Corte di cassazione
Sezione I civile
Ordinanza 27 ottobre 2017, n. 25631

Presidente: Nappi - Relatore: Lamorgese

FATTI DI CAUSA

1. Il Comune di Taranto conferì il 23 dicembre 2003 alla Banca per la Finanza alle Opere Pubbliche e alle Infrastrutture s.p.a. (di seguito, Banca OPI) un incarico di advisoring sulle strategie di gestione del proprio indebitamento, sfociato nel successivo conferimento alla Banca OPI, in data 24 marzo 2004, dell'incarico di collocamento e, in data 21 aprile 2004, nell'emissione di un prestito obbligazionario comunale (P.O.), interamente sottoscritto dalla banca, di 250 milioni di euro, dei quali 142,2 milioni destinati ad estinguere preesistenti mutui contratti dal Comune con la Cassa Depositi e Prestiti e 107,8 milioni destinati al finanziamento di investimenti in opere pubbliche, nonché in un'apertura di credito per ulteriori 100 milioni di euro presso la medesima banca, dei quali 25 milioni poi effettivamente utilizzati dal Comune per finalità di finanziamento di opere pubbliche a fronte di alienazioni patrimoniali.

2. Il Tribunale di Taranto ha ritenuto inammissibile l'eccezione della Banca OPI di nullità del contratto di advisoring per mancanza di forma scritta e, in accoglimento della domanda del Commissario straordinario del Comune di Taranto (del quale nel frattempo era stato dichiarato il dissesto), ha condannato la convenuta Banca OPI al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, derivante dall'inadempimento dell'incarico di advisoring; ha dichiarato, per varie ragioni, la nullità dei contratti di finanziamento e delle delegazioni di pagamento emesse a garanzia dall'ente debitore sul proprio tesoriere Banca Popolare di Puglia e Basilicata s.c.p.a. - pure costituitasi in giudizio su chiamata di entrambe le parti - in favore della banca creditrice; quindi, ha condannato quest'ultima a restituire al Comune le somme nel frattempo riscosse a parziale estinzione dei debiti contratti, con gli interessi legali dalla data della riscossione, e il Comune - in parziale accoglimento della subordinata domanda riconvenzionale della controparte - a restituire alla banca le somme ricevute a titolo di finanziamento, con gli interessi legali dalla data della domanda e la rivalutazione monetaria. A quest'ultimo riguardo, il Tribunale ha ritenuto nullo il prestito obbligazionario anche per illiceità della causa concreta del negozio, ma non ha condiviso la tesi del Comune che, a sostegno dell'invocata soluti retentio (art. 2035 c.c.), evidenziava che la causa del contratto era stata piegata al perseguimento di scopi contrari ai principi etici e giuridici dell'ordinamento, incompatibili con l'interesse pubblico al quale apparentemente l'operazione finanziaria era funzionale.

3. Con sentenza del 22 giugno 2012, la Corte d'appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, adita sia dalla Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo s.p.a. (subentrata nel rapporto alla Banca OPI) sia dal Comune, disattesa l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario sollevata dalla banca, ha parzialmente accolto i gravami con riguardo alle sole domande restitutorie, diversamente modulando le restituzioni, ed ha confermato per il resto la sentenza di primo grado, in particolare quanto alle statuizioni di nullità dell'intero prestito obbligazionario (P.O.) e dell'apertura di credito, con le connesse delegazioni di pagamento in garanzia, per assenza del vincolo contrattuale (segnatamente per la mancanza della previa deliberazione del consiglio comunale) e illiceità della causa; ha confermato la statuizione di rigetto dell'eccezione del Comune che invocava la soluti retentio.

