Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 11 luglio 2017, n. 38691

Presidente: Di Nicola - Estensore: Mengoni

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 27 gennaio 2017, la Corte di appello di Salerno, quale giudice dell'esecuzione, in parziale accoglimento dell'istanza proposta da Pasquale G., rideterminava la pena a questi irrogata con la sentenza emessa dalla stessa Corte il 16 novembre 2015 (irrevocabile), quantificandola - con riguardo alla contravvenzione di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, ed in esito alla sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2016 - in 20 giorni di arresto e 12.000,00 euro di ammenda; rigettava, per contro, l'istanza di declaratoria di prescrizione dello stesso reato, sostenendo che - a norma dell'art. 676 c.p.p. - il giudice dell'esecuzione può applicare le cause di estinzione della fattispecie solo se maturate dopo il passaggio in giudicato della sentenza, non anche in precedenza come nel caso in esame.

2. Propone ricorso per cassazione il G., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

- violazione dell'art. 648 c.p.p. La Corte di appello avrebbe rigettato l'eccezione in punto di irrevocabilità della sentenza di appello, in esito alla notifica del relativo estratto contumaciale, sul presupposto che questo sarebbe stato notificato al ricorrente a mani proprie il 19 agosto 2014; orbene, tale data si riferirebbe, invero, alla notifica dell'estratto della sentenza di primo grado, come peraltro reso evidente dal fatto che la pronuncia della successiva sarebbe avvenuta soltanto il 16 novembre 2015. In forza di ciò - e della lettera dell'art. 15-bis, l. 28 aprile 2014, n. 67, per come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte - al giudizio di appello si sarebbe dovuta applicare la disciplina precedente all'emanazione della stessa l. n. 67, sì che anche l'estratto della pronuncia di appello avrebbe dovuto esser notificato al ricorrente, contumace in primo grado e non dichiarato irreperibile. Quel che, per contro, non sarebbe avvenuto;

- violazione dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nonché agli artt. 673 e 676 c.p.p. La sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2016 - in forza della quale il Giudice di appello ha revocato la pena inflitta al ricorrente con riguardo alla fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 - dovrebbe produrre immediato effetto sul trattamento sanzionatorio individuato per la (così) riqualificata condotta ex art. 181, comma 1, stesso decreto, con rispetto di un criterio aritmetico-proporzionalistico, tenendo conto dei nuovi parametri edittali. Ancora, l'intervenuta riqualificazione del delitto in contravvenzione, proprio per effetto della citata pronuncia della Corte costituzionale, dovrebbe incidere anche sulla declaratoria di prescrizione della fattispecie, assegnando al giudice dell'esecuzione il potere di provvedere in tal senso.

3. Con requisitoria scritta del 26 giugno 2017, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso, condividendo gli argomenti di cui all'ordinanza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il gravame risulta parzialmente fondato, in forza delle considerazioni che seguono, sì da imporsi l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.

5. Con riguardo, innanzitutto, alla prima doglianza, di natura processuale, la stessa appare inammissibile; come correttamente rilevato dal Procuratore generale, invero, la questione posta in punto di notificazione dell'estratto contumaciale della sentenza di appello sottende, di fatto, una richiesta di restituzione in termini ai sensi dell'art. 175 c.p.p., sull'assunto di non aver potuto ulteriormente impugnare la decisione di merito per fatto a sé non imputabile, con conseguente assenza di irrevocabilità della pronuncia medesima. Orbene, tale istanza avrebbe dovuto esser presentata nelle forme e nei termini di cui ai commi 2-bis e 4 della norma medesima, da intendersi quali disposizioni non derogabili e non surrogabili; quel che, per contro, non risulta avvenuto nel caso di specie, nel quale il ricorrente ha impropriamente cercato di raggiungere il medesimo obiettivo - appunto, la restituzione nei termini per proporre ricorso per cassazione - attraverso il diverso e non consentito istituto dell'incidente di esecuzione, sì da non poter essere ammessa in questa sede alcuna censura sul punto.

