Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 6 giugno 2017, n. 13980

Presidente: Rordorf - Estensore: Tria

ESPOSIZIONE DEL FATTO

1. Con ricorso depositato il 9 marzo 2010 Cleopatra Mutinta C., nata in Zambia e cittadina italiana, adì il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, per sentir dichiarare l'inesistenza, la nullità e l'inefficacia e, in ogni caso, l'illegittimità del licenziamento intimatole il 5 ottobre 2006 dall'Ambasciata della Repubblica dello Zambia presso la Repubblica Italiana, avente sede in Roma, alle cui dipendenze aveva cominciato a lavorare il 3 dicembre 2004, per essere poi assunta il 6 gennaio 2005 con contratto a tempo indeterminato e inquadramento nel livello A2 del CCNL dei dipendenti di Ambasciate, Consolati, Legazioni, Istituti culturali ed Organismi internazionali.

La ricorrente, in particolare, precisava che il licenziamento le era stato comminato il giorno in cui era rientrata al lavoro dopo il parto e chiedeva che: a) le venisse applicata la tutela reale; b) l'Ambasciata fosse condannata anche al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione; c) comunque la datrice di lavoro fosse condannata a corrisponderle la somma di euro 34.223,84, in base alle ragioni e ai conteggi specificati in atti; d) la datrice di lavoro fosse altresì condannata a risarcirle i danni da mobbing che aveva subito, per essere stata oggetto nell'ambiente di lavoro di una "capillare" azione denigratoria, dal momento in cui era stata costretta, con l'inizio della gravidanza a rischio, ad astenersi dal lavoro ante partum, a partire dal 17 gennaio 2006.

2. L'Ambasciata dello Zambia si costituiva in giudizio tardivamente e la sua istanza di rimessione in termini veniva respinta dal Tribunale adito.

3. Con sentenza n. 18362/2011 - esaminabile in questa sede, dato il tipo di censure proposte - il Tribunale stesso, in parziale accoglimento del ricorso, dichiarava l'illegittimità del licenziamento, perché irrogato con violazione delle norme che vietano il licenziamento della lavoratrice madre, senza neppure applicare le garanzie procedimentali di cui all'art. 7 St. Lav.

Il Tribunale, pertanto, condannò la datrice di lavoro alla reintegrazione della dipendente nel posto precedentemente occupato e al pagamento di tutte le retribuzioni medio tempore maturate.

4. La suddetta Ambasciata proponeva appello avverso la indicata sentenza sostenendo, con il primo motivo, il difetto di giurisdizione del giudice italiano.

5. Con sentenza n. 3789/2015 la Corte d'appello di Roma, accogliendo tale assorbente censura, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano, rilevando che - data la mancata proposizione di appello incidentale avverso il totale rigetto da parte del primo giudice delle richieste di tipo retributivo-patrimoniale, non direttamente connesse all'impugnazione del licenziamento (mansioni superiori, lavoro straordinario, mobbing etc.) - l'oggetto della controversia è rimasto circoscritto all'impugnazione del licenziamento con richiesta di condanna alla reintegrazione. Tuttavia, l'esame di una simile domanda non compete al giudice italiano in quanto implica una valutazione del comportamento datoriale nell'organizzazione dell'ufficio, interferendo sugli atti o comportamenti dell'ente attraverso il quale lo Stato estero persegue - anche se in via indiretta - le sue finalità istituzionali, espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione.

6. Il ricorso di Cleopatra Mutinta C. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, l'Ambasciata della Repubblica dello Zambia presso la Repubblica Italiana.

RAGIONI DELLA DECISIONE

I. Profili preliminari

1. Preliminarmente deve essere dichiarata l'inammissibilità del secondo motivo, in quanto - come si rileva anche nel controricorso - le relative censure risultano prospettate in modo non conforme all'art. 360, n. 5, c.p.c., nel testo successivo alla modifica ad opera dell'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis, essendo stata la sentenza impugnata depositata dopo l'11 settembre 2012 e precisamente il 18 giugno 2015. In base alla novella la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell'essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass., Sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928). Evenienze che non si verificano nella specie.

