poiché, come dovrebbe essere ben noto, compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del giudice di merito.

2. Per ciò che concerne, inoltre, la specifica doglianza relativa alla mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, in disparte la circostanza che il motivo di ricorso non fornisce alcuna indicazione sulle ragioni che l'avrebbero giustificata, limitandosi a sostenere che alcuni testimoni, non meglio indicati, avrebbero potuto dare "utili contributi alla definizione della verità processuale", va richiamata la costante giurisprudenza di questa Corte sul tema.

In particolare, si è affermato che l'istituto della rinnovazione dibattimentale di cui all'art. 603 c.p.p. costituisce un'eccezione alla presunzione di completezza dell'istruzione dibattimentale di primo grado dipendente dal principio di oralità del giudizio di appello, cosicché si ritiene che ad esso possa farsi ricorso, su richiesta di parte o d'ufficio, solamente quando il giudice lo ritenga indispensabile ai fini del decidere, non potendolo fare allo stato degli atti (v. Sez. 2, n. 41808 del 27 settembre 2013, Monguardo, Rv. 256968 ed altre prec. conf., nonché Sez. un., n. 12602 del 17 dicembre 2015 (dep. 2016), Ricci, Rv. 26682001) sussistendo tale evenienza unicamente quando i dati probatori già acquisiti siano incerti, nonché quando l'incombente richiesto sia decisivo, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze ovvero sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. 6, n. 20095 del 26 febbraio 2013, Ferrara, Rv. 256228).

Si è ulteriormente osservato che, per il carattere eccezionale dell'istituto, è richiesta una motivazione specifica solo nel caso in cui il giudice disponga la rinnovazione, poiché in tal caso deve rendere conto del corretto uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, mentre in caso di rigetto è ammessa anche una motivazione implicita, ricavabile dalla stessa struttura argomentativa posta a sostegno della pronuncia di merito nella quale sia evidenziata la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 11907 del 13 dicembre 2013 (dep. 2014), Coppola, Rv. 259893; Sez. 3, n. 24294 del 7 aprile 2010, D., Rv. 247872; Sez. 5, n. 15320 del 10 dicembre 2009, Pacini, Rv. 246859; Sez. 4, n. 47095 del 2 dicembre 2009, Sergio, Rv. 245996).

Per tali ragioni si è anche ritenuto che il giudice di legittimità può sindacare la correttezza della motivazione sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento entro l'ambito del contenuto esplicativo del provvedimento adottato e non anche sulla concreta rilevanza dell'atto o della testimonianza da acquisire (Sez. 4, n. 47095/2009 cit.; Sez. 4, n. 37624 del 19 settembre 2007, Giovannetti, Rv. 237689; Sez. un., n. 2110 del 23 novembre 1995 (dep. 1996), Fachini, Rv. 203764).

Ai fini della rinnovazione del dibattimento in appello, il giudice deve valutare l'indispensabilità della prova richiesta dalla parte, avendo riguardo - con riferimento alla testimonianza - alla sua decisività e non alla sua verosimiglianza, che implica un giudizio di fatto che non può essere formulato "a priori", ma solo dopo l'espletamento della prova, sulla base del confronto con tutti gli elementi di valutazione dell'attendibilità dei testi (Sez. 3, n. 42006 del 27 settembre 2012, M., Rv. 253604).

3. Nel caso in esame, la Corte territoriale ha chiaramente specificato che la responsabilità dell'imputato era stata riconosciuta dal primo giudice sulla base delle dichiarazioni di due testimoni che l'avevano personalmente visto in azione. I giudici del gravame hanno inoltre espressamente riconosciuto l'attendibilità dei testi medesimi, escludendo, altrettanto esplicitamente, che il clima elettorale acceso ed altri elementi fattuali valorizzati dall'appellante potessero inficiarne la credibilità o rivelarsi quali sintomi evidenti di un intento calunniatorio nei confronti dell'imputato.

A fronte di ciò, dunque, la Corte di appello ha fatto buon uso dei principi giurisprudenziali dianzi richiamati, implicitamente rigettando una richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale che la riconosciuta evidenza delle prove raccolte rendeva palesemente superflua.

4. Quanto al secondo motivo di ricorso, osserva il Collegio che, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, al ricorrente era stato originariamente contestato, oltre al reato del quale è stato ritenuto responsabile, anche quello di cui all'art. 658 c.p., dal quale era stato però assolto in primo grado, sebbene il giudice nulla avesse indicato in tal senso nel dispositivo.