6. Fondato in parte qua, per contro, risulta poi il secondo motivo di gravame, con il quale si contesta alla Corte di appello l'assunto per cui il giudice dell'esecuzione non potrebbe mai accertare la prescrizione del reato, maturata in costanza del giudizio di merito, neppure in presenza di una pronuncia di incostituzionalità che incida sulla natura della fattispecie in esame e, di riflesso, sui termini ex artt. 157 ss. c.p. alla stessa riferibili; orbene, ritiene il Collegio che questa conclusione non possa esser condivisa e che, su tale punto, l'ordinanza debba esser cassata per nuovo esame.

7. L'analisi della questione presuppone, in primo luogo, il richiamo alla norma contestata al G., e sulla quale si è formato il giudicato oggetto del presente incidente di esecuzione: trattasi, per quel che qui rileva (altre condotte illecite erano state dichiarate estinte per prescrizione già in fase di merito), dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, a mente del quale "La pena è della reclusione da uno a quattro anni qualora i lavori di cui al comma 1 (lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, n.d.e.): a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi".

8. Orbene, questa norma è stata di recente interessata da una pronuncia della Corte costituzionale (n. 56 del 23 marzo 2016), che ne ha dichiarato l'illegittimità nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed». Ne consegue che la natura delittuosa della condotta permane ormai soltanto con riguardo alla seconda parte di quest'ultima lettera b), concernente gli interventi che abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi; quanto, invece, alla prima parte della stessa lett. b), così come alla lett. a), sopra citate, le relative ipotesi mantengono comunque rilevanza penale, ma vengono attratte nel comma 1 del medesimo art. 181 e, pertanto, punite con le pene previste dall'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (arresto ed ammenda), proprie delle fattispecie contravvenzionali, al pari della "comune" esecuzione di lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa.

9. In sintesi, dunque, con la sentenza n. 56 del 2016 talune condotte di reato sono state private della natura delittuosa, per assumere quella contravvenzionale; quella stessa natura che, peraltro, possedevano fino all'emanazione della l. 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), che aveva interpolato l'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, inserendovi, per l'appunto, il comma 1-bis in esame.

10. Una pronuncia manipolativa - quella della Corte costituzionale - destinata quindi, all'evidenza, a produrre molteplici e rilevanti effetti, per lo più in bonam partem, a muover dal più mite trattamento sanzionatorio e relativi termini prescrizionali, fino alla non punibilità del tentativo; effetti che - sin dalla pubblicazione delle sentenza medesima - involgono per certo i giudizi in corso e la fase del merito, ma che interessano anche quella dell'esecuzione, qui in esame, assegnando al giudice competente ex art. 665 c.p.p. significativi poteri di intervento sulla sentenza emessa - e divenuta irrevocabile - prima della decisione del Giudice delle leggi. Poteri che discendono dai caratteri propri della pronuncia di incostituzionalità, anche in rapporto al fenomeno della successione delle leggi nel tempo, per come richiamati anche dalla giurisprudenza di questa Corte e compendiati, con particolare ricchezza argomentativa, nella sentenza a Sezioni unite n. 42858 del 29 maggio 2014, ric. Gatto, peraltro sul tracciato già segnato dalle precedenti n. 18821 del 24 ottobre 2013, Ercolano, e n. 4687 del 20 dicembre 2005, Catanzaro, sempre pronunciate dal medesimo Collegio.

In particolare, il Supremo Consesso ha sottolineato che gli effetti della declaratoria di incostituzionalità non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiché la dichiarazione d'illegittimità costituzionale inficia fin dall'origine (o, per le leggi a questa anteriori, fin dalla emanazione della Costituzione) la disposizione impugnata. Pertanto, le pronunce stesse fanno sorgere l'obbligo per i giudici - tutti i giudici, compreso quello dell'esecuzione - avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate illegittime di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia.