Come precisato da queste Sezioni Unite (vedi, per tutte: sentenze 7 aprile 2014, n. 8053 e n. 8054) nei giudizi per cassazione assoggettati ratione temporis alla nuova normativa, la formulazione di una censura riferita al n. 5 dell'art. 360 cit. che replica sostanzialmente il previgente testo di tale ultima disposizione - come accade nella specie - si palesa inammissibile alla luce del nuovo testo della richiamata disposizione, che ha certamente escluso la valutabilità della "insufficienza" della motivazione, limitando il controllo di legittimità all'«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», "omesso esame" che non costituisce nella specie oggetto di censura.

II. Sintesi delle censure

2. Il ricorso è articolato in tre motivi, a parte il secondo motivo di cui si è detto sopra:

2.1. con il primo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360, n. 1, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 37 c.p.c., sull'assunto secondo cui la pronuncia di difetto di giurisdizione del giudice italiano sarebbe stata adottata dalla Corte d'appello in base ad una lettura incompleta dell'art. 37 cit. Infatti, la Corte non ha considerato che le mansioni svolte dalla C. - peraltro cittadina italiana - non comportavano l'esercizio di poteri sovrani dello Stato zambiese sicché la scelta decisionale in contestazione non è neppure conforme all'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni fatta a New York il 2 dicembre 2004;

2.2. con il terzo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 416 e 437 c.p.c., in quanto la Corte romana ha fondato la decisione sulla giurisdizione su eccezioni formulate dall'Ambasciata appellante, la quale non aveva espressamente impugnato la pronuncia di decadenza della propria costituzione in giudizio emessa dal primo giudice, limitandosi a proporre in appello una inammissibile istanza di rimessione in termini, non esplicitamente esaminata dalla Corte territoriale.

III. Esame delle censure

3. Il primo motivo [di] ricorso è fondato per le ragioni e nei limiti appresso indicati.

4. Secondo l'art. 10 Cost., primo comma, l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e tra queste rientra la regola, di carattere consuetudinario, sull'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione italiana, in base ad una prassi e ad un'opinio iuris internazionali, volta al rispetto della sovranità degli Stati e degli altri soggetti di diritto internazionale. La giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia ha più volte richiamato "la regie de droit coutumier qui fait obligation a un Etat d'accorder l'immunitè à un autre" (vedi, per tutte: sentenza 3 febbraio 2012, Gov. Germania federale c. Gov. Italia). Tale principio secondo cui par in parem non habet iurisdictionem riguarda gli Stati e gli altri enti stranieri quando agiscono come soggetti di diritto internazionale o come titolari di una potestà di imperio nell'ordinamento d'origine, ossia come enti sovrani. Questa regola consuetudinaria sull'immunità si applica anche ad altri soggetti che rivestono, in senso ampio, la qualità di organi dello Stato estero (enti pubblici, comunque denominati: Cass., Sez. un., 20 novembre 1989, n. 4968; Cass., Sez. un., 18 marzo 1999, n. 150; Cass., Sez. un., 12 giugno 1999, n. 331), ovviamente ivi comprese le Ambasciate (vedi Cass., Sez. un., 18 aprile 2014, n. 9034; Cass., Sez. un., 22 dicembre 2016, n. 26661), ipotesi che interessa nel presente giudizio.

5. Non risulta esservi alcuna eccezione alla suddetta disciplina neppure nell'ipotesi - che qui ricorre - in cui nei confronti di una lavoratrice non siano stati riconosciuti i diritti indicati nella CEDAW del 1979 - cioè nella Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women) - che è stata ratificata regolarmente da Italia e Zambia e che per la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo costituisce parte integrante del diritto consuetudinario internazionale (vedi: Corte EDU sentenze 2 marzo 2017, Talpis c. Italia; Grande Camera, 15 novembre 2016, Dubská and Krejzová c. Repubblica Ceca; 27 maggio 2014, Rumor c. Italia; 28 maggio 2013, Eremia e altri c. Moldavia).

6. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità e la prassi internazionale hanno, nel tempo, tracciato alcuni confini all'area dell'immunità e questo processo ha portato all'abbandono della originaria tesi della c.d. immunità diffusa (secondo cui lo Stato straniero è immune dalla giurisdizione straordinaria in ogni caso) e all'accoglimento del principio della c.d. immunità ristretta o relativa.

7. In base a tale principio l'immunità non opera allorché gli atti compiuti dai soggetti internazionali stranieri nell'ordinamento locale non siano riconducibili all'esercizio di poteri sovrani. Occorre infatti un bilanciamento delle opposte esigenze di tutela della sovranità dello Stato e di tutela del diritto dell'individuo di accesso alla giustizia secondo quello che la giurisprudenza della Corte EDU (sent. 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia) definisce come "rapporto di ragionevole proporzionalità" (sul carattere non assoluto dell'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione italiana vedi anche Corte cost. 15 luglio 1992, n. 329 che parla appunto di "immunità ristretta" o funzionale).

8. Di conseguenza, per quel che riguarda i rapporti di lavoro, alla stregua del suddetto principio - in applicazione di una regola consuetudinaria di generale applicazione, recepita dall'ordinamento italiano in virtù del richiamo contenuto nell'art. 10 Cost. - è stato affermato che "l'esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale viene meno non solo nel caso di controversie relative a rapporti lavorativi aventi per oggetto l'esecuzione di attività meramente ausiliarie delle funzioni istituzionali del datore di lavoro convenuto, ma anche nel caso in cui il dipendente richieda al giudice italiano una decisione che, attenendo ad aspetti soltanto patrimoniali, sia inidonea ad incidere o ad interferire sulle funzioni dello Stato sovrano" (vedi tra le altre: Cass., Sez. un., 15 maggio 1989, n. 2329; Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 531; Cass., Sez. un., 9 gennaio 2007, n. 118; Id. 18 giugno 2010, n. 14703; Id. 26 gennaio 2011, n. 1774; Id. 25 marzo 2013, n. 7382; Id. 27 febbraio 2017, n. 4882).

9. Su tali presupposti è stata esclusa la giurisdizione del giudice nazionale nel caso di domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, investendo detta pretesa in via diretta l'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente straniero (vedi, per tutte: cfr. Cass., Sez. un., 8 giugno 1994, n. 5565; Cass., Sez. un., 18 novembre 1992, n. 12315; Cass., Sez. un., 12 marzo 1999, n. 120; Cass., Sez. un., 10 luglio 2006, n. 15620; Cass., Sez. un., 17 gennaio 2007, n. 880).

Ciò in quanto l'esame sulla fondatezza di tale domanda del lavoratore comporta apprezzamenti, indagini o statuizioni che possono incidere o interferire su atti o comportamenti dello Stato estero (o di un ente pubblico attraverso il quale lo Stato estero operi per perseguire anche in via indiretta le proprie finalità istituzionali), espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione.

10. In sintesi, sempre tenendo conto di questa evoluzione e con specifico riferimento ai rapporti di lavoro, la giurisprudenza di codesta Corte si è orientata nel senso che, nei confronti degli enti di diritto internazionale, immuni dalla giurisdizione, il giudice italiano è titolare della potestà giurisdizionale per tutte le controversie inerenti a rapporti di lavoro che risultino del tutto esterni ed estranei alle funzioni istituzionali e all'organizzazione dell'ente, costituiti, cioè, nell'esercizio di capacità di diritto privato (vedi Cass., Sez. un., 7 novembre 2000, n. 1150); per gli altri rapporti, il medesimo giudice è carente della potestà giurisdizionale nei limiti in cui la tutela invocata interferirebbe nell'assetto organizzativo e nelle funzioni proprie degli enti, mentre può emettere provvedimenti di contenuto esclusivamente patrimoniale.

