Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 17 gennaio 2018, n. 901

Presidente ed Estensore: Travaglino

I FATTI

1. Nel dicembre del 2003 il Tribunale di Roma dichiarò il ginecologo Vincenzo C., sanitario dell'ospedale Sandro Pertini, e la ASL Roma B responsabili dei danni sofferti da Claudia N. e dal marito, Peppino M., a seguito di un intervento eseguito con tecnica di laparotomia addominale - cui la N. era stata sottoposta per diagnosticata cisti paraovarica sinistra - e della gravissima situazione sanitaria lamentata dalla paziente in conseguenza dell'operazione.

1.1. Ritenne il giudice di prime cure che i sintomi dell'infezione post-operatoria, benché evidenti sin dal giorno successivo alle dimissioni della signora N. dalla struttura ospedaliera, furono scoperti con ritardo, quando l'infezione stessa si era già trasformata in peritonite.

1.2. La responsabilità del ginecologo, che aveva in cura la signora N. sin dal 1990, fu ricondotta, in particolare, alla omessa individuazione delle lesioni intestinali prodottesi nel corso dell'intervento, che venne modificato da endoscopico in laparotomico, ed alla grave negligenza nella osservazione del decorso post-operatorio.

1.3. Venne altresì accolta la domanda di manleva della ASL nei confronti dell'Assitalia.

2. L'impugnazione principale degli attori in prime cure e quella incidentale dell'Assitalia furono rigettate dalla Corte di appello di Roma con sentenza del primo settembre 2009.

3. Proposto ricorso per cassazione da parte dei coniugi M. - cui resistette, insieme con gli altri intimati, il C. con ricorso incidentale - questa Corte, con sentenza n. 16543 del 2011, accolse il gravame, pronunciando il seguente dispositivo:

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie per quanto di ragione il ricorso principale; accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, che rigetta nel resto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

4. L'esame dell'odierno ricorso, manifestamente fondato, non può prescindere dalla ricostruzione dei fatti e dei vincolanti principi di diritto indicati da questa Corte al giudice del rinvio - e che il giudice del rinvio ha, in parte qua, palesemente disatteso.

4.1. Sin dal 1990 la signora N. era in cura dal dr. C., in quanto affetta da una malformazione uterina, alla quale il ginecologo aveva assicurato di poter porre rimedio attraverso una metroplastica laparotomica, che venne effettuata il 19 febbraio 1992.

4.2. Nel 1994, incinta alla quindicesima settimana, la paziente abortì, e il sanitario le consigliò una laparoscopia presso altro medico specializzato in tale tecnica, e che eseguì l'intervento il 23 febbraio 1996 con la totale eliminazione del problema.

4.3. Nello stesso anno, una indagine ecografica avrebbe rivelato la presenza di una sacca liquida paraovarica, che venne portata a conoscenza del dott. C., senza che questi ritenesse né opportuno né necessario effettuare alcun intervento.

4.4. Nel giugno del 1997 la signora N. abortì di nuovo, per cui nel successivo mese di novembre il dott. C. suggerì di intervenire.

4.5. Alle domande dei coniugi sulla efficacia e sul rischio dell'intervento, il sanitario assicurò che lo stesso sarebbe stato eseguito con una semplice laparoscopia presso l'Ospedale Sandro Pertini.

4.6. La N. venne così ricoverata il 12 gennaio 1998 con diagnosi di "cisti paraovarica sinistra", senza nessuna ulteriore visita ed accertamento ecografico, ed in data 14 gennaio 1998 entrò in sala operatoria, ove, in conseguenza della situazione rivelatasi endoscopicamente, l'intervento si trasformò da laparoscopia in laparatomia, all'esito della quale venne compilata una cartella clinica con l'indicazione "laparotomia-viscerolisi-resezione ovarica bilaterale".

4.7. La paziente, nell'immediatezza del decorso postoperatorio, accusò dolori al basso ventre e difficoltà respiratorie, di cui venne tempestivamente informato il ginecologo.