11. Questo preciso enunciato, peraltro, si riscontra anche nella giurisprudenza costituzionale, e sin dalle prime pronunce (per tutte, la n. 58 del 5 maggio 1967), con orientamento del tutto costante; si è sovente sottolineato, invero, che se l'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia - e quindi l'applicabilità - ai fatti verificatisi sino ad un certo momento del tempo, così la declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle disposizioni che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le stesse siano comunque applicabili anche a rapporti ai quali sarebbero state riferibili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Con l'effetto che, in tale seconda ipotesi, ed a differenza della prima, «è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte» (Corte cost. n. 49 del 2 aprile 1970). Fenomeno assimilabile, peraltro, a quello del decreto legge non convertito nei termini di cui all'art. 77, comma 3, Cost.; come già affermato da questo Giudice di legittimità, infatti, la decadenza di un decreto-legge ha effetti maggiori della abrogazione, poiché fa venir meno sin dall'origine la norma decaduta, determinando una situazione sostanzialmente assimilabile a quella dell'efficacia ex tunc della dichiarazione di incostituzionalità (Sez. 1, n. 7058 del 16 dicembre 1997, Karomi, Rv. 209352).

12. Tutto quanto precede - rileva poi il Collegio - poggia sul presupposto che sia il succedersi di leggi che in tutto o in parte disciplinano materie già regolate da altre precedenti, sia l'abrogazione di una norma per effetto di altra successiva, sono fenomeni fisiologici dell'ordinamento giuridico, mentre la dichiarazione di illegittimità costituzionale palesa un evento di patologia normativa. Come da ultimo affermato dalle Sezioni unite Gatto, invero, «il primo deriva da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto, fondata sull'opportunità politica e sociale, operata dal Parlamento, competente a legiferare in uno Stato democratico di diritto. La declaratoria d'illegittimità costituzionale di una norma - rimasta formalmente in vigore fino alla pubblicazione della sentenza costituzionale, ma sostanzialmente invalida - attesta che quella norma mai avrebbe dovuto essere introdotta nell'ordinamento repubblicano, che è Stato costituzionale di diritto, ciò che implica il primato delle norme costituzionali, che non possono perciò essere violate dal legislatore ordinario».

13. A quanto appena richiamato, poi, seguono più che significative conseguenze processuali, ribadite ancora dal Supremo Consesso di questa Corte nella decisione più volte citata. «Mentre l'applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidità. La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la proiezione "retroattiva", sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica la definitiva uscita dall'ordinamento di una norma geneticamente invalida. Una norma che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset, perciò inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale, devono essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati (cfr. Cass., Sez. 6, n. 9270 del 16 febbraio 2007, Berlusconi)».

14. L'"incidenza retroattiva" della declaratoria di incostituzionalità, qui appena menzionata, conosce dunque di un limite, non valicabile e non derogabile, costituito dai cosiddetti rapporti esauriti; per tali, dovendosi intendere quelli che hanno trovato la loro definitiva ed irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, ed i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità (in tal senso, tra le altre, Corte cost. n. 139 del 7 maggio 1984). In sintesi, quegli effetti pregiudizievoli del giudicato divenuti nel frattempo irreversibili, ossia quelli che non possono essere rimossi, perché già "consumati", come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena; quel che segna il «limite non discutibile di permeabilità e insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale» (Sez. un. Gatto; in termini, tra le ultime, Sez. 5, n. 15362 del 12 gennaio 2016, Gaccione, Rv. 266564; Sez. 1, n. 32193 del 28 maggio 2015, Quaresima, Rv. 264257). Quel che, ancora, deriva dalla constatazione che l'esecuzione della pena implica l'esistenza di un rapporto esecutivo, che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l'estinzione della pena; dunque, solo sino a quando l'esecuzione della pena è in atto, per definizione il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi.