11. A tale bilanciamento tra immunità degli Stati esteri e diritto alla tutela giurisdizionale è ispirato il principio secondo cui "in tema di controversie inerenti ai rapporti di lavoro di personale delle ambasciate di Stati stranieri in Italia, ai fini dell'esenzione dalla giurisdizione del giudice italiano, in applicazione del principio consuetudinario di diritto internazionale dell'immunità ristretta, è necessario che l'esame della fondatezza della domanda del prestatore di lavoro non comporti apprezzamenti, indagini o statuizioni che possano incidere o interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero che siano espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione" (Cass., Sez. un., 17 gennaio 2007, n. 880; Id. 10 luglio 2006, nn. 15620, 15626 e 15628).

12. Tale canone dell'immunità ristretta, è stato affermato anche alla luce della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari, ratificata dall'Italia con l. 6 agosto 1967, n. 804 (Cass., Sez. un., 25 marzo 2013, n. 7382 cit., concernente l'applicazione dell'art. 43 della detta Convenzione), mentre è stato precisato che l'art. 31 della Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche, parimenti resa esecutiva in Italia con la stessa l. n. 804 citata, che fa riferimento all'agente diplomatico in proprio e non agli Stati esteri o alle loro rappresentanze (vedi Cass. su 27 novembre 2002, n. 16830).

13. La l. 14 gennaio 2013, n. 5 prevede ora una specifica disciplina convenzionale su "l'autorizzazione all'adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di adeguamento all'ordinamento interno".

14. In particolare l'art. 11 della suindicata Convenzione detta una specifica disciplina per i contratti di lavoro. Tale disciplina, come canone generale, stabilisce che, salve convenzioni bilaterali particolari, uno Stato non può invocare l'immunità giurisdizionale davanti a un tribunale di un altro Stato, competente in materia, in un procedimento concernente un contratto di lavoro tra lo Stato e una persona fisica per un lavoro eseguito o da eseguirsi, interamente o in parte, sul territorio dell'altro Stato. Segue, poi, l'indicazione di una serie di casi in cui, in via di specialità, è applicabile l'immunità dello Stato estero. Si tratta di casi in cui ciò avviene prevalentemente su base soggettiva, quale quello dell'impiegato che è stato assunto per adempiere funzioni particolari nell'esercizio di funzioni pubbliche, ma può avvenire anche su base oggettiva essendo riconosciuta l'immunità dello Stato estero in caso di azione che abbia per oggetto l'assunzione, la proroga del rapporto di lavoro o il reinserimento di un candidato ovvero di azione che concerna il licenziamento o la risoluzione del contratto di un impiegato ove tale azione rischi di interferire con gli interessi dello Stato in materia di sicurezza secondo le indicazioni del capo dello Stato, del capo del Governo o del ministro degli affari esteri dello Stato datore di lavoro.

15. Questa disposizione positiva, nella sua articolazione di regola ed eccezione, è entrata in vigore trenta giorni dopo la data del deposito del trentesimo strumento di ratifica, accettazione, approvazione o adesione presso il Segretario generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (art. 30 della Convenzione). D'altra parte l'art. 4 della Convenzione prevede la non retroattività della stessa prescrivendo che essa non si applica ad alcuna questione relativa alle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni sollevata in un procedimento promosso contro uno Stato davanti a un tribunale di un altro Stato prima dell'entrata in vigore della Convenzione. Non di meno questa Corte (Cass., Sez. un., 18 aprile 2014, n. 9034), richiamando in proposito la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che l'art. 11 della detta Convenzione riflette l'evoluzione del diritto consuetudinario nella materia e rileva anche come parametro della compatibilità dell'immunità giurisdizionale dello Stato convenuto con le garanzie del giusto processo.

16. In particolare, con la citata sentenza del 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia - pronuncia questa che ha riguardato una controversia di lavoro promossa da una dipendente dell'Ecole francaise de Rome in riferimento alla quale questa Corte (Cass., Sez. un., 9 settembre 1997, n. 8768, cit.) aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano - la Corte EDU ha affermato che "poiché i principi sanciti dall'art. 11 della Convenzione del 2004 sono parte integrante del diritto consuetudinario internazionale, essi impegnano l'Italia" e "la Corte ne deve tener conto, nel momento in cui appura se il diritto di accesso ad un tribunale sia stato rispettato". Ha segnatamente sottolineato che le limitazioni all'assoggettamento degli Stati alla giurisdizione del Paese dove il rapporto è sorto e si è svolto si conciliano con l'art. 6, par. 1, CEDU solo quando perseguono un fine legittimo ed in presenza di un rapporto ragionevole e proporzionato tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (nello stesso senso: Corte EDU, sentenza 8 novembre 2016, Naku c. Lituania e Svezia).