4.8. Il 18 gennaio 1998 venne comunicato alla N. che sarebbe potuta essere dimessa il giorno successivo, come avvenne.

4.9. Due giorni dopo, il marito della paziente avvertì il dott. C. che la moglie accusava forti dolori al fianco sinistro e febbre a 38 gradi.

Sia i dolori che la febbre aumentarono il 23 gennaio 1998.

4.10. La donna, su consiglio della guardia medica, alle tre del mattino del 24 gennaio 1998 fu condotta all'Ospedale S. Camillo di Roma, dove, all'esito di accertamenti strumentali - tra cui una TAC addominale e pelvica - fu ricoverata perché affetta da peritonite acuta diffusa.

4.10.1. Venne così praticata, tra l'altro, una laparotomia mediana sopra e sotto ombelicale e lo svuotamento dell'emiperitoneo, con prognosi di tre giorni.

4.10.2. Il chirurgo riferì che l'infezione era dovuta verisimilmente al precedente intervento del 14 gennaio, che aveva provocato diverse lesioni, e che non se ne sarebbero potute escludere altre con nuove manifestazioni morbose.

4.10.3. Difatti, il successivo 31 gennaio la N. dovette essere sottoposta ad un nuovo intervento chirurgico, dovuto alla presenza dell'ascesso del Douglas con microperforazione del colon traverso, per cui si procedette ad una relalaparotomia mediana ombelico-pubica, alla sutura della perforazione, alla toilette del cavo, a drenaggio e chiusura per piani.

4.11. Solo a seguito di questo secondo intervento fu possibile rilevare la presenza di una microlesione al colon.

4.12. L'11 febbraio 1998 la N. venne dimessa.

4.13. Il primo giugno la signora N. sporse querela per lesioni colpose nei confronti del dott. C.

4.14. Il Tribunale adito ritenne l'imputato responsabile del reato ascrittogli con sentenza del 20 gennaio 2004.

4.15. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 21 giugno 2005, mandò assolto il sanitario con sentenza ex art. 530, comma 2, c.p.p., ritenendo insufficiente la prova della sua colpevolezza.

5. All'esito di una consulenza medico-legale, che concludeva per la responsabilità colposa del C. sotto il profilo della negligenza ed imperizia, i coniugi M., con atto di citazione del 23 luglio-2 agosto 1999, evocavano in giudizio la ASL, il sanitario ed il suo aiuto, ad oggi estraneo al presente procedimento.

6. Il Tribunale di Roma dichiarò il dott. C. responsabile dei soli fatti-reato addebitatigli, ovvero per la condotta omissiva tenuta nel decorso postoperatorio, condannandolo, in solido con la ASL, al risarcimento dei danni, e dichiarando altresì l'Assitalia, chiamata in garanzia, tenuta a manlevare la struttura sanitaria convenuta.

7. La sentenza, impugnata dai coniugi, venne integralmente confermata dalla Corte di appello romana.

8. Questa Corte, investita dei ricorsi, principale ed incidentale, proposti, rispettivamente, dai coniugi M. e dal dott. C., cassò la sentenza del giudice capitolino, pronunciando il dispositivo di cui si dirà oltre.

8.1. In particolare, il ricorso principale venne accolto nella parte in cui si lamentava la totale mancanza del necessario consenso informato per l'eseguita laparatomia, intervento completamente diverso dalla programmata laparoscopia, specificandosi, in particolare, che "anche in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte dal quale siano derivate conseguenze dannose, qualora tale intervento non sia stato preceduto da adeguata - nel caso in esame addirittura inesistente - informazione, l'inadempimento del relativo obbligo assume una valenza causale sul danno o sui danni subiti dal paziente".