4. Intesa San Paolo s.p.a., subentrata a sua volta a Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione con numerosi motivi, il primo dei quali, attinente alla giurisdizione, è stato deciso dalle Sezioni unite (con sentenza n. 11366 del 2016) che hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario; seguono sette gruppi di motivi: il primo gruppo, al quale appartiene un unico motivo (II.2.4), riguarda la questione della dedotta nullità del contratto di advisoring per mancanza di forma scritta prevista per i contratti delle pubbliche amministrazioni; il secondo gruppo, cui si riferiscono quattro motivi, riguarda la determinazione dell'oggetto del predetto contratto (II.2.5, II.2.6) e, in via consequenziale, l'inadempimento della Banca OPI (II.2.7, II.2.8); il terzo gruppo riguarda la condanna generica della Banca OPI al risarcimento del danno (II.2.9); il quarto gruppo riguarda la violazione dei principi in tema di onere di allegazione e prova dell'inadempimento (II.2.10); il quinto gruppo si articola in sei motivi (da II.3.1 a II.3.6) riguardanti la questione della nullità del prestito obbligazionario (P.O.) per diversi profili; il sesto gruppo si articola in due motivi riguardanti la nullità dell'apertura di credito e delle delegazioni di pagamento (II.4.1, II.4.2); il settimo gruppo (in via subordinata nel caso di rigetto dei motivi di ricorso avverso la pronuncia di nullità del prestito obbligazionario) riguarda la pronuncia di nullità dell'intero prestito obbligazionario anziché, in ipotesi, di una parte di esso (II.5.1), l'importo delle consequenziali restituzioni dovute dal Comune di Taranto (II.5.2), la mancata compensazione in senso improprio tra i debiti e crediti accertati (II.5.3), la determinazione del maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c. sul credito restitutorio della banca (II.5.4.1, II.5.4.2, II.5.4.3), la decorrenza degli interessi sulle somme da restituire (II.5.5.1), anche in relazione al profilo della dedotta mala fede del Comune nella riscossione (II.5.5.2).

5. Il Comune di Taranto e la Banca Popolare di Puglia e Basilicata s.c.p.a. si sono difesi con distinti controricorsi e il Comune ha proposto ricorso incidentale con due motivi, riguardanti, da un lato, l'esclusione della soluti retentio, già eccepita al fine di paralizzare la domanda restitutoria della banca e, dall'altro, la condanna alla rivalutazione monetaria del dovuto. Intesa San Paolo ha resistito con controricorso. Le parti hanno presentato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale (II.2.4), Intesa San Paolo ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 17 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, e 23, comma 3, t.u.f. (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) per avere i giudici di merito ritenuto la Banca OPI priva di legittimazione a fare valere la nullità del contratto di advisoring, non essendo il vincolo contrattuale consacrato in un unico documento contrattuale, e ciò in applicazione dell'art. 23, comma 3, t.u.f., in base al quale la nullità per mancanza di forma scritta può essere fatta valere solo dal cliente e, nella specie, dal Comune di Taranto e non dalla banca.

1.1. Il motivo è fondato.

La questione giuridica che viene per la prima volta all'esame di questa Corte riguarda il rapporto tra la forma scritta prevista per la generalità dei contratti della P.A. - risalente all'art. 17 r.d. n. 2440/1923 e, per i Comuni, all'art. 87 del r.d. n. 383 del 3 marzo 1934 - che è ad substantiam, quindi a pena di nullità, rilevabile d'ufficio ed eccepibile anche dalla controparte della P.A., salvo che sulla validità del contratto sia formato un giudicato (Cass. n. 12880/2010, n. 1702/2006), e la forma scritta dei contratti di intermediazione finanziaria, la cui mancanza, a norma dell'art. 23, comma 3, t.u.f., è rilevabile solo dal cliente e, quando cliente sia una P.A., solo da quest'ultima, cioè nella fattispecie dal Comune di Taranto (cfr. anche gli artt. 117, comma 1, e 127, comma 2, del t.u.b., approvato con d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, cd. t.u.b.).

La prima opzione è invocata dalla banca ricorrente, mentre la seconda è seguita dai giudici di merito e dal Comune di Taranto.

Il Collegio aderisce alla prima opzione.

1.2. È necessaria una premessa.

La tesi del Comune presuppone che vi sia stata inosservanza di una forma scritta che sia specificamente prevista dal t.u.f., poiché altrimenti non sarebbe nemmeno riconoscibile una nullità contrattuale cui applicare il regime "protettivo" di cui all'art. 23, comma 3, t.u.f.

Un problema quale quello ravvisato dai giudici di merito - di concorrenza tra i rimedi in relazione a regimi diversificati di forma scritta e nullità consequenziale (assoluta per i contratti della P.A., relativa o "protettiva" per i contratti disciplinati dal t.u.f.) - si pone infatti solo nel caso in cui la P.A. sia parte di un contratto sottoposto agli obblighi di forma previsti dal t.u.f., poiché altrimenti non vi sarebbe ragione - solo perché si tratti di un contratto in materia finanziaria o bancaria - di escludere l'applicabilità del regime "forte" delle nullità per vizio di forma ad substantiam, qual è quella tipica dei contratti della P.A.

Nella specie, la sentenza impugnata, nell'aderire alla seconda opzione, nel senso del difetto di legittimazione della banca a far valere la nullità del contratto ex art. 23, comma 3, t.u.f., ha accertato che il contratto di advisoring stipulato con il Comune di Taranto, avendo ad oggetto un "servizio accessorio ai servizi di investimento", doveva essere redatto per iscritto, a norma dell'art. 23, comma 1, t.u.f., e questo capo decisorio non è oggetto di censure; qualora, invece, si fosse trattato di un contratto di pura "consulenza in materia di investimenti", esso sarebbe stato esentato dall'obbligo di forma scritta, a norma dell'art. 1, comma 5, lett. f, t.u.f. (richiamato dall'art. 23, comma 1), e il problema di concorrenza cui si è accennato non si sarebbe posto.

1.3. Nell'ipotesi in esame, in cui è configurabile un obbligo di forma scritta secondo il t.u.f. (art. 23 t.u.f.) e "cliente" è una P.A., concorrono rimedi diversamente modulati dall'ordinamento per vizio di forma scritta del contratto. La Corte di merito - avendo fatto prevalere la disciplina "speciale" delle nullità protettive di cui all'art. 23, comma 3, t.u.f. rispetto a quella delle nullità per violazione di forma ad substantiam, che è ugualmente "speciale" in quanto tipica dei contratti della P.A. - è incorsa in falsa applicazione di norme di diritto.

A sostegno di questa tesi il Comune di Taranto ha osservato che, nella logica del t.u.f., la forma scritta costituisce uno strumento di protezione rispetto ai possibili abusi degli operatori finanziari professionali e ciò spiega perché alla clientela è lasciata la decisione di valutare la tutela più rispondente ai propri interessi, anche quella di non far valere la causa di invalidità del contratto, e non vi sarebbe ragione per disapplicare questi principi, validi nei confronti di tutti i soggetti che intrattengono rapporti con gli intermediari finanziari, nel caso in cui cliente sia una pubblica amministrazione.

Questa osservazione che fa leva sulla finalità protettiva dell'art. 23 t.u.f., nei confronti di chiunque contragga con un intermediario o soggetto equiparato, quale premessa concettuale dell'opzione ermeneutica di affidare solo al cliente (P.A. compresa) il potere di far valere la nullità per vizio di forma, sottraendola al giudice e alla controparte "forte", non tiene conto delle ragioni di fondo della forma scritta ad substantiam dei contratti della pubblica amministrazione. La quale non è volta a tutelare gli interessi sia pure pubblici ma settoriali (cioè inerenti all'ambito delle attribuzioni) di un determinato ente pubblico, quanto gli interessi generali della collettività che soverchiano quelli dell'ente pubblico che è parte in causa, quale strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa e di tutela delle risorse pubbliche, in attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della P.A., a norma dell'art. 97 Cost. (tra le tante, Cass. n. 6555/2014, n. 1702/2006).

Per queste ragioni si spiega il rigore della giurisprudenza la quale richiede che i contratti della P.A. (ancorché essa agisca iure privatorum) debbano essere stipulati mediante atti formali, redatti per iscritto dall'organo rappresentativo esterno dell'ente pubblico, munito dei poteri necessari per vincolare l'amministrazione, e dall'altro contraente; soprattutto, si spiega il principio secondo cui la nullità del contratto privo della forma ad substantiam - come si è detto - è rilevabile d'ufficio dal giudice ed è insuscettibile di qualsiasi forma di sanatoria, senza possibilità di ravvisarne la stipulazione per facta concludentia o in modo implicito da singoli atti (tra le tante, Cass. n. 1236/2015, 21477/2013) o di desumere la forma scritta dall'emanazione di una delibera autorizzativa che è atto interno, di natura preparatoria, inidoneo ad impegnare l'ente (tra le tante, Cass. n. 1167/2013, n. 4532/2008).