17. L'art. 11 della Convenzione opera tale bilanciamento sicché a questa disposizione occorre far riferimento in quanto attuativa di un principio consuetudinario - quello dell'immunità ristretta degli Stati - già vigente e riconosciuto da tempo.

18. Tenendo conto di ciò, Cass., Sez. un., 18 aprile 2014, n. 9034, cit., ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in relazione alla domanda di una dipendente dell'Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, avente ad oggetto in particolare l'accertamento della nullità del licenziamento con conseguente richiesta di condanna dell'Ambasciata alla sua reintegra immediata.

19. Nella stessa ottica, Cass., Sez. un., 18 settembre 2014, n. 19674 ha affermato che: "il giudice italiano difetta di giurisdizione in ordine alla domanda proposta contro l'Accademia di Francia in Roma, volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento (intimato, nella specie, ad un dipendente con mansioni di supporto dell'attività del segretario generale dell'ente) e alla correlata reintegra, attesa l'operatività del principio dell'immunità ristretta, recepito dall'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a New York il 2 dicembre 2004, e ratificata in Italia con legge 14 gennaio 2013, n. 5, ma operante prima ancora che la detta Convenzione sia vincolante per tutti gli Stati aderenti perché ricognitiva di un canone già parte integrante del diritto consuetudinario internazionale".

Ma ha aggiunto che, invece, "sussiste la giurisdizione del giudice nazionale in ordine alla domanda per le pretese dirette all'attribuzione di differenze retributive, trattandosi di domanda avente ad oggetto aspetti esclusivamente patrimoniali del rapporto, che non incidono sulle potestà pubblicistiche dell'ente estero ove non ricorrano, ex art. 2, lett. d), della Convenzione citata, ragioni di sicurezza dello Stato".

20. Di recente, con riguardo ad un dipendente dell'Ambasciata dello Stato del Quatar, è stata affermata sussistenza della giurisdizione del giudice italiano "non solo quando oggetto del rapporto di lavoro sia l'esecuzione di un'attività meramente ausiliaria delle funzioni istituzionali del datore convenuto, ma anche quando, pur avendo ad oggetto lo svolgimento di attività strettamente inerenti alle predette funzioni, la decisione richiesta al giudice italiano attenga solo ad aspetti patrimoniali, quali il pagamento di differenze retributive, e non sia pertanto idonea ad incidere sull'autonomia e le potestà pubblicistiche dell'ente, sempre che non ricorrano le ragioni di sicurezza ex art. 2, lettera d), della Convenzione ONU del 2 dicembre 2004" (Cass., Sez. un., 27 febbraio 2017, n. 4882 cit.).

21. Nella specie dagli atti risulta che Cleopatra Mutinta C. è stata assunta dall'Ambasciata della Repubblica dello Zambia presso la Repubblica Italiana, avente sede in Roma, il 6 gennaio 2005 con contratto a tempo indeterminato e inquadramento nel livello A2 del CCNL dei dipendenti di Ambasciate, Consolati, Legazioni, Istituti culturali ed Organismi internazionali. In base alle versioni del 2003 e del 2007 di tale CCNL tale livello di inquadramento corrispondeva a: "Impiegato di concetto, Personale tecnico specializzato, Aiuto del Responsabile Amministrativo Contabile, Interpreti/traduttori e tutte le figure professionali contemplate nel livello B-1 nei casi di accertate idoneità e professionalità richieste dall'inquadramento superiore; altre qualifiche assimilabili".

22. Si tratta, con tutta evidenza, di mansioni che non erano correlate all'attività pubblicistica dell'Ambasciata datrice di lavoro. Quindi non ricorre l'ipotesi eccettuata dal par. 2 dell'art. 11 della citata Convenzione che riconosce l'immunità degli Stati esteri nel caso di dipendente "assunto per adempiere funzioni particolari nell'esercizio di funzioni pubbliche".