15. Le conclusioni ermeneutiche appena rassegnate, peraltro, trovano pieno sostegno positivo in un complesso normativo unitario, risultante dall'art. 136, primo comma, Cost., dall'art. 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e dalla l. 11 marzo 1953, n. 87, che stabiliscono il principio generale della cessazione di efficacia della norma di legge dichiarata incostituzionale e pongono il divieto della sua applicazione ai rapporti giuridici in corso con effetti invalidanti assimilabili all'annullamento. Come ancora affermato dalla sentenza a Sezioni unite n. 42858/2014, ciò vale per tutti gli ambiti dell'ordinamento, e però, in forza dell'art. 30, quarto comma della l. n. 87 del 1953, in materia penale con portata ben maggiore, disponendosi che «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». La disposizione, come è stato efficacemente sintetizzato dalla dottrina, estende «al massimo l'incidenza "retroattiva" delle decisioni d'incostituzionalità nella materia penale, quando si sia pronunciata sentenza di condanna in applicazione di leggi poi dichiarate incostituzionali. Tali sentenze, ancorché passate in giudicato, cessano di avere esecuzione e di produrre qualsiasi effetto penale. In questo caso il massimo di retroattività è stato previsto in considerazione della particolare gravità delle sanzioni penali, essendosi ritenuto inaccettabile (come e più che nell'abrogazione) che esse potessero ancora valere, una volta riconosciuta l'incostituzionalità del loro fondamento normativo». Ne consegue che, se per effetto della sentenza della Corte costituzionale è venuto meno radicalmente l'illecito penale, cessano l'esecuzione della condanna e tutti gli effetti penali ad essa connessi, situazione espressamente risolta sul piano processuale dall'art. 673 c.p.p.; se è venuta meno la norma applicata per la determinazione della pena inflitta o di parte di essa, deve cessare l'esecuzione della pena o della parte di pena che ha trovato fondamento nella norma dichiarata incostituzionale.

16. Significativo, sul punto, risulta poi anche il "ruolo" dell'art. 673 c.p.p. appena citato, a mente del cui comma 1, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Ed allora, quale il rapporto tra questa disposizione e l'art. 30, l. n. 87 del 1953 sopra richiamata? Al riguardo, si rimanda ancora alle numerose ed articolate considerazioni di cui alle Sezioni unite Gatto, qui solo compendiabili con l'assunto per cui «mentre la disposizione dell'art. 673 c.p.p. prevede che il giudice dell'esecuzione revochi la sentenza di condanna irrevocabile, con cancellazione del dictum del giudice della cognizione e, perciò, con incisione diretta sul giudicato, l'art. 30 della l. n. 87 del 1953 esaurisce la sua valenza demolitoria sull'esecuzione della sentenza, invalidandone parzialmente il titolo esecutivo, senza alcuna efficacia risolutiva della decisione divenuta irrevocabile (Corte cost., sentenze n. 230 del 2012 e n. 96 del 1996)». Con l'effetto che tale ultima norma ben può - e perciò deve, al fine di riportare a legalità l'esecuzione della pena (la cui verifica è sempre demandata al giudice ex art. 665 c.p.p.) - essere interpretata nel senso di consentire l'eliminazione di qualsiasi effetto pregiudizievole derivante da condanna assunta sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale.