Si deve pertanto seguire la prima opzione tra quelle in campo (v. infra sub 1.1), dovendosi riconoscere la prevalenza del regime della forma scritta ad substantiam che è propria dei contratti della Pubblica Amministrazione - con consequenziale rilevabilità d'ufficio della nullità ed eccepibilità dalla controparte contrattuale - quando essa sia parte di un contratto stipulato con un intermediario o operatore finanziario, per il quale il t.u.f. preveda la forma scritta, non trovando applicazione l'art. 23, comma 3, t.u.f. secondo il quale la nullità può essere fatta valere solo dal cliente.

1.4. È necessario precisare però che la forma scritta ad substantiam non può dirsi osservata solo nel caso in cui il vincolo contrattuale sia consacrato in un unico documento contrattuale recante la contestuale sottoscrizione di entrambe le parti, potendo essa realizzarsi anche con lo scambio delle missive contenenti rispettivamente la proposta e l'accettazione, vale a dire di distinte scritture formalizzate e inscindibilmente collegate, entrambe sottoscritte, così da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell'accordo, secondo lo schema della formazione del contratto tra assenti.

Quest'orientamento - seguito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di formazione dei negozi a forma scritta ad substantiam (Cass. n. 15993/2014, n. 7747/1993, n. 12411/1991) e spesso confermato anche con riferimento ai contratti della P.A., per i quali non sempre è richiesto un unico documento scritto (Cass. n. 13656/2013, n. 15293/2005), nonché nella materia finanziaria e bancaria (Cass. n. 6559/2017, n. 5919/2016) - è condivisibile.

Esso è coerente con la lettera dell'art. 17 del r.d. n. 2440 del 1923 che non prevede che il vincolo contrattuale sia espresso indefettibilmente in un unico documento sottoscritto da entrambi i contraenti (fatte salve disposizioni legislative espresse in senso diverso). Il citato art. 17 dispone infatti che i contratti a trattativa privata con la P.A. possono stipularsi non solo "per mezzo di scrittura privata firmata dall'offerente e dal funzionario rappresentante l'amministrazione", cioè mediante un unico documento, ma anche "con atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l'offerta", "per mezzo di obbligazione stesa appiedi del capitolato" e "per mezzo di corrispondenza, secondo l'uso del commercio, quando sono conclusi con ditte commerciali", e non v'è ragione giuridica, di ordine testuale o sistematica, per confinare tale ultima modalità a fattispecie negoziali marginali o di modesto importo.

Al giudice di rinvio è riservato il compito di accertare in concreto se, nella formazione del contratto di advisoring di cui è causa, sia stata rispettata la forma scritta ad substantiam, secondo le modalità poc'anzi indicate.

2. Restano assorbiti il secondo, terzo e quarto gruppo di motivi (da II.2.5 a II.2.10), riguardanti l'inadempimento del medesimo contratto di advisoring e la condanna generica della Banca OPI ai danni.

Non sono assorbiti invece - come rilevato dal P.G. - i motivi che seguono, concernenti le operazioni di emissione del prestito obbligazionario comunale e l'apertura di credito.

3. Venendo al quinto gruppo di motivi (da II.3.1 a II.3.6), riguardanti la nullità del prestito obbligazionario (P.O.), con il primo di essi (II.3.1) la ricorrente Intesa San Paolo Banca ha censurato la dichiarazione di nullità dell'intero prestito obbligazionario per "mancanza di consenso riferibile alla P.A." e "assenza di vincolo contrattuale", per violazione e falsa applicazione degli artt. 204, 205 e 205-bis del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, t.u.e.l.), 1325, 1350, 1362-1371 c.c. e, in particolare, della norma (art. 42, comma 2, t.u.e.l.) che attribuisce alla competenza esclusiva ed inderogabile del consiglio comunale, quale organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo, l'emissione di prestiti obbligazionari e la deliberazione di spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, oltre che per vizio di motivazione.