8.2. Si legge ancora in sentenza che la signora N. aveva assentito alla laparoscopia e rifiutato ogni diverso intervento caratterizzato da tecnica invasiva, mentre il dott. C., a fronte della allegazione dell'inadempimento di tale obbligo di informazione, non aveva adempiuto all'onere di provare il relativo adempimento, con conseguente, legittima richiesta risarcitoria da parte della sua paziente, "non trattandosi, nella specie - come già la sentenza del Tribunale aveva posto in evidenza - di un intervento essenziale per la sopravvivenza della paziente, essendo finalizzato solo alla rimozione di eventuali cause che potevano rendere più difficile il concepimento, in una situazione già anatomicamente e morfologicamente complessa", di tal che, "in assenza di ragioni specifiche, l'intervento avrebbe dovuto essere interrotto al fine di consentire all'attrice di esprimere il suo consenso".

8.3. Tanto premesso, aggiungerà ancora questa Corte, "va accolto il quarto motivo, rectius vanno accolte tutte le censure che concernono la violazione del diritto violato", (incorrendo in un evidente lapsus calami, dovendosi intendere l'espressione diritto violato come "diritto al consenso violato) "ovvero quelle sulla effettuata laparotomia e conseguente viscerolisi e resezione cuneiforme bilaterale, con conseguente assorbimento dei motivi concernenti le varie voci di danno e le spese sia mediche che correlate di cui ai n. 9 a -20 (così indicati nel ricorso)".

8.4. Si vincolava, conseguentemente, il giudice del rinvio alla valutazione delle domande proposte dai ricorrenti alla luce del principio secondo cui il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, risultando talmente inderogabile "che non assume alcuna rilevanza per escluderlo che l'intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, per cui nei suoi confronti, comunque, si consuma una lesione di quella dignità che connota nei momenti cruciali - la sofferenza fisica e/o psichica - la sua esistenza".

8.4.1. Vennero di converso rigettati i motivi relativi alla pretesa erroneità dell'esecuzione dei due interventi chirurgici, alla responsabilità per le conseguenti microlesioni, al vizio di consenso relativo al primo intervento di laparoscopia, con assorbimento delle censure relative ai punti 7, 8 e 10 del ricorso, e con conseguente rigetto, in parte qua, della richiesta di rinnovo della CTU.

8.5. Nel rigettare il primo motivo del ricorso incidentale del dott. C., questa Corte ebbe ancora ad affermare, con riferimento al decorso post-operatorio, che il comportamento del sanitario si era caratterizzato per una macroscopica sottovalutazione della situazione della degente, essendo egli direttamente al corrente del trauma postoperatorio e dello stato di debilitazione fisica in cui versava la paziente, dovuto anche alle complicanze connesse con il ben più complesso intervento chirurgico che egli effettuò in luogo della laparoscopia, nonché alla perdita notevole di sangue ed alla anemia emersa dalle analisi effettuate durante e dopo l'intervento - tutti elementi che avrebbero dovuto indurre il dott. C., al di là dei formali condizionamenti derivanti dalle normali turnazioni, ad un più attento monitoraggio della evoluzione della fase operatoria, anche al fine di valutare la sussistenza delle condizioni per le dimissioni in piena sicurezza della paziente, che si rifiutò di sottoporsi ad un controllo medico prima di lasciare l'ospedale, ma non fu ostacolata dal dimettersi.

8.6. L'infezione latente, diagnosticabile con doverose approfondite indagini cliniche che non furono effettuate dal sanitario e, comunque, da lui non indicate, erano pertanto "sintomatiche di una grave omissione (che già il Tribunale aveva avuto modo di evidenziare), indipendentemente dall'esito del processo penale che terminò con una sentenza, sostanzialmente e dichiaratamente in motivazione, di assoluzione per insufficienza di prova, avendo la sentenza impugnata sul punto fatto corretta applicazione dei principi in punto di responsabilità per omissione".

8.7. La sentenza 16543/2011 si conclude affermando che, nel caso di specie, il consenso non era stato né richiesto né espresso dalla paziente per l'intervento in laparotomia (che non presentava carattere di urgenza); che gli interventi di laparoscopia e di laparotomia furono eseguiti correttamente dal sanitario e che, pertanto, la CTU non necessitava di alcuna rinnovazione; che il C. tenne una condotta gravemente omissiva circa la vigilanza sulla evoluzione della salute della paziente dopo l'intervento laparotomico; che la mancanza di consenso informato sull'intervento laparotomico comportava l'assorbimento delle censure concernenti le voci di danno e le spese, in quanto su tutto ciò avrebbe valutato il giudice del rinvio; che l'inadempimento del relativo obbligo assumeva una valenza causale sul danno o sui danni subiti dal paziente.