23. Secondo il più volte richiamato canone dell'immunità ristretta, confermato e tradotto ora nel disposto dell'art. 11 cit., solo l'inserimento delle mansioni del lavoratore nell'organizzazione finalizzata al raggiungimento dei detti fini è tale da escludere la giurisdizione del giudice italiano con riguardo alle controversie inerenti al rapporto di lavoro subordinato con uno Stato estero.

24. Detto questo, va rilevato che la Corte d'appello di Roma, nella sentenza impugnata, ha accolto integralmente il motivo di appello della suddetta Ambasciata di difetto di giurisdizione del giudice italiano, dopo aver precisato che, in mancanza di appello incidentale avverso il totale rigetto da parte del primo giudice delle richieste di tipo economico non collegate al recesso, l'oggetto della controversia era rimasto circoscritto all'impugnazione del licenziamento con richiesta di condanna alla reintegrazione.

25. A tale ultimo riguardo, la Corte territoriale ha aggiunto che l'esame di una simile domanda non compete al giudice italiano in quanto implica una valutazione del comportamento datoriale nell'organizzazione dell'ufficio, interferendo sugli atti o comportamenti dell'ente attraverso il quale lo Stato estero persegue - anche se in via indiretta - le sue finalità istituzionali, espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione.

26. In tal modo, però, la Corte romana non ha considerato che, in base al più volte richiamato canone dell'immunità ristretta, confermato e tradotto ora nel disposto dell'art. 11 della Convenzione ONU fatta a New York il 2 dicembre 2004 cit., il difetto di giurisdizione del giudice italiano, doveva essere dichiarato limitatamente alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, ai sensi della l. n. 300 del 1970, art. 18; mentre doveva considerarsi sussistente la giurisdizione del giudice nazionale in ordine alle domande di tipo retributivo proposte dalla lavoratrice come conseguenti rispetto al licenziamento dichiarato illegittimo in primo grado, non ricorrendo, ex art. 2, lett. d), della suindicata Convenzione ratificata dall'Italia con l. 14 gennaio 2013, n. 5, ragioni di sicurezza dello Stato.

IV. Conclusioni

27. In conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, nei limiti indicati, va dichiarata la giurisdizione del giudice italiano esclusivamente per le domande retributive conseguenti alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento (essendosi per le altre domande retributivo-patrimoniali formato il giudicato interno di rigetto). Il terzo motivo va dichiarato assorbito nel disposto accoglimento del primo motivo. Il secondo motivo va, invece, dichiarato inammissibile.

28. La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, la quale si atterrà a tutti i principi su affermati e, quindi, anche al seguente:

"in una controversia instaurata da una dipendente di una Ambasciata di uno Stato estero (nella specie: dell'Ambasciata della Repubblica dello Zambia presso la Repubblica Italiana, avente sede in Roma) per sentir dichiarare l'inesistenza, la nullità e l'inefficacia e, in ogni caso, l'illegittimità del licenziamento intimatole dall'Ambasciata stessa con la correlata reintegrazione nel posto di lavoro, in base al principio dell'immunità ristretta, recepito dall'art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a New York il 2 dicembre 2004, e ratificata in Italia con l. 14 gennaio 2013, n. 5, difetta la giurisdizione del giudice italiano in ordine alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro - perché tale pretesa investe in via diretta l'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente straniero - mentre sussiste la giurisdizione del giudice nazionale con riguardo agli aspetti patrimoniali della controversia - direttamente o indirettamente collegati all'impugnazione del licenziamento, quali il pagamento di differenze retributive - che non sono, di per sé, idonei ad incidere sull'autonomia e sulle potestà pubblicistiche dell'ente straniero, sempre che non ricorrano le ragioni di sicurezza ex art. 2, lettera d), della stessa Convenzione ONU del 2 dicembre 2004".

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, in accoglimento del primo motivo di ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano limitatamente alle domande retributive conseguenti alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Dichiara inammissibile il secondo motivo e dichiara assorbito il terzo motivo. Cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione.