Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 21 dicembre 2017, n. 3775

Presidente: Canzio - Estensore: Montagni

RITENUTO IN FATTO

1. Il Ministero della giustizia, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze indicata in epigrafe con la quale è stato respinto il reclamo proposto dall'Amministrazione penitenziaria avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Pisa che, in accoglimento parziale della istanza presentata dal detenuto David T., aveva disposto a titolo di risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen., una riduzione di ottantasei giorni di pena detentiva ancora da espiare ed euro 16,00 per compensazione monetaria.

Con unico motivo l'Ufficio ricorrente deduce violazione degli artt. 35-ter ord. pen., 2935 e 2947 c.c., dolendosi del mancato accoglimento dell'eccezione di intervenuta prescrizione quinquennale del diritto, in riferimento ai periodi detentivi anteriori all'8 luglio 2009. Osserva che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che la domanda ex art. 35-ter ord. pen. avesse natura indennitaria, anziché risarcitoria, e che la prescrizione non potesse decorrere da una data antecedente a quella in cui la pretesa era divenuta azionabile, per effetto del d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 117.

Si assume che l'istanza ex art. 35-ter ord. pen. è riconducibile ad un'azione di risarcimento del danno, introdotta per l'ipotesi in cui il detenuto subisca pregiudizi derivanti dalla degradante condizione detentiva; e che la riduzione di pena introdotta dall'art. 35-ter, costituisce un'ipotesi di risarcimento del danno in forma specifica. Si rileva poi che la novella del 2014 non ha introdotto un nuovo diritto soggettivo precedentemente non azionabile ma ha soltanto innovativamente disciplinato le modalità risarcitorie del danno di cui si tratta.

Osserva il Ministero ricorrente che la violazione del diritto ad una detenzione conforme all'art. 3 CEDU costituisce un danno ingiusto risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c.; con la conseguenza che tale diritto poteva essere fatto valere anche in data antecedente alla introduzione dell'art. 35-ter ord. pen., sicché deve ritenersi maturata la prescrizione relativa alla detenzione subita prima del quinquennio anteriore all'entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014.

2. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso. Osserva che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito la peculiarità dell'istituto introdotto dall'art. 35-ter ord. pen., di ispirazione solidaristica e di indubbia connotazione pubblicistica, di talché privo di fondamento è il richiamo alla disciplina della prescrizione quinquennale stabilita dalle norme che regolano l'esercizio delle azioni civili tra privati, senza alcun rilievo pubblicistico.

3. Con ordinanza del 21 luglio 2017 la Prima Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite per la soluzione della seguente questione di diritto, oggetto di contrasto giurisprudenziale: "se il Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi degli artt. 35-bis e 35-ter, legge n. 354 del 1975, debba essere condannato al pagamento delle spese processuali ed eventualmente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d'inammissibilità del ricorso, ai sensi dell'art. 616 c.p.p.".

La Sezione rimettente premette che il ricorso dovrebbe essere rigettato, in conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale il ristoro dei pregiudizi subiti per la detenzione non conforme ai parametri comunitari - prima della introduzione dell'art. 35-ter ord. pen. - non poteva essere azionato con la procedura e nelle forme previste ora dalla norma appena citata e non poteva avere il peculiare contenuto costituito dalla riduzione della pena da espiare. Da tanto consegue l'applicazione del principio generale, secondo cui, ai fini del decorso della prescrizione, rileva la possibilità legale di esercizio del diritto. Sulla scorta di tali rilievi, la Prima Sezione considera: che il termine prescrizionale del diritto al ristoro, nelle forme e con le modalità previste dal d.l. n. 92 del 2014, non poteva decorrere anteriormente all'introduzione del nuovo strumento; e che la prescrizione del diritto, in concreto azionato, non risulta altrimenti maturata.

Tanto premesso, la Prima Sezione osserva che si registra un contrasto nella giurisprudenza in riferimento al regime delle spese processuali, con riguardo alla possibilità di pronunciare condanna al pagamento delle spese nei confronti del Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi degli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., la cui impugnazione venga rigettata.

Ad un indirizzo che ritiene applicabili, nella materia di interesse, i principi di diritto espressi in riferimento al procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione - ove il Ministero delle finanze viene condannato al pagamento delle spese, in caso di rigetto o di declaratoria [di] inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordinanza della corte di appello quale giudice della riparazione - si contrappone un diverso orientamento che esclude la condanna alle spese nei confronti del Ministero della giustizia, ritenuto privo della qualità di parte privata richiesta dall'art. 616 c.p.p.

4. Il Primo Presidente, con decreto del 28 luglio 2017, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando per la trattazione l'udienza in camera di consiglio del 26 ottobre 2017. Successivamente, con decreto del 10 ottobre 2017, il Primo Presidente ha disposto il rinvio della trattazione del ricorso alla odierna udienza camerale.

5. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta. Movendo dai principi affermati dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 34559 del 26 giugno 2002, De Benedictis, Rv. 222265) in riferimento al procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, il Procuratore generale osserva che il ruolo assunto dall'Amministrazione pubblica nel procedimento ex artt. 35-bis e 35-ter ord. pen. risulta assimilabile a quello del Ministero dell'economia e delle finanze nel giudizio riparatorio, nel quale il Ministero è condannato al pagamento delle spese processuali nel caso di rigetto o di declaratoria di inammissibilità del ricorso dal medesimo proposto avverso l'ordinanza della corte di appello quale giudice della riparazione. Rileva che, anche nel caso di specie, devono trovare applicazione i principi affermati dalle Sezioni unite nella sentenza De Benedictis, con la conseguenza che il sintagma "parte privata" di cui all'art. 616, comma 1, c.p.p., deve intendersi comprensivo di tutte le parti processuali diverse dal pubblico ministero.

6. Il Ministero della giustizia, a mezzo dell'Avvocatura generale, ha depositato memoria. Soffermandosi sul disposto di cui all'art. 616 c.p.p., osserva che la "parte privata" non è mai identificabile con lo Stato, che, nell'articolazione del Ministero della giustizia, abbia proposto ricorso per cassazione. Considera che la Cassa delle ammende è un ente pubblico istituito presso il medesimo Ministero della giustizia. Rileva che in caso di ricorsi per cassazione in materia di reclami ex art. 35-bis e 35-ter ord. pen., proposti dal Ministero della giustizia, deve trovare applicazione la regola generale di cui all'art. 616 c.p.p., con conseguente esenzione della parte pubblica dal pagamento di spese e somme a favore della cassa delle ammende.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Occorre in primo luogo censire il contenuto del ricorso proposto dal Ministero della giustizia avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze. Come rilevato dalla Sezione rimettente, infatti, la questione di diritto sottoposta al vaglio delle Sezioni unite, che involge il regime delle spese processuali ex art. 616 c.p.p., presuppone lo scrutinio dei motivi di doglianza ai quali il presente ricorso è affidato.

2. Va innanzi tutto esaminata, d'ufficio, la questione attinente all'ammissibilità del reclamo proposto dall'Amministrazione nella fase di merito del procedimento che occupa.

Il Magistrato di sorveglianza di Pisa, in accoglimento parziale dell'istanza presentata dal detenuto David T., ha disposto a titolo di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. una riduzione di ottantasei giorni di pena detentiva ancora da espiare e il pagamento della somma di euro 16,00 per compensazione monetaria.

Il Tribunale di sorveglianza di Firenze, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha respinto il reclamo che era stato proposto dall'Amministrazione penitenziaria. Detto reclamo risulta sottoscritto dal dirigente del servizio legale regionale dell'Amministrazione penitenziaria, senza l'assistenza dell'Avvocatura generale.

Viene, pertanto, in rilievo il tema relativo alla possibilità o meno per l'Amministrazione penitenziaria di esercitare la facoltà di impugnazione prevista dall'art. 35-bis, comma 4, ord. pen. senza l'assistenza dell'Avvocatura generale dello Stato, giacché l'eventuale inammissibilità del reclamo, se pure non rilevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, dovrebbe essere dichiarata dalla Corte di cassazione (Sez. 2, n. 40816 del 10 luglio 2014, Gualtieri, Rv. 260359).

In merito, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'atto di impugnazione proposto dall'Amministrazione penitenziaria avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza, ai sensi dell'art. 35-bis, comma 4, ord. pen., è inammissibile in mancanza del patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato (Sez. 1, n. 11248 del 17 novembre 2016, dep. 2017, Arfaoui, Rv. 269377; Sez. 1, n. 11249 del 17 novembre 2016, dep. 2017, Condello, Rv. 269513).

2.1. L'assunto non può essere condiviso per le ragioni che si vengono ad esporre.

Come noto, le disposizioni contenute negli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen. traggono origine dalla sentenza della Corte EDU 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, ove si è rilevato che il sovraffollamento carcerario in Italia ha un «carattere strutturale e sistemico». Nel caso, la Corte ha accertato la violazione dell'art. 3 CEDU, per le condizioni disumane e degradanti nelle quali erano stati ristretti in carcere i ricorrenti; ed ha rilevato l'inadeguatezza delle misure esistenti nell'ordinamento italiano per far fronte alle predette condizioni.

Per dare attuazione alla citata sentenza Torreggiani, con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10, è stato quindi introdotto l'art. 35-bis ord. pen., rientrante tra le disposizioni finalizzate alla eliminazione preventiva del pregiudizio costituito dalla detenzione in violazione dell'art. 3 CEDU. Nel medesimo ambito funzionale, se pure sul piano delle misure compensative, volte a riparare il pregiudizio derivante dalle condizioni di detenzione disumane e degradanti, il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 117, ha introdotto l'art. 35-ter ord. pen.

Come rilevato dalla Corte costituzionale (sent. n. 204 del 2016), l'art. 35-ter ord. pen. costituisce la risposta del legislatore nazionale alla sollecitazione proveniente dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, Torreggiani c. Italia e, successivamente, dalla pronuncia della medesima Corte costituzionale (sent. n. 279 del 2013), affinché fosse garantita una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU, derivate dal sovraffollamento carcerario in Italia.