9. All'esito del giudizio di rinvio, la Corte territoriale, con la sentenza oggi impugnata, ha affermato, in motivazione:

a) che oggetto del giudizio doveva ritenersi la domanda risarcitoria correlata alla mancanza di consenso all'intervento di laparotomia;

b) che dovevano ritenersi inammissibili le domande degli appellanti in riassunzione inerenti alla liquidazione del danno patrimoniale, sia con riferimento alle spese di fecondazione assistita e di adozione internazionale, sia al danno "psichico" - diverso da quello morale e "psicologico" - già richiesto in primo grado;

c) che tali domande - nuove rispetto a quelle avanzate in primo grado e nell'originario atto di appello - non potevano considerarsi alla stregua di deroghe al divieto dei nova in appello, quali danni sofferti dopo la sentenza, ex art. 345, comma 1, c.p.c.;

d) che il danno psichico "è infatti voce diversa dal mero danno morale o psicologico";

e) che le spese di fecondazione assistita e di adozione internazionale apparivano "prive di un rapporto causale immediato e diretto con la responsabilità ascritta al C., trattandosi, tra l'altro, del frutto di una scelta del tutto discrezionale compiuta dal M. e dalla N.";

f) che le voci di danno oggetto di domande ammissibili in sede di rinvio erano unicamente quelle attinenti: a) al danno estetico; b) al danno "psicologico" ulteriore rispetto al danno morale da reato riconosciuto e liquidato dal primo giudice; c) alla lesione del diritto ad esprimere il consenso informato all'intervento di laparotomia;

g) che la percentuale di danno biologico (pari all'8%) determinata in termini di riduzione della capacità gestazionale, non poteva essere nuovamente determinata, non essendovi ragione per rinnovare la ctu, da ritenersi esauriente e immune da censure e corretta sul piano medico-legale, per aver tenuto conto delle precedenti patologie ginecologiche e della già notevolmente ridotta capacità procreativa;

h) che la liquidazione del primo giudice non aveva tenuto conto della "voce" costituita dal danno estetico, da reputarsi sussistente per la presenza di vistose cicatrici sull'addome della N., "non essendo chiaro se tale elemento fosse stato o meno considerato in sede di determinazione complessiva del grado di invalidità";

i) che il danno psicologico, già in parte riconosciuto sotto il profilo del danno morale, ma costituente un quid pluris rispetto al mero danno da reato, trovava specifico riscontro nella relazione di psicologia clinica redatta dal prof. Ma., e consentiva di pervenire alla massima personalizzazione del risarcimento nel calcolo tabellare, in applicazione delle tabelle milanesi;

j) che il danno biologico fosse complessivamente determinabile nella misura complessiva, con personalizzazione massima, di E. 27.770;

k) che il danno morale doveva ritenersi incluso e ricompreso nel calcolo tabellare, pervenendosi, altrimenti opinando, "ad un'indebita duplicazione del danno non patrimoniale, mentre trattasi di categoria unitaria";

l) che il danno da lesione del diritto al consenso informato andava valutato in via equitativa nella misura di 10.000 euro;

m) che andavano altresì risarcite le spese mediche documentate, pari ad E. 826;

n) che era infine inaccoglibile l'appello del M., stante "l'assoluta genericità della doglianza in punto di quantum debeatur" (restando così confermata la somma di E. 4.138,66, come liquidata in prime cure).

10. Avverso la sentenza della Corte capitolina i coniugi M. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di 10 motivi di censura, ciascuno dei quali articolato in uno o più sub-motivi.

10.1. Resiste con controricorso la Asl Roma B.

10.2. Il C. non ha svolto attività difensiva in questa sede.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è fondato e merita accoglimento nei limiti di cui si dirà.