17. Orbene, così sinteticamente ricostruiti i caratteri propri della pronuncia di incostituzionalità, anche parziale, ed i relativi poteri/doveri che ne conseguono in capo a tutti i giudici - compreso quello dell'esecuzione - per eliminare ogni effetto pregiudizievole della condanna pronunciata in forza di una norma poi censurata, ritiene il Collegio che tale efficacia invalidante ex tunc possa avere effetto anche con riguardo alla declaratoria di prescrizione del reato, eventualmente da pronunciare "ora per allora". In particolare, a fronte di una sentenza di illegittimità costituzionale che incida sul trattamento sanzionatorio, deve ammettersi che il giudice dell'esecuzione - quando a ciò sollecitato - debba non solo intervenire sulla stessa misura della pena (e, nel caso delle fattispecie oggetto della sentenza n. 56 del 2016, addirittura sulla sua specie), trasformando in legale una sanzione ormai illegale (perché determinata in ragione della norma vigente all'epoca della pronuncia di merito, poi cancellata o manipolata dalla sentenza di incostituzionalità), ma debba anche dichiarare l'estinzione per prescrizione del reato quando accerti che i termini di cui agli artt. 157 ss. c.p. - calcolati sulla sanzione edittale come ricavata dalla pronuncia di incostituzionalità - erano interamente spirati alla data dell'ultima sentenza di merito. Il giudice dell'esecuzione, pertanto, si deve porre - "ora per allora" - nella stessa ottica che avrebbe avuto il giudice della cognizione se si fosse pronunciato successivamente alla declaratoria di incostituzionalità e, con l'unico ed insuperabile limite dei rapporti ormai esauriti e non più retrattabili, deve dare attuazione alla pronuncia medesima, impedendo che la norma già oggetto di censura - ormai espunta dall'ordinamento - possa produrre qualsivoglia ulteriore effetto; in altri termini, il giudice deve dare piena attuazione al combinato disposto degli artt. 673 c.p.p./30, comma 4, l. n. 87 del 1953, inverando nella massima misura consentita quella "incidenza retroattiva" della pronuncia di incostituzionalità già sopra richiamata, e così 1) revocando la sentenza di condanna ed eliminando ogni suo effetto non esaurito, qualora la declaratoria della Corte abbia investito l'in se del reato (così come il giudice della cognizione avrebbe dovuto pronunciare sentenza di proscioglimento ex artt. 129 e 530 c.p.p.); 2) rideterminando la specie e la misura della pena irrogata, qualora la declaratoria della Corte abbia investito soltanto il trattamento sanzionatorio (quella stessa pena che il giudice della cognizione avrebbe dovuto applicare, per specie, e potuto applicare, per misura, in esito alla pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità); 3) se del caso, e nella medesima ipotesi, dichiarando l'estinzione del reato per prescrizione, se già maturata al tempo della pronuncia di merito, con proiezione "a ritroso", alla luce della sentenza della Corte costituzionale.

18. In sintesi, quindi, il giudice dell'esecuzione, quando ritualmente investito, deve realizzare - nella misura consentita da rapporti non esauriti e con l'esclusione di questi - una doverosa "bonifica" della sentenza irrevocabile, privandola degli elementi "inquinanti" oggetto della declaratoria di incostituzionalità, che debbono esser eliminati ab origine perché tamquam non fuissent; nei medesimi termini, dunque, nei quali si sarebbe pronunciato il giudice della cognizione, qualora intervenuto successivamente alla sentenza della Corte costituzionale.