2.2. Occorre sinteticamente richiamare la disciplina dettata dall'art. 35-ter ord. pen.

Il comma 1 indica i presupposti dei rimedi risarcitori e disciplina la riparazione in forma specifica ottenibile dal danneggiato che si trovi detenuto. Quando la detenzione in condizioni disumane e degradanti si sia protratta per almeno quindici giorni, il detenuto può ottenere una riduzione della pena detentiva ancora da espiare, in misura pari a un giorno ogni dieci di detenzione pregiudizievole.

Il comma 2 disciplina il ristoro economico in due ipotesi: quella del detenuto che abbia subìto il pregiudizio derivante dalla violazione dell'art. 3 CEDU per almeno quindici giorni e debba tuttavia espiare un periodo di pena che non consente la riduzione nella misura percentuale sopra indicata; e quella del detenuto che abbia subìto una detenzione pregiudizievole per meno di quindici giorni. In entrambe queste ipotesi, il detenuto ha diritto a una somma di denaro, a titolo di risarcimento del danno, pari a 8 euro per ogni giorno di detenzione pregiudizievole; nella prima di esse, tuttavia, il ristoro riguarda solo il periodo residuo non riparabile in forma specifica.

Le ipotesi ora richiamate si applicano quando il danneggiato che propone l'azione si trova detenuto. La legittimazione spetta a lui personalmente o al difensore munito di procura speciale. Competente a provvedere è il magistrato di sorveglianza.

Il comma 3 disciplina l'ipotesi in cui il danneggiato abbia subìto il pregiudizio in stato di custodia cautelare non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero abbia terminato di espiare la pena. In tali casi, l'azione di riparazione in forma specifica non è proponibile, mentre l'azione volta al risarcimento del danno per equivalente - da liquidare nella stessa misura prevista al comma 2 - deve essere proposta, personalmente o tramite il difensore munito di procura speciale, davanti al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio l'attore ha la residenza, entro il termine di sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio (ex artt. 737 e s. c.p.c.), con decreto non soggetto a reclamo.

Per completezza, si osserva che l'art. 2 d.l. n. 92 del 2014 ha previsto una disciplina transitoria, che riguarda due ulteriori ipotesi.

La prima, che forma oggetto dell'ordinanza della Terza Sezione civile, del 10 aprile 2017, di rimessione degli atti alle Sezioni unite civili, è quella di coloro che, avendo subìto il pregiudizio, alla data di entrata in vigore del decreto-legge non si trovino più detenuti o abbiano ormai cessato la custodia cautelare in carcere. In tal caso, la domanda è assoggettata alle regole del comma 3 dell'art. 35-ter ord. pen., ma il termine di decadenza semestrale decorre dalla data di entrata in vigore del decreto-legge.

La seconda ipotesi riguarda invece i detenuti e gli internati che, in relazione alla violazione dell'art. 3 CEDU, abbiano già presentato un ricorso alla Corte di Strasburgo, sul quale non sia intervenuta una pronuncia sulla ricevibilità. In tal caso, essi devono presentare domanda ex art. 35-ter ord. pen. sempre entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge.

2.3. Ai fini di interesse, occorre soffermarsi unicamente sulle disposizioni che riguardano l'azione riparatoria proposta dal soggetto in costanza di detenzione, vale a dire ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen.

Infatti, l'art. 35-ter ord. pen. disciplina specificamente il procedimento di competenza del giudice civile, di cui al comma 3 - ipotesi che non viene in rilievo nel caso in esame -, e non offre indicazioni procedimentali rispetto all'istanza proposta dal soggetto detenuto.

Come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, e pure evidenziato in dottrina, il rimedio risarcitorio di cui all'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen. si esplica necessariamente mediante il modello procedimentale delineato dall'art. 35-bis ord. pen. (Sez. 1, n. 876 del 16 luglio 2015, dep. 2016, Ruffolo, Rv. 265856; Sez. 1, n. 46966 del 16 luglio 2015, Koleci, Rv. 265973). Milita, in tal senso, anche il riferimento operato dalla disposizione di cui all'art. 35-ter, comma 1, all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. pen.; la norma oggetto del richiamo, invero, stabilisce che il magistrato di sorveglianza, ai sensi dell'art. 35-bis ord. pen., provvede sui reclami dei detenuti e degli internati relativi ai pregiudizi all'esercizio dei diritti che derivino dall'inosservanza da parte dell'amministrazione penitenziaria del relativo ordinamento.

Nell'analisi dell'unitario procedimento delineato dall'art. 35-bis ord. pen. merita particolare rilievo la giurisprudenza che ha evidenziato come il legislatore abbia utilizzato il medesimo termine "reclamo" sia per identificare l'istanza rivolta dal detenuto al magistrato di sorveglianza (art. 35-bis, comma 1, ord. pen.), sia per indicare l'impugnazione proposta avanti al tribunale di sorveglianza, avverso la decisione resa dal magistrato di sorveglianza (art. 35-bis, comma 4, ord. pen.). La medesima giurisprudenza individua condivisibilmente le peculiarità del rimedio ex art. 35-ter ord. pen. nella ispirazione solidaristica e nella connotazione pubblicistica dell'istituto introdotto nell'ordinamento con finalità non risarcitorie ma riparatorie e di riequilibrio ed in parte compensatrici della lesione della libertà rivelatasi ingiusta (Sez. 1, n. 876 del 16 luglio 2015, dep. 2016, Ruffolo, cit.). Si tratta, infatti, di un'opzione interpretativa del tutto consonante con la richiesta formulata con la sentenza Torreggiani della Corte EDU, di introduzione nell'ordinamento italiano di procedure attivabili dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione o a trattamenti carcerari in contrasto con l'art. 3 CEDU; procedure che devono essere accessibili ed effettive.