1.1. Devono essere accolte le censure relative:

a) Alla omessa valutazione della domanda relativa "alle spese sia mediche che correlate di cui ai nn. da 9 a 20" - e cioè quelle relative agli interventi di fecondazione assistita e di adozione internazionale (motivi 3 e 4 sub A-B-C-D), che questa Corte (f. 23) aveva di converso rimesso alla valutazione del giudice di rinvio previo accoglimento del motivo presupposto (i.e. l'accertamento della responsabilità del sanitario per omessa sorveglianza post-operatoria e per omessa informazione ritenuta causalmente collegata a tali danni), dichiarandoli "assorbiti" nell'accoglimento del motivo stesso. La (erroneamente) ritenuta inammissibilità di tali domande (inammissibilità dichiarata, di converso, da questa Corte in relazione alla documentazione prodotta con riferimento all'asserito errore chirurgico: f. 9 della sentenza), difatti, confonde l'assorbimento della censura con il suo rigetto: se, in relazione a tali voci di danno, si fossero verificate preclusioni processuali in itinere (come sostenuto dall'appellato in sede di rinvio, con tesi erroneamente fatta propria dal giudice di appello), sarebbe stato compito di questa Corte, e non del giudice di rinvio, rilevarle, di tal che il dichiarato assorbimento nell'accoglimento del motivo presupposto (e non nel rigetto, come accaduto per le censure sub 7, 8, 10 in conseguenza del rigetto dei motivi 1 e 2) presupponeva ipso facto - con conseguente formazione del giudicato interno vincolante per la Corte d'appello - l'ammissibilità e la fondatezza nell'an della domanda, essendo demandato al giudice del rinvio il solo compito (istituzionalmente precluso a questa Corte) di accertare e liquidare il quantum debeatur. E ciò è a dirsi (ovemai la prima pronuncia di rinvio avesse potuto dar luogo a pur improbabili equivoci) poiché risulta non conforme a diritto - oltre che gravemente viziata sul piano logico - l'affermazione secondo la quale (f. 8 della sentenza oggi impugnata) le vicende successive all'intervento non autorizzato dalla paziente "appaiono prive di un rapporto causale immediato e diretto con la responsabilità ascritta al C., trattandosi, tra l'altro, frutto di una scelta del tutto discrezionale compiuta dal M. e dalla N.". Il ricorso, da parte della signora N., dapprima a tecniche di fecondazione assistita, e poi, fallite queste, all'adozione, risulta difatti, ictu oculi, non (l'inverosimile) "frutto di una scelta discrezionale" (scelta alternativa essendo, secondo la filosofia della Corte territoriale, quella di rinunciare alla maternità), ma la conseguenza obbligata (come riconosciuto nella stessa CTU al f. 14, ove si legge che "solo tecniche di fecondazione assistita potrebbero aiutarla") della sterilità scaturita dall'intervento non acconsentito. L'inconsistenza di tale, apodittica quanto inconsistente affermazione, pertanto, è destinata a dissolversi nella dimensione della mera apparenza (ed oltre), volta che il diritto fondamentale, costituzionalmente tutelato dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Carta fondamentale, ad una procreazione (dapprima biologica, dipoi adottiva, nella accertata impossibilità della prima) libera, consapevole e condivisa con il proprio coniuge risulta direttamente ed immediatamente vulnerato dai comportamenti colposi del sanitario, come stigmatizzati da questa stessa Corte in termini "di condotta gravemente omissiva circa la vigilanza sulla evoluzione della salute della paziente dopo l'intervento laparotomico", caratterizzata, inoltre, "da una macroscopica sottovalutazione delle condizioni della degente"). Su tali voci di danno, pertanto, il giudice del rinvio sarà tenuto a pronunciarsi, ritenute le stesse ammissibili e fondate, attesa la cronologia degli eventi specificamente riportata in ricorso (ff. 15 ss. dell'odierno atto di impugnazione), in applicazione del consolidato e non disconoscibile principio di diritto, ripetutamente affermato da questa Corte, a mente del quale le conseguenze dannose sofferte successivamente all'originario evento di danno devono essere risarcite senza che la relativa documentazione soggiaccia ad alcuna preclusione processuale, se prodotta tempestivamente rispetto al momento del loro insorgere, nel corso dei vari gradi del giudizio: nel giudizio di risarcimento del danno non è nuova, e quindi inammissibile, difatti, la domanda di risarcimento dei pregiudizi manifestatisi per la prima volta dopo il maturare delle preclusioni, se tempestivamente richiesti e documentati.

