Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 6 luglio 2017, n. 43112

Presidente: Di Tomassi - Estensore: Centonze

RILEVATO IN FATTO

1. Il procedimento trae origine dal ricorso proposto da Bruno Contrada avverso l'ordinanza emessa l'11 ottobre 2016 dalla Corte di appello di Palermo, quale Giudice dell'esecuzione, con cui veniva dichiarato inammissibile l'incidente di esecuzione presentato, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., in relazione alla sentenza della Corte di Appello di Palermo, pronunciata il 25 febbraio 2006 e divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007, con la quale l'istante era stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 416 e 416-bis c.p., riguardante il concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra, commesso nell'arco temporale compreso tra il 1979 e il 1988.

L'incidente di esecuzione, a sua volta, faceva seguito alla decisione emessa dalla Corte EDU il 14 aprile 2015, conseguente all'instaurazione del ricorso n. 66655/13, proposto dallo stesso Contrada contro lo Stato italiano, con il quale si adiva la Corte europea ai sensi dell'art. 34 CEDU. In tale ambito, il ricorrente sosteneva che la sentenza emessa nei suoi confronti dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006 era stata pronunciata in violazione dell'art. 7 CEDU, atteso che l'ipotesi di concorso esterno in associazione di tipo mafioso era il risultato di un'evoluzione giurisprudenziale maturata in epoca successiva ai fatti che gli venivano contestati, definitivamente consolidatasi a partire dal 1994 (Sez. un., n. 16 del 5 ottobre 1994, Demitry, Rv. 199386).

La Corte EDU decideva il ricorso con la sentenza del 14 aprile 2015, affermando, nel paragrafo 75 di tale decisione, che la fattispecie di concorso esterno in associazione di tipo mafioso era «il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta e consolidatasi nel 1994 con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 5 ottobre 1994, Demitry [...]» e che all'epoca in cui erano stati commessi «i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo [...]».

Sulla scorta di tali affermazioni, la Corte EDU condannava lo Stato italiano per violazione dell'art. 7 CEDU.

1.1. In questa cornice, si inseriva l'incidente di esecuzione proposto da Contrada davanti alla Corte di appello di Palermo, con cui si chiedeva la revoca della sentenza emessa dalla stessa Corte territoriale il 25 febbraio 2006, che, secondo la difesa del condannato, si imponeva, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., per effetto della decisione emessa dalla Corte EDU il 14 aprile 2015, il cui obbligo di conformazione nell'ordinamento interno discendeva dall'art. 46 CEDU.

A fronte di tali deduzioni, il Giudice dell'esecuzione evidenziava che, nel caso in esame, la Corte EDU non aveva fornito alcuna indicazione sugli strumenti processuali utilizzabili per consentire all'ordinamento italiano di conformarsi alla sua decisione, con la conseguenza che, in assenza di specifiche prescrizioni, il provvedimento revocatorio richiesto dal condannato non poteva essere adottato, senza che una tale soluzione implicasse l'elusione dell'art. 46 CEDU.

2. Avverso l'ordinanza ricorreva per cassazione Bruno Contrada, a mezzo degli avvocati Stefano Giordano e Vittorio Manes, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento agli artt. 630 e 673 c.p.p.

2.1. Con il primo motivo di ricorso, in particolare, si deduceva che il provvedimento impugnato aveva eluso il dictum della decisione della Corte EDU, con la quale lo Stato italiano era stato condannato, sul presupposto che, nel procedimento svoltosi nei confronti di Contrada e conclusosi con la sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007, si era concretizzata una violazione dell'art. 7 CEDU.

Secondo la difesa del ricorrente, la decisione censurata si fondava su una lettura disarmonica dei rapporti prefigurati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali tra la Corte EDU e l'ordinamento interno.

La Corte di appello di Palermo, infatti, aveva disatteso il contenuto della pronuncia della Corte EDU, senza dare conto delle ragioni che la legittimavano a non conformarsi alla decisione emessa nei confronti di Contrada.

Il giudicato europeo formatosi sulla decisione intervenuta nel caso Contrada contro Italia, in altri termini, poneva il Giudice dell'esecuzione davanti all'obbligo, previsto dall'art. 46 CEDU, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, rimuovendo tutte le conseguenze pregiudizievoli per la parte vittoriosa.

2.2. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa di Contrada chiedeva, in via subordinata al mancato accoglimento della doglianza principale, la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell'art. 673 c.p.p., in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost., nella parte in cui tale disposizione non prevede espressamente l'ipotesi della revoca della sentenza di condanna per le ipotesi assimilabili a quella in esame.

Si evidenziava, in proposito, che, laddove non si fosse ritenuto possibile attivare lo strumento revocatorio previsto dall'art. 673 c.p.p., l'incidente di costituzionalità, finalizzato a sollecitare un intervento additivo della Corte costituzionale, costituiva soluzione obbligata.

2.3. Le medesime doglianze venivano ribadite nelle memorie difensive del 25 giugno 2017, prodotte anche in replica alla requisitoria del Procuratore generale presso la Corte di cassazione del 13 giugno 2017.

Si prospettava, infine, in via subordinata al mancato accoglimento delle doglianze principali, la rimessione della questione sollevata nell'interesse di Contrada alle Sezioni unite.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da Bruno Contrada deve ritenersi fondato nei termini di seguito indicati.

2. In via preliminare, atteso il complesso andamento della vicenda giurisdizionale di cui ci si occupa, appare indispensabile ricostruire i vari passaggi attraverso cui si è sviluppato il procedimento svoltosi nei confronti di Contrada, sul quale interveniva la decisione della Corte EDU del 14 aprile 2015, conseguente all'instaurazione del ricorso n. 66655/13.

2.1. Il primo passaggio della vicenda in esame è costituito dalla sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 5 aprile 1996, con cui Contrada veniva condannato alla pena di dieci anni di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 416 e 416-bis c.p., con interdizione perpetua dai pubblici uffici e applicazione della misura di sicurezza, a pena espiata, di tre anni di libertà vigilata.

All'esito di tale procedimento, l'imputato veniva ritenuto colpevole del reato ascrittogli, per avere, tra il 1979 e il 1988, in qualità di funzionario di polizia, di capo di gabinetto dell'alto commissario per la lotta alla mafia e di vicedirettore del S.I.S.D.E., fornito un contributo sistematico alle attività e al perseguimento degli scopi illeciti dell'associazione mafiosa denominata Cosa Nostra.

A seguito delle impugnazioni proposte dall'imputato e dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, veniva instaurato il giudizio di secondo grado, celebrato davanti alla Corte di appello di Palermo, che si concludeva con la sentenza emessa il 4 maggio 2001, con la quale Contrada veniva assolto dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste, con l'integrale ribaltamento del giudizio di colpevolezza espresso dal Giudice di primo grado.

Avverso tale pronuncia il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Palermo ricorreva per cassazione, dando origine al primo giudizio di legittimità svoltosi nei confronti di Contrada. Tale giudizio si concludeva con la sentenza emessa il 12 dicembre 2002 dalla Sezione seconda penale, con la quale la decisione impugnata veniva annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo per vizio di motivazione, afferente al percorso argomentativo seguito dal Giudice di secondo grado per pervenire alla formulazione del giudizio assolutorio.

A seguito dell'annullamento con rinvio richiamato, veniva celebrato un ulteriore giudizio nei confronti di Contrada, che si concludeva con la sentenza emessa il 25 febbraio 2006, con la quale la Corte di appello di Palermo confermava la decisione del Tribunale. La pronuncia veniva fondata sia sulla rivalutazione dell'originario compendio probatorio - imposta dall'annullamento con rinvio pronunciato il 12 dicembre 2002 - sia sulla base di ulteriori fonti di prova, nel frattempo acquisite.

Avverso tale sentenza Contrada ricorreva per cassazione, dando origine al secondo giudizio di legittimità celebrato nei suoi confronti, che si concludeva con la sentenza emessa dalla Sezione sesta penale il 10 maggio 2007, con la quale il ricorso proposto dall'imputato veniva rigettato.

Dopo il passaggio in giudicato della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, Contrada adiva la Corte EDU, dando origine al ricorso n. 66655/13, che si concludeva con la decisione emessa il 14 aprile 2015, della cui rilevanza nell'ordinamento italiano si controverte in questa sede.

La Corte EDU condannava lo Stato italiano per violazione dell'art. 7 CEDU, ritenendo che la fattispecie del concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso fosse chiara e prevedibile solo a partire dal 1994 - ovvero dal momento in cui interveniva la prima delle sentenze chiarificatrici delle Sezioni unite in questa materia (Sez. un., n. 16 del 5 ottobre 1994, Demitry, cit.) - riconoscendo, per il periodo successivo, la correttezza della configurazione dell'istituto in questione, così come elaborata dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 33478 del 12 luglio 2005, Mannino, Rv. 231671).

In particolare, la Corte EDU censurava la condanna emessa nei confronti di Contrada esclusivamente sotto il profilo della conoscibilità temporale del reato per il quale l'imputato era stato condannato, osservando, nel paragrafo 72 della sentenza, che la Corte di appello di Palermo «pronunciandosi sull'applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994, Mannino n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005 [...], tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente».

2.2. A seguito di tale pronuncia, che costituisce lo spartiacque della vicenda in esame, la difesa di Contrada attivava due distinti percorsi di tutela, rappresentati dal giudizio di revisione proposto davanti alla Corte di appello di Caltanissetta e dall'incidente di esecuzione instaurato dinanzi alla Corte di appello di Palermo, che dava origine al presente procedimento.

Il giudizio di revisione instaurato da Contrada davanti alla Corte di appello di Caltanissetta, a sua volta, faceva seguito ad altre tre istanze di revisione, proposte in epoca antecedente alla decisione della Corte EDU della cui conformazione si controverte, che erano state dichiarate inammissibili dalla Corte territoriale nissena.

All'esito di tale ultimo giudizio, nel quale la difesa di Contrada sollecitava una rivalutazione del compendio probatorio acquisito nel procedimento conclusosi con la sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, la Corte di appello di Caltanissetta rigettava l'istanza di revisione. A ragione del rigetto affermava che la decisione della Corte EDU del 14 aprile 2015 non influiva sulle fonti di prova sulla base delle quali l'imputato era stato condannato, anche in considerazione delle peculiari funzioni professionali svolte dall'istante all'epoca dei fatti, che imponevano di ritenere che lo stesso fosse consapevole dell'applicabilità dell'istituto del concorso di persone, ex art. 110 c.p., anche alla fattispecie dell'art. 416-bis c.p.

Avverso tale pronuncia Bruno Contrada proponeva ricorso per Cassazione, definito con la sentenza di inammissibilità emessa il 20 gennaio 2017 dalla Sezione quinta penale, a seguito di rinuncia al ricorso.

2.3. Come si è detto, in parallelo all'istanza di revisione presentata davanti alla Corte di appello di Caltanissetta, Contrada attivava un incidente di esecuzione dinanzi alla Corte di appello di Palermo, che si concludeva con l'ordinanza emessa l'11 ottobre 2016, avverso la quale veniva proposto il ricorso per cassazione in esame.

L'attuale giudizio costituisce, dunque, l'ultima sede nella quale è possibile affrontare la questione dell'obbligo di conformazione dell'ordinamento interno alla decisione emessa il 14 aprile 2015 dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia, ai sensi dell'art. 46 CEDU.