2.4. Tali coordinate interpretative consentono di cogliere appieno la portata della disposizione di cui all'art. 35-bis, comma 3, secondo periodo, ord. pen. La norma stabilisce che il magistrato di sorveglianza, nelle ipotesi di cui all'art. 69, comma 6, lett. b) - che sono quelle espressamente richiamate dall'art. 35-ter, ord. pen. -, se accerta la sussistenza e l'attualità del pregiudizio, «ordina all'amministrazione di porre rimedio entro il termine indicato dal giudice».

La circostanza che l'Amministrazione penitenziaria possa essere destinataria delle prescrizioni impartite dal magistrato di sorveglianza, direttamente incidenti sulle modalità di gestione dei detenuti, al fine di porre rimedio al protrarsi di condizioni di detenzione in contrasto con l'art. 3 CEDU, assume peculiare rilevanza nella ricognizione della natura della pretesa sostanziale e del procedimento di cui all'art. 35-ter ord. pen.

Invero, il magistrato di sorveglianza ha il compito di verificare l'eventuale compressione del diritto fondamentale della persona, di matrice convenzionale e costituzionale, in base al quale nessuno può essere sottoposto a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Il procedimento riparatorio, secondo lo schema delineato dall'art. 35-bis, comma 1, ord. pen., prevede l'apertura del contraddittorio e individua l'Amministrazione penitenziaria quale contraddittore istituzionale, rispetto alla istanza presentata anche personalmente dal detenuto: l'Amministrazione penitenziaria, da un lato, costituisce il plesso amministrativo cui è assegnato il compito di realizzare le finalità costituzionali del trattamento detentivo; dall'altro, è l'organismo che è in grado di fornire, tramite i funzionari delle relative articolazioni territoriali che hanno il diritto di comparire avanti al magistrato di sorveglianza - secondo le modalità di contraddittorio informale delineate dall'art. 35-bis, comma 1, ord. pen. - le informazioni utili per la decisione del giudice, come evidenziato dalla Prima Sezione penale (Sez. 1, n. 11249 del 17 novembre 2016, dep. 2017, Condello, Rv. 269513).

Pertanto: il rimedio risarcitorio ex art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen., che viene attivato dal soggetto in costanza di detenzione, si esplica mediante un paradigma procedimentale ispirato a criteri di rapidità ed effettività di tutela, nell'ambito di una giurisdizione di prossimità; e l'Amministrazione penitenziaria interviene nel procedimento che occupa quale titolare, e responsabile, del trattamento dei detenuti.

Detti approdi conducono ad escludere la natura civilist[ic]a degli interessi di cui l'Amministrazione è portatrice - anche rispetto alla tutela della propria immagine esterna - nell'ambito del modello procedimentale delineato dall'art. 35-bis ord. pen. Infatti, l'Amministrazione penitenziaria interviene quale plesso amministrativo preposto alla custodia, partecipe della realizzazione delle finalità costituzionali della pena, e proprio per questo essa è in grado di realizzare l'effettività della tutela che il nuovo strumento è volto ad assicurare al detenuto. Nel giudizio di prossimità delineato dall'art. 35-bis ord. pen., ove il richiedente si duole delle pratiche modalità di realizzazione della detenzione, l'Amministrazione penitenziaria interviene, cioè, oggettivamente nell'esercizio di una funzione pubblica, quale organismo istituzionalmente deputato alla gestione dei detenuti, per un verso offrendo al magistrato di sorveglianza dirette informazioni che riguardano la concreta posizione del detenuto che lamenta condizioni di vita inumane, tali da comprimere un diritto fondamentale della persona durante il tempo di privazione della libertà ad opera degli organi dello Stato preposti alla custodia; per altro verso, essendo l'unico soggetto in grado di ripristinare condizioni di legalità della detenzione.

La natura pubblicistica della funzione svolta ed il ruolo assunto in concreto dall'Amministrazione penitenziaria sono evenienze che assumono rilevanza anche nella verifica delle modalità di partecipazione del soggetto pubblico alla richiamata fase impugnatoria: le considerazioni ora svolte conducono, infatti, ad escludere l'applicabilità delle disposizioni che riguardano l'impugnazione proposta per i soli interessi civili (art. 573 c.p.p.) dalle altre parti private presenti nel giudizio penale, come pure della norma che impone, nei casi da ultimo richiamati, il ministero di un difensore (art. 100 c.p.p.), per la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento.

In assenza di ragioni limitative di ordine sistematico, derivanti dalle forme di partecipazione delle parti private al processo penale, deve osservarsi che proprio il carattere unitario del procedimento giurisdizionale di merito, complessivamente delineato dalle disposizioni di cui all'art. 35-bis ord. pen., consente di affermare che la possibilità di costituzione informale da parte dell'Amministrazione, espressamente prevista dall'art. 35-bis, comma 1, ord. pen. nella fase promossa dal reclamo-istanza del detenuto, di competenza del magistrato di sorveglianza, è legittima anche nella successiva fase del reclamo-impugnazione, innanzi al tribunale di sorveglianza, a mente del comma 4, dell'art. 35-bis, citato.

L'evidenziata semplificazione dell'esercizio del contraddittorio, delineata dal combinato disposto degli artt. 35-bis, comma 1, e 35-ter, comma 1, ord. pen., deve ritenersi immanente nelle fasi di merito del procedimento giurisdizionale di prossimità di cui si tratta, compresa la fase del reclamo-impugnazione, che pure apre una fase in cui al tribunale di sorveglianza spetta la rivalutazione del contenuto della prima decisione. Pertanto, risulta deformalizzato, anche in riferimento alle generali previsioni di cui al r.d. n. 1611 del 1933, il potere di reclamo ai sensi del comma 4 dell'art. 35-bis ord. pen., che può essere esercitato da parte dell'Amministrazione penitenziaria, senza l'assistenza dell'Avvocatura.

Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto:

"Il reclamo-impugnazione di cui all'art. 35-bis, comma 4, ord. pen. può essere proposto dall'Amministrazione penitenziaria senza il patrocinio e l'assistenza dell'Avvocatura dello Stato".

3. Esclusa, per quanto detto, la sussistenza di profili di inammissibilità del reclamo proposto dall'Amministrazione penitenziaria nella fase di merito del procedimento, si rileva che il ricorso per cassazione, proposto dal Ministero della giustizia, mediante l'Avvocatura generale dello Stato, è infondato.

L'Amministrazione afferma che il diritto azionato dal detenuto David T., ex art. 35-ter ord. pen., con istanza proposta in data 8 luglio 2014, sia da ritenere prescritto, in riferimento al periodo di carcerazione anteriore al quinquiennio decorrente dal 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014; ovvero dalla data di presentazione dell'istanza di cui si tratta. L'assunto muove dal rilievo che l'azionato diritto al ristoro del pregiudizio da detenzione in condizioni degradate preesisteva al d.l. n. 92 del 2014; e che la relativa azione, di natura risarcitoria ed inquadrabile come forma di responsabilità extracontrattuale, fosse esperibile dal detenuto anche prima della introduzione nell'ordinamento penitenziario dell'istituto in esame.

Le Sezioni unite, nel censire la questione dedotta dalla parte ricorrente, sono chiamate dunque a soffermarsi sul tema della preesistenza, o meno, rispetto alla novella del 2014, del diritto concretamente azionato dal detenuto in costanza di restrizione, ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen., per condizioni di detenzione disumane e degradanti; e sulla eventuale decorrenza del termine di prescrizione rispetto agli eventi generatori di danno per violazione dell'art. 3 CEDU, verificatisi prima della entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014.

Restano, di converso, estranei dallo spettro della presente analisi, per difetto di rilevanza, i temi afferenti alla funzione indennitaria o risarcitoria del rimedio ex art. 35-ter ord. pen. ed alla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità, come pure gli ambiti funzionali dei termini prescrizionali e decadenziali in riferimento alla disciplina transitoria, dettata dall'art. 2, d.l. n. 92 del 2014, temi costituenti oggetto del citato ricorso pendente avanti alle Sezioni unite civili della Suprema Corte.

3.1. L'eccezione di intervenuta prescrizione del diritto azionato ex art. 35-ter ord. pen. per lo spirare del termine quinquennale, in riferimento ai periodi detentivi anteriori al 28 giugno 2009 ovvero all'8 luglio 2009, è destituita di fondamento.

La Corte costituzionale, all'indomani della più volte citata sentenza Torreggiani c. Italia, resa dalla Corte di Strasburgo, ha evidenziato che le autorità nazionali avrebbero dovuto creare un ricorso o una combinazione di ricorsi individuali idonei a garantire «una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU risultanti dal sovraffollamento»; ed ha rilevato che la riferita esigenza derivava dallo «statuto costituzionale e quello convenzionale del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità» (Corte cost., sent. n. 279 del 2013).

La giurisprudenza di legittimità, nel chiarire che il rimedio risarcitorio è esperibile anche in riferimento a condotte lesive verificatesi prima dell'introduzione dell'art. 35-ter ord. pen., ha sottolineato che il d.l. n. 92 del 2014 e la relativa legge di conversione n. 117 del 2014, non hanno riconosciuto un diritto soggettivo in precedenza inesistente. È, infatti, l'art. 3 CEDU a riconoscere il diritto del detenuto ad ottenere che l'espiazione della pena non avvenga mediante trattamenti inumani e degradanti, fonte resa esecutiva con legge di ratifica 4 agosto 1955, n. 848, che ha esteso e rafforzato la previsione contenuta nell'art. 27 della Costituzione (Sez. 1, n. 31475 del 15 marzo 2017, Zito, Rv. 270841; Sez. 1, n. 9658 del 19 ottobre 2016, dep. 2017, De Michele, Rv. 269308; Sez. 1, n. 876 del 16 luglio 2015, dep. 2016, Ruffolo, cit.; Sez. 1, n. 46966 del 16 luglio 2015, Koleci, cit.). D'altra parte non può non evidenziarsi che la previsione convenzionale sul divieto di pene degradanti, come interpretata dalla Corte EDU, si inscrive nel quadro dei principi costituzionali che presiedono al sistema punitivo complessivamente inteso, qualificato dal canone della legalità della pena, dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e dal finalismo rieducativo (artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.). E la finalità rieducativa della pena risulta frustrata in radice da condizioni di vita intramuraria inumane o degradanti.

Conclusivamente, sul punto, rilevano le Sezioni unite che il diritto al risarcimento dei danni in capo al soggetto detenuto in condizioni disumane e degradanti, di matrice costituzionale e convenzionale, è da ritenere preesistente rispetto alla novellazione del 2014 che ha riguardato l'ordinamento penitenziario. E non appare revocabile in dubbio che ogni giorno trascorso in condizioni di detenzione disumana e degradante determini il perfezionamento della relativa fattispecie lesiva, da qualificare quale illecito permanente: la detenzione ha una unità di misura temporale. E l'art. 35-ter ord. pen. individua come parametro per il risarcimento (sia in forma specifica sia per equivalente), ogni giorno trascorso in condizione disumana.

3.2. Tanto chiarito risulta possibile risolvere anche la questione relativa alla decorrenza del termine di prescrizione, rispetto alla lesione di un diritto astrattamente azionabile dal detenuto, pur in mancanza dello specifico strumento di tutela introdotto con l'art. 35-ter ord. pen. Il tema prescinde dalla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità ed involge l'applicazione del principio generale di cui all'art. 2935 c.c., in base al quale la prescrizione inizia a decorrere soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.

Rispetto all'istanza proposta dal soggetto che si trovi in stato di detenzione, in conformità allo spettro della presente indagine, è allora possibile distinguere due ipotesi: il caso - che viene in rilievo nel presente procedimento - in cui il pregiudizio lamentato riguardi periodi anteriori alla data di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014; e quello in cui il pregiudizio riguardi periodi di detenzione successivi al 28 giugno 2014.

Soffermandosi in questa sede sul primo caso, occorre ricordare che la Corte europea, con la citata sentenza Torreggiani c. Italia, non ha omesso di esaminare i rimedi presenti all'epoca nell'ordinamento italiano per far fronte al problema sistemico del sovraffollamento carcerario; ed ha rilevato la non rispondenza ai canoni convenzionali del reclamo al magistrato di sorveglianza ex artt. 35 e 69, ord. pen., trattandosi di un rimedio «non effettivo nella pratica, dato che non consente di porre fine rapidamente alla carcerazione in condizioni contrarie all'articolo 3 della Convenzione». Il legislatore nazionale, quindi, nell'emanare il d.l. n. 92 del 2014, ha considerato la «straordinaria necessità ed urgenza di ottemperare a quanto disposto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sentenza dell'8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia), nella quale è stato stabilito che lo Stato italiano debba predisporre un insieme di rimedi idonei a offrire una riparazione adeguata del pregiudizio derivante dal sovraffollamento carcerario». Giova pure ricordare che la Corte costituzionale ha evidenziato che la richiesta proveniente dalla Corte EDU, con la sentenza pilota Torreggiani c. Italia, «deve costituire un indefettibile criterio ermeneutico ai fini della corretta applicazione della disciplina successivamente introdotta dal legislatore» (Corte cost., sent. n. 204 del 2016).

La giurisprudenza di legittimità ha correttamente evidenziato che il rimedio risarcitorio, ex art. 35-ter ord. pen., presenta plurimi aspetti originali ed innovativi, quali la deformalizzazione dell'istanza, che il detenuto può redigere personalmente secondo un contenuto minimo descrittivo del fatto e presentare direttamente al Magistrato di sorveglianza; nonché la peculiarità delle forme di tutela, tra le quali, per la prima volta nell'ordinamento nazionale, è prevista la riduzione in misura predeterminata della durata della pena detentiva ancora da espiare, in termini proporzionali al pregiudizio sofferto dal detenuto, in ragione di un giorno per ogni dieci di detenzione in condizioni di oggettiva violazione dell'art. 3 CEDU. Infatti, solo quando il periodo di pena residua sia tale da non consentire l'operatività del delineato meccanismo di detrazione nella intera misura percentuale prevista, il Magistrato di sorveglianza liquida al detenuto la somma di denaro pari a 8,00 euro per ciascuna giornata nella quale si è subito il pregiudizio.

Merita quindi condivisione l'orientamento in base al quale, qualora il richiedente si trovi detenuto al momento di presentazione dell'istanza e lamenti un pregiudizio pregresso derivante dalla propria condizione carceraria anteriore all'entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, la prescrizione del relativo diritto inizia a decorrere solo dall'introduzione dell'art. 35-ter ord. pen. Il rimedio risarcitorio in esame non era infatti prospettabile prima della entrata in vigore della novella del 2014. E l'assenza di un previgente strumento di tutela, accessibile ed effettivo - idoneo a far cessare la detenzione in condizioni inumane e degradanti, anche mediante forme di compensazione in forma specifica - integra un impedimento all'esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all'art. 2935 c.c., in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (Sez. 1, n. 31475 del 15 marzo 2017, Zito, cit). Deve, pure, rilevarsi che la diversa ipotesi interpretativa sostenuta dall'Ufficio ricorrente restringerebbe irragionevolmente l'ambito sostanziale di operatività del rimedio introdotto dall'art. 35-ter ord. pen., in spregio alle richiamate indicazioni ermeneutiche espresse dal Giudice delle leggi.

Va quindi affermato il seguente principio di diritto:

"La prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante, azionabile dal detenuto ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen., per i pregiudizi subiti anteriormente all'entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, decorre dal 28 giugno 2014".

3.3. In conclusione, l'esclusione del decorso della prescrizione per eventi lesivi ex art. 3 CEDU verificatisi anteriormente al 28 giugno del 2014 conduce ad apprezzare l'infondatezza della eccezione di (parziale) prescrizione del diritto azionato dal detenuto T., ex art. 35-ter ord. pen., dedotta dall'Amministrazione.

Il ricorso proposto dal Ministero della giustizia, per quanto detto, deve essere rigettato.

4. A questo punto della trattazione viene in rilievo il quesito sottoposto dalla Sezione rimettente: se il Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi degli artt. 35-bis e 35-ter l. n. 354 del 1975, debba essere condannato al pagamento delle spese processuali ed eventualmente al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d'inammissibilità del ricorso, ai sensi dell'art. 616, c.p.p.

Sul punto, si registra un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità. Ad un indirizzo che ritiene applicabili, nella materia di interesse, i principi di diritto espressi in riferimento al procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione, ove il Ministero dell'economia e delle finanze viene condannato al pagamento delle spese processuali in caso di rigetto o di declaratoria inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordinanza della corte di appello quale giudice della riparazione (Sez. 1, n. 53012 del 27 novembre 2014, Min. giust., Rv. 261306), si contrappone un diverso orientamento che esclude la condanna alle spese nei confronti del Ministero della giustizia, ritenuto privo della qualità di parte privata richiesta dall'art. 616 c.p.p. (Sez. 1, n. 31475 del 15 marzo 2017, Zito, Rv. 270841).

Preme evidenziare che, concordemente, la giurisprudenza ritiene non applicabile, nel procedimento susseguente a reclamo giurisdizionale presentato dal detenuto ai sensi dell'art. 35-bis ord. pen. - diversamente da quanto avviene, secondo diritto vivente, nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione - il regolamento inter partes delle spese processuali in base al principio della soccombenza, stante l'omesso richiamo agli artt. 91 e 97 c.p.c. (Sez. 1, n. 53012 del 27 novembre 2014, Min. giust., Rv. 261305; Sez. 1, n. 53011 del 27 novembre 2014, Min. giust., Rv. 262351).

4.1. Al fine di verificare se possano essere utilmente trasposti - e con quali effetti - i principi affermati dalle Sezioni unite in relazione al procedimento di riparazione per ingiusta detenzione ex artt. 314 e 315 c.p.p., nell'ambito del rimedio risarcitorio di competenza del magistrato di sorveglianza, occorre richiamare i tratti qualificanti del giudizio riparatorio.

4.2. Si afferma comunemente che nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione il Ministero dell'economia e delle finanze è parte necessaria. L'assunto si giustifica in ragione del fatto che l'ordinamento non consente all'Amministrazione di riconoscere ed attribuire autonomamente una somma a titolo di riparazione per ingiusta detenzione; e che è indispensabile l'intervento del giudice della riparazione, il quale deve operare il controllo di legalità della pretesa avanzata dall'interessato e provvedere alla liquidazione, ove dovuta. Il Ministero dell'economia, invero, può non costituirsi affatto nel procedimento, rimettendosi alla valutazione del giudice. I cenni che precedono consentono di cogliere il peculiare ambito funzionale del procedimento riparatorio, nel quale il giudice della riparazione deve verificare se sussistano i presupposti per il riconoscimento del ristoro economico qualora il soggetto, dopo essere stato sottoposto a misura cautelare custodiale, sia stato definitivamente prosciolto (ipotesi di ingiustizia sostanziale della detenzione, ex art. 314, comma 1, c.p.p.), ovvero risulti accertato che il provvedimento custodiale è stato emesso in mancanza delle condizioni di applicabilità previste dalla legge (ingiustizia formale della detenzione, di cui all'art. 314, comma 2, c.p.p.). L'oggetto del contendere, qualora l'Amministrazione finanziaria intenda resistere, riguarda, in entrambe le ipotesi, l'an o il quantum di una pretesa di natura pecuniaria, afferente alla pregressa sottoposizione del richiedente a custodia cautelare. Le Sezioni unite hanno chiarito: che risulta evidente l'avvicinamento fra le ipotesi di cui all'art. 314, commi 1 e 2, c.p.p., sotto il profilo della possibile comune derivazione della "ingiustizia" della misura da elementi emersi "successivamente" al momento della sua applicazione; e che l'elemento della accertata "ingiustizia" della custodia patita, che caratterizza entrambe le ipotesi del diritto alla equa riparazione (diverse solo per le ragioni che integrano l'ingiustizia stessa) ne disvela il comune fondamento solidaristico e ne impone una comune disciplina quanto alle condizioni che ne legittimano il riconoscimento (Sez. un., n. 32383 del 27 maggio 2010, D'Ambrosio, Rv. 247663).