b) Alla omessa valutazione delle contestazioni mosse alla CTU (motivo 6 lett. A-B-C-D). Fermo il giudicato interno conseguente al pronunciamento di questa Corte, che ne aveva rigettato la richiesta di rinnovazione soltanto in relazione agli aspetti poc'anzi ricordati (supra, sub 8.4.1) - atteso che il limite del giudicato stesso era costituito, appunto, dal divieto di rinnovazione dell'elaborato peritale nei limiti sopra descritti, senza peraltro estendersi alla relativa e complessiva valutazione dei residui aspetti medico-legali della complessiva vicenda - il giudice del rinvio si è limitato ad una apodittica quanto immotivata adesione alla CTU, senza offrire alcuna risposta alle puntuali contestazioni ed alle motivate critiche mosse dalla parte oggi ricorrente, anche attraverso i suoi consulenti - così violando il consolidato principio di diritto secondo il quale il giudice di merito non è dispensato dal dovere di valutare l'intrinseca attendibilità della CTU in relazione alle censure formulate dalla parte interessata, di tal che, ove ritenga di aderire alle conclusioni del perito, qualora queste siano difformi da quelle del consulente di parte, deve dimostrare, attraverso la motivazione, di aver valutato le conclusioni del primo senza ignorare quelle del secondo, offrendo una motivazione adeguata a sorreggere le proprie conclusioni. Nella specie, la sbrigativa quanto apodittica conclusione raggiunta dai giudici del rinvio, nella parte in cui si limitano a ritenere "condivisibile la contestata percentuale di invalidità permanente" (f. 9 della sentenza impugnata) omette del tutto di considerare, valutare e motivatamente disattendere le puntuali contestazioni mosse da parte ricorrente: 1) sotto il profilo della intrinseca contraddittorietà dell'elaborato - che discorre, da un canto, di mera "riduzione della capacità procreativa", per poi rilevare non la sola difficoltà, bensì la impossibilità tout court del recupero della capacità gestazionale, volta che, si afferma, "solo tecniche di fecondazione assistita potrebbero aiutarla (f. 14 della CTU); 2) sotto l'aspetto delle puntuali, documentate e specifiche critiche ad esso mosse, con riferimento tanto alle tabelle elaborate dalle principali scuole medico-legali quanto al disposto dell'art. 139 vecchio testo del d.lgs. 209/2005 (ed alla relativa tabella delle menomazioni con riferimento alle percentuali previste per l'infertilità). Va conseguentemente riaffermato, e rigorosamente applicato, nella specie, il principio di diritto secondo il quale, pur rientrando nella facoltà del giudice di merito la scelta di fondare la propria decisione in adesione alle conclusioni raggiunte dal proprio consulente, non gli è specularmente consentito, a pena di nullità della pronuncia per apparenza della motivazione, ignorare tout court i rilievi di parte quando gli stessi non risultino palesemente infondati o pretestuosamente defatigatori.

c) All'erronea individuazione, qualificazione e quantificazione delle voci di danno risarcibile (motivo 7 sub A-B). La motivazione della sentenza, difatti, non è conforme a diritto in parte qua, sovrapponendosi, in essa, voci di danno in parte coincidenti, in parte erroneamente non considerate a fini liquidatori.