3. Tanto premesso, occorre passare a considerare il merito del ricorso di Contrada, verificando se il provvedimento impugnato sia rispettoso dell'obbligo di conformazione alla decisione presupposta previsto dall'art. 46 CEDU e, in caso di risposta negativa, quali siano gli strumenti processuali attivabili nel diritto interno per dare esecuzione alla pronuncia della Corte EDU che si sta considerando.

4. Al primo quesito, relativo alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi, per il caso Contrada, alla decisione della Corte EDU che lo riguarda, occorre fornire risposta positiva.

Osserva, anzitutto, il Collegio che costituisce dato ermeneutico consolidato (Sez. 1, n. 2800 dell'1 febbraio 2006, dep. 2007, Dorigo, Rv. 235447) quello dell'efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante alle stesse non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale (Corte cost., sent. n. 388 del 1999; Corte cost., sent. 10 del 1993).

Sul piano applicativo, l'efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dall'art. 19 del testo convenzionale che prevede l'istituzione della Corte EDU per «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli [...]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della predetta normativa.

In questo contesto normativo, si inserisce la previsione dell'art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «Alte Parti contraenti s'impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti».

La stessa disposizione precisa, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l'esecuzione».

L'obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell'art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell'esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione [...]».

L'obbligo previsto dall'art. 46 CEDU, dunque, non può essere messo in discussione.

Il contrario assunto, da cui muove la Corte di appello di Palermo per emettere la declaratoria di inammissibilità censurata dalla difesa di Contrada, non è condivisibile.

Tale assunto, infatti, presuppone un margine di discrezionalità nell'esecuzione delle decisioni della Corte EDU - che limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi - non può essere riconosciuto al giudice nazionale.

Basti, in proposito, richiamare ulteriormente l'orientamento (Sez. 1, n. 2800 dell'1 febbraio 2006, dep. 2007, Dorigo, cit.) secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove è possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata.

Occorre, pertanto, ribadire conclusivamente che la previsione dell'art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato.

5. Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all'efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l'ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato dalla Corte EDU, occorre affrontare l'ulteriore questione, concernente gli strumenti in concreto attivabili per rimuovere le conseguenze della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo nei confronti di Contrada il 25 febbraio 2006.

Osserva, in proposito, il Collegio che, nel caso di specie, il rimedio esperibile deve essere individuato, analogamente a quanto già affermato nella sentenza Dorigo citata, nell'incidente di esecuzione. Né osta alla praticabilità di tale soluzione la circostanza che la predetta decisione riguardava una violazione di natura processuale; mentre, nell'ipotesi in esame, la violazione ravvisata dalla Corte EDU è di natura sostanziale.

Quello che rileva, infatti, è che nel caso di violazioni delle norme convenzionali afferenti al diritto penale sostanziale, specificamente riconducibili all'art. 7, viene censurata la piattaforma legale sulla base della quale interviene una sentenza di condanna, ritenuta generica, imprecisa ovvero indeterminata nelle sue connotazioni di conoscibilità e prevedibilità. La norma che impone che le decisioni di condanna intervengano sulla base di precetti astrattamente conoscibili e prevedibili - come già affermato dalla Corte EDU nella sentenza emessa il 6 marzo 2003 nel caso Zaprianov contro Bulgaria - è dunque caratterizzata da una matrice intrinsecamente garantista.

5.1. Così inquadrata la violazione dell'art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte EDU - non può rilevare in questa sede se a torto o a ragione - nella vicenda giurisdizionale che ha coinvolto il ricorrente, il Collegio osserva che non può comunque essere eluso l'obbligo di conformarsi a detta decisione, pur tenendo conto delle peculiarità del caso Contrada.

È perciò compito dell'interprete ricercare nell'ordinamento interno gli strumenti processuali attraverso i quali eseguire, tenuto conto delle emergenze del caso concreto, la sentenza della Corte europea presupposta e siffatti strumenti non possono che essere individuati nell'ambito dei poteri di cui dispone il giudice dell'esecuzione.