La tesi della ricorrente è che la Corte di merito avrebbe male interpretato l'art. 42 t.u.e.l., il quale prevede la competenza esclusiva del Consiglio comunale soltanto per la "emissione di prestiti obbligazionari" e la "contrazione di mutui", mentre con il contratto del 24 marzo 2004 la banca si era limitata a garantire il collocamento di (o la sottoscrizione dei) prestiti obbligazionari, senza obbligo del Comune di emetterli o di contrarre mutui o di assumere spese impegnative per i bilanci degli esercizi successivi; l'emissione del prestito obbligazionario era avvenuta con delibera del Consiglio comunale del 21 aprile 2004, che integrava un valido vincolo contrattuale, essendo irrilevante il contratto di collocamento del 24 marzo 2004, il quale obbligava la banca all'assunzione "a fermo" dell'intero quantitativo di titoli obbligazionari nel caso in cui il P.O. fosse stato successivamente deliberato dal Consiglio comunale, come avvenuto il 21 aprile.

3.1. Il motivo è inammissibile, non censurando specificamente la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha osservato che, con la scrittura del marzo 2004 di conferimento dell'incarico di collocamento (di Euro 250 milioni di BOC), il dirigente del Comune, L., aveva impegnato la sfera negoziale dell'ente in assenza di una deliberazione del Consiglio comunale e che, con la delibera dell'aprile 2004, il Consiglio comunale gli aveva conferito una serie di poteri già indebitamente esercitati, in mancanza di preventiva deliberazione del medesimo Consiglio, anche tenuto conto che si trattava di deliberazioni che, ratione materiae, non potevano essere adottate in via d'urgenza da altri organi del comune (art. 42, ultimo comma, t.u.e.l.). Inoltre nel motivo non è trascritto il contenuto del contratto del marzo 2004 e della delibera dell'aprile 2004, con l'effetto di non consentire a questa Corte di esaminare la censura senza ricorrere a un non consentito esame degli atti di causa, al fine di comprendere se il contratto di collocamento del marzo 2004 obbligasse, o no, il Comune ad emettere il P.O.

4. Ne consegue che la ratio decidendi impropriamente censurata nel precedente motivo è da sola idonea a sorreggere la decisione impugnata, restando assorbiti gli altri motivi formulati nel quinto gruppo (da II.3.2 a II.3.6) che censurano le altre rationes decidendi poste a fondamento della nullità del prestito obbligazionario, tra l'altro con argomenti che mirano impropriamente a una interpretazione degli atti negoziali diversa rispetto a quella compiuta dai giudici di merito.

5. I motivi esposti nel sesto gruppo riguardano l'apertura di credito e le delegazioni di pagamento.

6. Con il motivo sub II.4.1 è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 42 e 203 t.u.e.l., 1343 e 1418 c.c., per avere ritenuto la nullità dell'apertura di credito e delle relative delegazioni di pagamento nelle more dell'alienazione del patrimonio immobiliare, per mancanza delle delibere comunali di autorizzazione, in applicazione dell'art. 42, comma 2, t.u.e.l. che però, nel testo all'epoca vigente, non prevedeva la competenza esclusiva del Consiglio comunale (poi introdotta dall'art. 1, comma 68, l. 30 dicembre 2004, n. 311); il motivo contiene censure alle ulteriori rationes decidendi, riguardanti la mancata inclusione del prestito nel bilancio di previsione del 2004 e l'illiceità della causa, omettendo i giudici di merito di considerare che il Commissario straordinario aveva incluso il debito del Comune per l'apertura di credito tra i "debiti di bilancio".