19. Quanto precede, peraltro, costituisce logico sviluppo di principi più volte affermati da questa Corte Suprema, sempre con riguardo a pronunce di incostituzionalità. Ad esempio, in esito alla sentenza della Corte cost. n. 32 del 25 febbraio 2014 - che, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, d.l. n. 272 del 2005, ha reintrodotto la distinzione sanzionatoria tra "droghe leggere" e "droghe pesanti" - la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente evidenziato che il trattamento punitivo irrogato quanto alle prime (impiegando la disciplina originata dalla norma censurata dalla Corte) doveva esser rideterminato in sede esecutiva (tra le altre, Sez. 1, n. 1650 del 15 novembre 2016, Ciurra; Sez. 1, n. 30226 del 15 gennaio 2016, Pregio; Sez. 1, n. 29955 dell'11 dicembre 2015, Musesi; Sez. 6, n. 27403 del 10 giugno 2016, Crivello, tutte non massimate), affermando altresì la possibilità di disporre, in tale contesto, la sospensione condizionale della pena (Sez. un., n. 37107 del 26 febbraio 2015, Marcon, Rv. 264859). Nei medesimi termini, a seguito della sentenza Corte cost. n. 249 dell'8 luglio 2010 - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 61, n. 11-bis, c.p. (cd. circostanza aggravante della clandestinità) -, questa Corte ha sostenuto la necessità di rideterminare l'entità della pena, anche in sede esecutiva, detraendo da quella complessivamente irrogata dalla sentenza irrevocabile la quantità "illegale" di pena "aggiunta" per effetto della circostanza aggravante costituzionalmente illegittima (Sez. un. Gatto; diversamente, in caso di annullamento con rinvio, quindi su pronuncia non definitiva, a ciò avrebbe provveduto il giudice della cognizione nuovamente investito, sia pur solo in parte qua. Sul punto, Sez. 1, n. 16292 del 15 marzo 2011, Cortez, Rv. 249968). Ancora nella medesima ottica, poi, si richiamano le Sez. un. Catanzaro (n. 4687 del 20 dicembre 2005, Rv. 232610) che, sia pur con riferimento ad un caso di successione di leggi nel tempo (quel che, dunque, vale con ancor maggior forza a fronte di una sentenza di incostituzionalità), avevano affermato che il giudice dell'esecuzione, qualora, in applicazione dell'art. 673 c.p.p., pronunci per intervenuta abolitio criminis ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, può, nell'ambito dei "provvedimenti conseguenti" alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall'art. 164, comma primo, c.p., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti.

L'estinzione del reato per prescrizione ad opera del giudice dell'esecuzione, in caso di pronuncia di incostituzionalità, dunque, non rappresenta altro che un ulteriore profilo del medesimo percorso ermeneutico da tempo intrapreso, una sua evoluzione in piena aderenza ad esso e nel rispetto degli stessi principi.

20. Quanto precede, ancora, risulta poi perfettamente coerente con la concezione ormai acquisita del giudicato, e della sua funzione, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale formatasi negli ultimi anni. Pur non potendo diffondersi sull'argomento, che non costituisce oggetto diretto del presente giudizio, si osserva innanzitutto che, con la sentenza n. 210 del 2013, la Corte costituzionale ha messo in luce come, pur dovendo attribuirsi indubbio valore al giudicato, espressione dell'esigenza di certezza del diritto e di stabilità nell'assetto dei rapporti giuridici, tuttavia l'ordinamento conosce casi in cui l'intangibilità della condanna irrevocabile può subire "flessioni", determinate dalla necessità di bilanciare il valore costituzionale del giudicato con «prevalenti opposti valori», di pari dignità costituzionale, ai quali «il legislatore intende assicurare un primato»: il riferimento è in primo luogo alla tutela della libertà personale. Nella sentenza citata si precisa che è proprio l'ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative «alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato». Secondo la Corte costituzionale, spetta al giudice comune, e in particolar modo alla Corte di cassazione, il compito di determinare l'esatto campo di applicazione in sede esecutiva di tali sopravvenienze ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice e, nell'ipotesi in cui tale determinazione rilevi ai fini della proposizione di una questione di legittimità costituzionale, spiegarne le ragioni in termini non implausibili (in questi termini, la citata sentenza n. 210 del 2013). Ed è proprio recependo le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale che la Corte di cassazione è intervenuta sul tema (Sez. un. Ercolano, cit.), individuando le diverse ipotesi in cui il principio dell'intangibilità del giudicato soccombe rispetto agli altri valori, a cui il legislatore assicura un primato: a) l'abolitio criminis, in cui è prevista la revoca della sentenza di condanna (art. 673 c.p.p.) e la cessazione degli effetti penali (art. 2, secondo comma, c.p.); b) la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, ex art. 673 c.p.p.; c) l'incostituzionalità di una norma non nella parte incriminatrice, ma in quella relativa al trattamento penale, come si ricava dall'art. 30, quarto comma, della l. 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale; d) l'art. 2, terzo comma, c.p., inserito dall'art. 14 della l. 24 febbraio 2006, n. 85, secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna irrevocabile deve essere convertita immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore prevede esclusivamente quest'ultima, regola questa che deroga alla previsione di cui al successivo quarto comma dello stesso articolo, che individua nel giudicato il limite all'operatività della lex mitior.