Secondo diritto vivente, in caso di soccombenza, il Ministero dell'economia deve essere condannato al pagamento delle spese processuali anticipate dall'erario. A tale riguardo, si è in particolare rilevato: che l'art. 616 c.p.p. è espressione del principio di causalità e soccombenza, laddove stabilisce che con il provvedimento che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto è condannata al pagamento delle spese del procedimento; e che il Ministero dell'economia e delle finanze, nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, va accomunato alla "parte privata" (Sez. un., n. 34559 del 26 giugno 2002, De Benedictis, Rv. 222263). Per completezza, si rileva che la giurisprudenza ritiene che nel giudizio riparatorio l'Amministrazione soccombente debba sopportare anche il carico delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dall'altra parte, ai sensi dell'art. 91 c.p.c. (Sez. un., n. 34559 del 26 giugno 2002, De Benedictis, cit.).

4.3. L'applicazione dei principi ora richiamati porta ad escludere che nel procedimento giurisdizionale delineato dall'art. 35-bis ord. pen., mediante il quale si esplicano i rimedi risarcitori attivati dal soggetto detenuto, ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen., l'Amministrazione soccombente debba essere condannata al pagamento delle spese processuali.

L'Amministrazione penitenziaria interviene, nel procedimento di prossimità che occupa, quale titolare, e responsabile, del trattamento dei detenuti, sicché si deve escludere la natura civilistica degli interessi di cui l'Amministrazione è portatrice: l'ente agisce, nel procedimento, quale plesso amministrativo preposto alla custodia dei detenuti, partecipe della realizzazione delle finalità costituzionali della pena. Sfuggono, pertanto, i presupposti sostanziali per accomunare l'Amministrazione penitenziaria alle parti private presenti nel processo penale, diversamente da quanto accade nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione, ove il ruolo assunto dall'Amministrazione finanziaria, in relazione alla pretesa pecuniaria oggetto di quel giudizio, ne giustifica l'assimilazione alle parti private.

Invero, le funzioni svolte dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia hanno natura sostanzialmente pubblicistica. Giova ricordare che secondo il disegno costituzionale, ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia - l'unico Ministero ad essere menzionato dalla Carta costituzionale - l'organizzazione e il funzionamento «dei servizi relativi alla giustizia» (art. 110 Cost.). In disparte il principio della leale collaborazione tra Ministro e C.S.M., che attiene alla selezione dei residuali compiti ministeriali rispetto all'Amministrazione della giurisdizione che spetta all'Organo di governo autonomo della magistratura, la dottrina pubblicistica ha chiarito che i servizi svolti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, ispirati al principio della giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale, rientrano nell'ambito delle funzioni del Ministro della giustizia, quale piena espressione dell'Esecutivo. Non appare quindi revocabile in dubbio la natura pubblica dei servizi per la prevenzione e l'esecuzione della pena.

Conseguentemente, neppure nella fase di legittimità del procedimento in esame il Ministero della giustizia ricorrente può essere assimilato ad una parte privata, rispetto al disposto di cui all'art. 616 c.p.p. Lo impedisce l'evidenziata natura pubblica della funzione svolta dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria nel peculiare procedimento per reclamo giurisdizionale, ex art. 35-bis ord. pen., attivato su istanza del detenuto che lamenti di essere stato, o di trovarsi attualmente, ristretto in condizioni disumane e degradanti, ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen.

Militano in tal senso anche ragioni di ordine sistematico. La norma di cui all'art. 616, comma 1, c.p.p. è strutturata in riferimento ai soggetti tipici del processo penale, ove solo il pubblico ministero assume il ruolo di parte pubblica, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza (Sez. un., n. 9616 del 24 marzo 1995, Boido, Rv. 202018). Diversamente, nel procedimento di prossimità di cui si tratta, che pure si svolge ai sensi degli artt. 666 e 678, c.p.p., è previsto l'inedito intervento dell'Amministrazione penitenziaria, quale soggetto che esercita la funzione pubblica relativa alle modalità di gestione della popolazione detenuta, come sopra chiarito.

Le medesime considerazioni ora svolte conducono pure ad escludere l'operatività del regolamento delle spese inter partes, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., nell'ambito del procedimento giurisdizionale di competenza del Magistrato di sorveglianza, attivato su istanza del detenuto che lamenta condizioni di restrizione inumane e degradanti.

4.4. Consegue a quanto sopra esposto che la risposta al quesito sottoposto ad esame delle Sezioni unite deve essere negativa, nel senso che:

"Il Ministero della giustizia, ricorrente avverso provvedimento del Tribunale di sorveglianza emesso ai sensi degli artt. 35-bis e 35-ter l. n. 354 del 1975 non deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, nel caso di rigetto o d'inammissibilità del ricorso, ai sensi dell'art. 616 c.p.p.".

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Depositata il 26 gennaio 2018.

F. Caringella

Codice amministrativo

Dike Giuridica, 2024

R. Garofoli

Codice penale ragionato

Neldiritto, 2024

P. Gallo

L'arricchimento senza causa

Giuffrè, 2024