6.1. Il motivo è inammissibile perché non censura, o censura genericamente, le seguenti rationes decidendi contenute nella sentenza impugnata: quella secondo la quale vi era stata una transazione tra la Banca Opi e l'Organo straordinario di liquidazione del Comune di Taranto, all'esito della quale la banca aveva dichiarato di non avere più nulla a pretendere riguardo ai crediti derivanti dall'apertura di credito; quella secondo la quale si trattava di spese implicanti un indebitamento non risultante dai bilanci di previsione 2004 e pluriennale 2004-2006, non rilevando la ratifica ex post del Commissario straordinario; quella secondo la quale il prestito collegato all'apertura di credito implicava l'assunzione di spese impegnative per i bilanci successivi e ciò richiedeva una deliberazione preventiva del Consiglio comunale, a norma dell'art. 42, comma 2, lett. i), t.u.e.l. (nel testo vigente ratione temporis), che era mancata.

7. Con il motivo sub II.4.2 è denunciata la violazione degli artt. 206 t.u.e.l., 35, comma 8, l. 23 dicembre 1994, n. 724 e vizio di motivazione, per avere erroneamente ritenuto che fosse venuta meno la giustificazione causale delle delegazioni di pagamento, mentre si trattava di negozi astratti e autonomi e, quindi, insensibili alle vicende sostanziali dei rapporti.

7.1. Il motivo è inammissibile, contenendo censure eccentriche rispetto alla ratio decidendi fondata sull'accertamento compiuto dal giudice di primo grado e ribadito dalla Corte d'appello - che si vorrebbe impropriamente sovvertire - secondo cui si trattava di delegazioni attinenti a debiti per i quali non esisteva un valido impegno di spesa e non era stata adottata una delibera consiliare autorizzativa.

8. Segue logicamente l'esame del primo motivo del ricorso incidentale del Comune di Taranto, che deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2035 c.c. La tesi esposta nel motivo in esame è che la Corte di merito avrebbe errato nell'escludere la configurabilità dell'invocata soluti retentio in una situazione in cui l'assunzione del prestito obbligazionario, grazie al contributo di un funzionario infedele, era volta a realizzare uno scopo immorale, quello di aggravare la situazione debitoria del Comune, al punto di procurarne eziologicamente il dissesto; erroneamente la Corte avrebbe ritenuto che, escluso il rapporto di immedesimazione organica con il funzionario infedele, il Comune non poteva beneficiare della soluti retentio, in quanto terzo rispetto agli stipulanti e per la mancanza della comunanza dello scopo immorale, mentre - secondo la tesi - non rileverebbe che destinatario della prestazione sia un soggetto (nella specie, il Comune) estraneo alla stipula del negozio quando, come nella specie, ne abbia ricevuto gli effetti, non potendo esso dirsi estraneo al negozio ed essendo legittimato ad opporre la soluti retentio, in quanto destinatario degli effetti immorali del negozio; inoltre, la Corte avrebbe errato nel ritenere applicabile l'art. 2035 c.c. nelle sole ipotesi nelle quali la prestazione sia incommerciabile e intrinsecamente irripetibile.

8.1. Il motivo è fondato nei termini che seguono.

La sentenza impugnata ha condannato il Comune di Taranto a restituire le somme corrispostegli dalla banca, in conseguenza della nullità del prestito obbligazionario (P.O.), avendo escluso la configurabilità dei presupposti della soluti retentio, perché: 1) lo scopo immorale del prestito sarebbe stato perseguito soltanto dalla banca (solvens), dovendo intendersi interrotto il rapporto di immedesimazione organica tra il Comune e il funzionario L. che, abusando della sua posizione dirigenziale e in collusione con la banca, aveva pattuito il collocamento del prestito obbligazionario nella consapevolezza dell'assenza del consenso negoziale da parte dell'amministrazione; di conseguenza, il Comune non poteva invocare la retentio, in quanto "terzo" rispetto agli stipulanti (banca da un lato, funzionario dall'altro); 2) la soluti retentio sarebbe inapplicabile alle prestazioni esecutive di un negozio nullo per violazione di norme imperative; 3) la prestazione della banca non era incommerciabile, consistendo nell'erogazione di somme di denaro a titolo di finanziamento e, quindi, ripetibili.