Osserva a tale proposito la Corte territoriale, nell'esaminare il motivo di appello sul punto, che nella motivazione della sentenza di primo grado veniva espressamente esclusa, con argomentazioni specifiche, la sussistenza del reato suddetto, che coerentemente il Tribunale non prendeva in considerazione anche nel punto della sentenza concernente la determinazione della pena.

A fronte di ciò, i giudici del gravame hanno ritenuto la mancanza della statuizione assolutoria nel dispositivo della sentenza di primo grado quale mero errore materiale emendabile in sede di appello, soluzione contestata, però, in ricorso.

5. Va [a] tale proposito preliminarmente osservato come l'omissione denunciata non abbia prodotto alcun pregiudizio nei confronti dell'imputato, avendo il Tribunale escluso la sussistenza stessa del fatto contestato.

Occorre inoltre richiamare, perché utilizzabile anche nel caso in esame, quella giurisprudenza, cui il Collegio intende aderire, secondo la quale in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione non contestuali, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale l'uno e l'altra, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l'applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice; invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest'ultima per determinare l'effettiva portata del dispositivo, individuare l'errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacché essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione (Sez. fer., n. 47576 del 9 settembre 2014, Savini, Rv. 26140201. V. anche Sez. 2, n. 23343 del 1° marzo 2016, Ariano e altri, Rv. 26708201; Sez. 4, n. 43419 del 29 settembre 2015, Forte, Rv. 26490901).

Si deve pertanto ribadire che in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del dispositivo quale immediata espressione della volontà decisoria del giudice non è assoluta ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione dell'eventuale pregnanza degli elementi, tratti dalla motivazione, significativi di detta volontà.

Ciò posto, osserva il Collegio che la Corte del merito, pur dando atto in motivazione della intervenuta assoluzione, nel giudizio di primo grado, per il reato di cui all'art. 658 c.p. e della necessità di integrare il dispositivo della sentenza, non vi ha poi effettivamente provveduto.

Occorre pertanto disporre comunque l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al capo B) della rubrica, riferito all'art. 658 c.p., perché il fatto non sussiste.

6. Per ciò che concerne, infine, il terzo motivo di ricorso, va anche in questo caso posta in evidenza la inammissibilità, in questa sede, di questioni concernenti la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito.

Per il resto, va osservato come l'art. 8 della l. 212/1956, che detta norme per la disciplina della propaganda elettorale, stabilisca al terzo comma, che qui interessa, che deve essere penalmente sanzionato chiunque affigge stampati, giornali murali od altri, o manifesti di propaganda elettorale previsti dall'articolo 1 fuori degli appositi spazi, nonché chiunque contravviene alle norme dell'ultimo comma dell'articolo 1, il quale vieta le iscrizioni murali e quelle su fondi stradali, rupi, argini, palizzate e recinzioni.

Pare evidente che il riferimento a "stampati, giornali murali od altri, o manifesti di propaganda elettorale" sia meramente esemplificativo e non anche tassativo, in quanto lo scopo evidente della norma è quello di disciplinare le modalità di effettuazione della campagna elettorale mediante affissioni, che devono essere effettuate negli spazi appositi.

Nessuna distinzione viene effettuata dal legislatore in ordine alle modalità, mezzi e materiali con i quali la collocazione del materiale di propaganda viene in concreto effettuata, sicché nel concetto di "affissione" deve pacificamente ricomprendersi ogni attività idonea allo scopo, ivi compresa l'utilizzazione di stampati autoadesivi quali quelli utilizzati nel caso in esame.

La legge non effettua, inoltre, alcuna distinzione riguardo alle dimensioni del materiale affisso, coerentemente con le finalità di ordinato svolgimento della propaganda elettorale che la legge si prefigge, come peraltro implicitamente rilevato laddove si è riconosciuta la sussistenza del reato con riferimento all'ipotesi di propaganda elettorale effettuata mediante affissione di stampati nelle vetrine e negli ingressi di negozi (Sez. 3, n. 2504 dell'11 novembre 1966, Lagrotteria, Rv. 10306501).

Del tutto infondata risulta, inoltre, l'ulteriore deduzione con la quale il ricorrente prospetta, peraltro in maniera non del tutto chiara, una diversa qualificazione del fatto contestatogli.

È sufficiente ricordare, a tale proposito, che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la norma incriminatrice in esame non tutela il deturpamento dei luoghi ma lo straripamento della propaganda oltre gli spazi appositamente predisposti, ripartiti ed assegnati, con violazione della "par condicio" (Sez. 4, n. 9511 del 12 settembre 1996, Tabanella, Rv. 20626501).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo B) (art. 658 c.p.) perché il fatto non sussiste.

Rigetta nel resto il ricorso.

Depositata il 17 febbraio 2017.

L. Carbone, F. Caringella, G. Rovelli

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