21. Sullo stesso solco, poi, si sono inserite (oltre alle Sezioni unite Gatto, più volte menzionate) le Sezioni unite Marcon (n. 37107 del 26 febbraio 2015, cit.), che diffusamente - e con numerosi argomenti - hanno trattato la tematica della flessibilità del giudicato. Rinviando in questa sede al testo della sentenza, che si apprezza anche per l'analitico esame della giurisprudenza in materia, basti qui evidenziare che la stessa ha affermato che 1) per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale relativa al trattamento sanzionatorio, è necessario rimuovere gli effetti che dalla norma in questione discendono; 2) tale operazione, investendo principi fondamentali quale quello della libertà personale, impone, ai sensi dell'art. 30, terzo e quarto comma, l. n. 87 del 1953, di rivisitare il giudicato di condanna in tutti i casi in cui il rapporto esecutivo non sia esaurito; 3) in tali casi il giudicato, da una parte, deve essere "mantenuto", quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuzione soggettiva e alla sua qualificazione giuridica, ma, dall'altra, deve essere "riconformato", quanto ai profili sanzionatori; 4) il compito di incidere sul giudicato ai fini indicati spetta al giudice della esecuzione che «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo, ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.)» e che, quindi, può intervenire sia quando l'intervento si risolva in una mera operazione matematica di tipo automatico, sia quando la rimozione dei perduranti effetti derivanti dalla norma dichiarata incostituzionale richieda l'esercizio di poteri valutativi; 5) il limite all'opera di rideterminazione della pena da parte del giudice della esecuzione, che può fare uso di poteri istruttori, è costituito da quanto già accertato dal giudice di cognizione per ragioni di merito, cioè da quanto accertato non facendo applicazione della norma dichiarata incostituzionale. «Dal contenuto delle norme richiamate, nonché dalla "flessibilizzazione" del giudicato registrata nella fase esecutiva, sembra emergere una duplice dimensione del giudicato penale: la prima relativa all'accertamento del fatto, realmente intangibile, non essendo consentita, al di fuori delle speciali ipotesi rescissorie, una rivalutazione del fatto oggetto del giudizio, e tendenzialmente posta a garanzia del reo (presunzione di innocenza e divieto di bis in idem); la seconda relativa alla determinazione della pena, che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), appare maggiormente permeabile alle "sollecitazioni" provenienti ab extra rispetto alla res iudicata. In altri termini, se il "giudicato sull'accertamento" è, e resta, intangibile, non consentendo rivalutazioni del fatto, il "giudicato sulla pena" è permeabile ad eventuali modifiche del trattamento sanzionatorio, purché in bonam partem, essendo espressione di un interesse collettivo, quello della certezza dei rapporti giuridici esauriti, suscettibile di bilanciamento con altri principi costituzionali e convenzionali, quali la libertà personale, la legalità della pena, la finalità rieducativa, il principio di uguaglianza, che, nella loro dimensione individuale, sono prevalenti rispetto alla dimensione collettiva sottesa all'esigenza di certezza dei rapporti giuridici».

Nell'ambito di questo "giudicato sulla pena", e della sua permeabilità, può dunque coerentemente inserirsi la declaratoria di prescrizione di cui trattasi, suscettibile di affermazione anche da parte del giudice dell'esecuzione, "ora per allora"; e senza che venga scalfito il "giudicato sull'accertamento", risultando per contro non intaccato - in alcun modo - l'accertamento del fatto, nei suoi elementi costitutivi, e la sua riferibilità all'imputato.