La Corte di merito, pur avendo correttamente inteso, in astratto, la nozione di prestazione contraria al buon costume, in linea con la giurisprudenza di legittimità - secondo la quale questa nozione non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico; pertanto, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume (Cass. n. 9441/2010, n. 5371/1987, n. 2081/1985, Sez. un. 4414/1981) - ha poi ricostruito la struttura della soluti retentio in modo non corrispondente alla fattispecie legale dell'istituto.

In primo luogo, l'argomento basato sull'interruzione del rapporto di immedesimazione organica tra il Comune e il funzionario, autore della contrattazione con la banca, presuppone implicitamente che la partecipazione alla contrattazione illecita impedisca al Comune di invocare la soluti retentio. In tal modo, tuttavia, è travisata la funzione dell'istituto che trova la sua ragione giustificatrice nei brocardi in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis - per cui in una situazione di eguale turpitudine è tutelata la condizione di chi possiede, cioè abbia ricevuto la prestazione illecita, negandosi all'altro contraente non solo la possibilità di pretendere l'esecuzione del contratto (al fine di ottenere la prestazione illecita altrui), ma anche di chiedere la rimozione di quanto, in offesa al buon costume, si fosse fatto per eseguirlo, cioè la ripetizione di quanto eventualmente già corrisposto, pur in assenza di una valida causa debendi (Cass. n. 2420/1972) - e nemo auditur suam turpitudinem allegans, impedendosi all'attore di prospettare davanti al giudice le condizioni di un accordo immorale e vergognoso per trarne un titolo valido a giustificare la propria pretesa (Cass. n. 1643/1968).

Inoltre, l'interruzione del rapporto di immedesimazione organica, apoditticamente affermata nella sentenza impugnata e contraddittoriamente nello stesso motivo senza però inficiarlo, non si confronta con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la riferibilità del comportamento del dipendente all'amministrazione viene meno solo in casi estremi, quando il primo agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all'amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - facendo escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l'attività del dipendente e la P.A. (Cass. n. 8306/2011, n. 20986/2007). Come rilevato dal P.G., nella fattispecie in esame, il destinatario del finanziamento era il Comune e non il funzionario, il quale agiva nell'interesse del primo.

Il secondo argomento utilizzato dalla Corte di merito, in ordine all'inapplicabilità della soluti retentio alle prestazioni esecutive di un negozio nullo per violazione di norme imperative, non considera che l'accertamento che un contratto sia contrario a norme imperative e quindi nullo per tale ragione (art. 1343 c.c.) non impedisce una autonoma valutazione dell'atto dal punto di vista della sua eventuale contrarietà al buon costume, al fine di negare l'azione di ripetizione, a norma dell'art. 2035 c.c. (Cass. n. 5371/1987; Sez. un., n. 4414/1981).

Il terzo argomento speso dai giudici di merito, in ordine all'intrinseca ripetibilità della prestazione della banca, consistente nell'erogazione di somme di denaro a titolo di finanziamento, travisa la nozione di incommerciabilità con la quale, ai fini della soluti retentio, si intende non un dato materiale, qual è quello della concreta ripetibilità della prestazione (pecuniaria), ma giuridico, nel senso che la pretesa restitutoria non può formare oggetto di obbligazione (art. 1174 c.c.), in quanto fondata su un contratto illecito (perché, in ipotesi, contrario al buon costume), non corrispondendo quindi ad un interesse giuridicamente tutelabile del creditore.

Spetta al giudice di rinvio di valutare, alla luce dei suddetti principi, se la complessa fattispecie negoziale di finanziamento sia stata posta in essere dalle parti per uno scopo immorale, dedotto dal Comune di Taranto a sostegno della soluti indebiti, al fine di paralizzare la pretesa restitutoria della banca.

9. Restano assorbiti i restanti motivi formulati nel ricorso principale di Intesa San Paolo (da II.5.1 a II.5.5.2) e il secondo motivo del ricorso incidentale del Comune di Taranto.

10. In conclusione, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale (II.2.4) e del primo motivo del ricorso incidentale, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d'appello di Lecce, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale; dichiara inammissibili o infondati gli altri motivi; in relazione ai motivi accolti, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Lecce, in diversa composizione, anche per le spese.

F. Caringella

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