Tale soluzione si impone anche alla luce della posizione giurisprudenziale da ultimo recepita dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, Rv. 260700), che, intervenendo in relazione alle conseguenze sistematiche prodotte dalla sentenza della Corte costituzionale 11 febbraio 2014, n. 32, nell'ambito delle quali affrontavano il problema del bilanciamento tra il valore dell'intangibilità del giudicato e l'esecuzione di una decisione penale rivelatasi successivamente illegittima, affermavano il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di incidere sul giudicato. Codesto potere-dovere, del resto, è connaturato alla funzione giurisdizionale propria del giudice dell'esecuzione, atteso che - come affermato in un precedente arresto chiarificatore delle stesse Sezioni unite (Sez. un., n. 4687 del 20 dicembre 2005, dep. 2006, Catanzaro, Rv. 232610) - una volta «dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima attribuzione [...]».

Tanto si impone anche in ossequio a esigenze di razionalità del sistema processuale.

Non è, pertanto, possibile ritenere non attivabile un percorso di tutela giurisdizionale di Contrada, in relazione alla decisione della Corte EDU presupposta, invocando l'avvenuto esaurimento del rapporto giurisdizionale, conseguente al fatto che il ricorrente ha interamente scontato la pena principale di dieci anni di reclusione irrogatagli dal Tribunale di Palermo con sentenza emessa il 5 aprile 1996, confermata dalla pronuncia della Corte di appello di Palermo del 25 febbraio 2006.

Questa soluzione, invero, non tiene conto degli effetti penali ulteriori rispetto a quelli connessi all'esecuzione della pena principale, dei quali, invece, occorre dichiarare l'improduttività.

Si consideri ulteriormente che, come evidenziato dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, cit.), l'ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva - che legittima nel caso di specie l'attivazione dei poteri di cui agli artt. 666 e 670 c.p.p. per conformarsi alla decisione della Corte EDU - è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 210 del 2013), secondo la quale il giudice dell'esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso [...]».

Opzione, questa, già recepita in un precedente intervento chiarificatore delle Sezioni unite (Sez. un., n. 34472 del 24 ottobre 2013, Ercolano, Rv. 252933), nel quale si era affermato che al giudice dell'esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, ai sensi degli artt. 666 e 670 c.p.p., atteso che lo strumento previsto «dall'art. 670 c.p.p., pur sorto per comporre i rapporti con l'impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell'ambito applicativo dell'istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo». E ancora: «Il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 c.p.p., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo».

5.2. In questa cornice sistematica, deve anzitutto escludersi la possibilità di attivare il procedimento di revisione previsto dall'art. 630 c.p.p., così come prefigurato dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113 del 2011), per rimuovere gli effetti della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006.

Deve, infatti, rilevarsi che tale percorso giurisdizionale, originariamente attivato da Contrada davanti alla Corte di appello di Caltanissetta, non è più concretamente esperibile, in conseguenza della sentenza emessa il 20 gennaio 2017 dalla Sezione quinta penale di questa Corte, che concludeva il procedimento di revisione in questione con la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione proposta, per effetto della rinuncia al ricorso, depositata il 28 dicembre 2016.

5.3. Va ad ogni buon conto evidenziato che, con la decisione n. 113 del 2011, la Corte costituzionale si riferisce allo «impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell'interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo». E - a ragione della declaratoria d'illegittimità costituzionale «dell'art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo» - osserva come la revisione, comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove, costituisce l'istituto che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell'ordinamento nazionale al parametro evocato.

Tuttavia, fermo l'obbligo di conformazione, è la stessa Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113, cit.) che ha rimarcato come la necessità della riapertura vada apprezzata sia in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata sia tenendo conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, oltre che nella sentenza "interpretativa" eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 3, della CEDU.

Nel caso in esame rileva dunque che non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo e che la decisione della Corte di Strasburgo, per la sua natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria; che il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici e che il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro sistema penale, assistito da garanzia costituzionale; che, secondo la giurisprudenza interna, le sentenze di merito e quelle di legittimità che hanno portato alla condanna di Contrada, la questione di diritto diversamente intesa dalla Corte EDU atteneva, invece, alla configurabilità dell'ipotesi del concorso di persone (art. 110 c.p.) in relazione alla fattispecie di cui all'art. 416-bis c.p., anziché di mero favoreggiamento (principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio, Sez. 2, n. 15756 del 12 dicembre 2002, dep. 2003, Contrada, Rv. 225566, e ribadito nella seconda sentenza di legittimità, Sez. 6, n. 542 del 10 maggio 2006, dep. 2007, Contrada, Rv. 238242); che, per conseguenza, nessuna "rinnovazione" di attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte EDU, sarebbe un mero errore di diritto.

5.4. Nemmeno, per altro verso, è esperibile il rimedio previsto dall'art. 673 c.p.p., finalizzato all'eliminazione, mediante revoca, della sentenza di condanna nei casi in cui è venuto meno l'illecito penale per l'intervento del legislatore o della Corte costituzionale; condizioni, queste, pacificamente insussistenti nel caso in esame, che rendono infondate le pretese del ricorrente incentrate sulle potenzialità applicative dell'istituto revocatorio.

Le esposte considerazioni, relative alla possibilità di intervenire sul giudicato ai sensi dell'art. 670 c.p.p., al contempo, impongono di ritenere quantomeno irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell'art. 673 c.p.p., in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost., proposta da Contrada in via subordinata, nella parte in cui tale disposizione non prevede l'ipotesi della revoca della sentenza di condanna per le decisioni emesse dalla Corte EDU.

Né sussistono contrasti interpretativi, in ordine all'applicazione dell'art. 673 c.p.p. alle ipotesi assimilabili a quelle in esame, idonei a legittimare la rimessione del procedimento alle Sezioni unite, che veniva richiesta dalla difesa di Contrada nelle memorie difensive del 25 giugno 2017.

Nel caso di specie, non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto, la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte EDU, com'è desumibile - oltre che dall'assenza di riferimenti testuali a una tale possibilità - dalle statuizioni relative al rigetto della domanda di equa soddisfazione, rilevante ai sensi dell'art. 41 CEDU, contenute nel punto 4 del dispositivo della decisione in esame.

La decisione della Corte EDU non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in questa sede ai sensi degli artt. 666 e 670 c.p.p., occupandosi esaustivamente di tutti i profili censori sollevati da Contrada nel giudizio svoltosi in sede sovrannazionale, riguardanti, oltre alla violazione dell'art. 7 CEDU, la domanda di equa soddisfazione - di cui si è detto - e i danni patiti per effetto del processo conclusosi con la sentenza irrevocabile presupposta.

5.5. Occorre, pertanto, ribadire che la sentenza pronunziata dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia non impone interventi in executivis differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 c.p.p.

Non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all'applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 c.p.p. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l'eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, cit.).

In conclusione, non resta che riconoscere che, a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14 aprile 2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007, violerebbe l'art. 7 CEDU, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali.

6. Per queste ragioni, l'ordinanza emessa dalla Corte di appello di Palermo l'11 ottobre 2016 deve essere annullata senza rinvio e la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25 febbraio 2006, divenuta irrevocabile il 10 maggio 2007, deve essere dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali.

La cancelleria provvederà alle comunicazioni al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 626 c.p.p.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e dichiara ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada Bruno dalla Corte di appello di Palermo in data 25 febbraio 2006, irrevocabile il 10 maggio 2007.

Manda la cancelleria per le comunicazioni al Procuratore generale in sede ai sensi dell'art. 626 c.p.p.

Depositata il 20 settembre 2017.

R. Garofoli

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