22. Con riguardo, poi, ai poteri in concreto esercitabili in tale contesto, la maggiore latitudine di questi - in capo al giudice ex art. 665 c.p.p. - è stata ribadita dalla Corte costituzionale (nella richiamata sentenza n. 210 del 2013), che, nell'esaminare la rilevanza della questione sollevata davanti ad essa dalle Sezioni unite, ha condiviso l'individuazione dei possibili strumenti di intervento in executivis nelle disposizioni del codice di procedura penale che disciplinano i poteri del giudice dell'esecuzione, «che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.)». In coerenza, quindi, la Corte di cassazione ha evidenziato che alla giurisdizione esecutiva sono riconosciuti «ampi margini di manovra», non circoscritti alla sola verifica della validità e dell'efficacia del titolo esecutivo, ma incidenti anche sul contenuto di esso, «allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l'irrevocabilità della sentenza, lo esigano»; ed ha affermato che il procedimento di esecuzione è il mezzo con cui investire il giudice dell'esecuzione «di tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» (Sez. un., n. 18821 del 2014, Ercolano, cit.). Come ancora affermato, sul punto, dalle Sezioni unite Gatto, «la possibilità di avvalersi di poteri valutativi non si fonda soltanto su quanto il legislatore ha specificamente previsto con gli artt. 671 e 675 c.p.p., ma anche, come è stato già affermato dalla Corte di cassazione, sulla razionalità del sistema processuale: infatti, una volta «che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima funzione» (Sez. un., n. 4687 del 2006, Catanzaro, cit.). Ovviamente, nell'esercizio di tale potere-dovere, il giudice dell'esecuzione non ha la stessa libertà del giudice della cognizione, dovendo procedere - non diversamente da quanto è previsto negli artt. 671 e 675 c.p.p., - nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione (...): in sintesi, le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile. Tali valutazioni potranno essere assunte, se necessario, mediante l'esame degli atti processuali, ai sensi dell'art. 666, comma 5, c.p.p., che autorizza il giudice ad acquisire i documenti e le informazioni necessari e, quando occorre, ad assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio» (in termini, anche Sez. 3, n. 5248 del 25 ottobre 2016, Managò, Rv. 269011, sia pur in tema di abolitio criminis, a mente della quale «il giudice dell'esecuzione, qualora non ritenga sufficiente l'analisi del capo di imputazione, può anche scendere all'esame degli atti processuali per verificare ed accertare, attraverso di essi, la consistenza ed i contorni della condotta, senza però valutare di nuovo il fatto, mediante un giudizio di merito non consentito»).

23. E senza che, da ultimo, debba qui contestarsi la pacifica giurisprudenza di questa Corte a mente della quale non rientra nei poteri del giudice dell'esecuzione la dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna, maturata nella pendenza del procedimento di cognizione, in quanto le cause di estinzione della fattispecie che possono essere dichiarate in sede esecutiva, ai sensi dell'art. 676 c.p.p., sono esclusivamente quelle che operano dopo il passaggio in giudicato della condanna (per tutte, Sez. 1, n. 7164 del 21 dicembre 2015, Fioravanti, Rv. 266612); osserva la Corte, infatti, che questo indirizzo si riferisce, per l'appunto, alle cause estintive maturate successivamente all'irrevocabilità della pronuncia (ad esempio, amnistia, morte del reo), non concernendo, dunque, il diverso caso della declaratoria di incostituzionalità della norma, qui in esame.

24. Conclusivamente, pertanto, deve esser affermato il seguente principio di diritto: Rientra tra i poteri del giudice dell'esecuzione, adito per la rideterminazione della pena a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, dichiarare l'estinzione per prescrizione del reato, riqualificato come contravvenzione ai sensi dell'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, oggetto della sentenza definitiva di condanna, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione, e fatti salvi i rapporti ormai esauriti.

Alla luce di tutto quanto precede, dunque, si impone l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata, affinché la Corte di appello di Salerno applichi il principio di diritto affermato, compiendo l'accertamento ad esso relativo.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Salerno.

Depositata il 3 agosto 2017.