Va, in proposito, dato continuità al più recente orientamento di questa Corte regolatrice (Cass. 18641/2011; 20292/2012; 11851/2015; 7766/2016; 26805/2017), a mente del quale, "al di là ed a prescindere, per il momento, dalla condivisibilità di alcune affermazioni volte a negare tout court l'autonomia del danno morale quale componente risarcitoria, sì come ritenuta foriera di presunte "duplicazioni risarcitorie di incerta classificazione" (Cass. n. 21716/2013; Cass. n. 36/2016), su di un piano generale (Cass. 4379/2016) il nostro ordinamento positivo conosca e disciplini (soltanto) la fattispecie del danno patrimoniale, nelle due forme (o, se si preferisce, nelle due "categorie descrittive") del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.), e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.)" (Cass. 7766/2016).

La natura cd. "unitaria" di quest'ultimo, come espressamente predicata dalle sezioni unite di questa Corte con le sentenze del 2008, deve essere intesa, secondo il relativo insegnamento, come unitarietà rispetto alla lesione di qualsiasi interesse costituzionalmente rilevante non suscettibile di valutazione economica (Cass. ss.uu. 26972/2008).

Natura unitaria sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, del rapporto parentale.

Natura onnicomprensiva sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, onde evitare risarcimenti cd. bagattellari (in tali termini, del tutto condivisibilmente, Cass. 4379/2016).

L'accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale costituiscono, pertanto, questioni concrete e non astratte.

Ma, se esse non richiedono il ricorso ad astratte tassonomie classificatorie, non possono per altro verso non tener conto della reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore ancor più grave, e cioè quello di sostituire una (meta)realtà giuridica ad una realtà fenomenica.

Oggetto della valutazione di ogni giudice chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali è, nel prisma multiforme del danno non patrimoniale, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Le sentenze del 2008 offrono, in proposito, una implicita quanto non equivoca indicazione al giudice di merito nella parte della motivazione ove si discorre di centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo - così dettando un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale per il nuovo millennio.

La stessa (meta)categoria del danno biologico fornisce a sua volta appaganti risposte al quesito circa la "sopravvivenza descrittiva" (come le stesse sezioni unite testualmente la definiranno) del cd. danno esistenziale, se è vero come è vero che "esistenziale" è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute (ma non solo), si colloca e si dipana nella sfera dinamico-relazionale del soggetto, come conseguenza della lesione medicalmente accertabile (Cass. ss.uu. 6572/2006, sia pur con riferimento alla diversa tematica del mobbing, lo definirà come "pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare a-reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno").

Così che, se di danno agli aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto che lamenti una lesione della propria salute (art. 32 Cost.) è lecito discorrere con riferimento al danno cd. biologico (rispetto al quale costituisce, essa sì, sicura duplicazione risarcitoria il riconoscimento di un autonomo "danno esistenziale", consistente, di converso, proprio nel vulnus arrecato a tutti gli aspetti dinamico-relazionali della vita della persona conseguenti alla lesione della salute), quello stesso danno "relazionale" è predicabile in tutti i casi di lesione di altri diritti costituzionalmente tutelati.

Il danno dinamico-relazionale, dunque (così rettamente inteso il sintagma "danno esistenziale"), è conseguenza omogenea della lesione - di qualsiasi lesione - di un diritto a copertura costituzionale, sia esso il diritto alla salute, sia esso altro diritto (rectius, interesse o valore) tutelato dalla Carta fondamentale.

Queste considerazioni confermano la bontà di una lettura delle sentenze del 2008 condotta, prima ancora che secondo una logica interpretativa di tipo formalistico-deduttivo, attraverso una ermeneutica di tipo induttivo che, dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (oltre alla salute, il rapporto familiare e parentale, l'onore, la reputazione, la libertà religiosa, il diritto di autodeterminazione al trattamento sanitario, quello all'ambiente, il diritto di libera espressione del proprio pensiero, il diritto di difesa, il diritto di associazione e di libertà religiosa ecc.), consenta poi al giudice del merito una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione, sul piano della prova, tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sé, la malinconia, la tristezza) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno cd. esistenziale, in tali sensi rettamente interpretato il troppe volte male inteso sintagma, ovvero, se si preferisca un lessico meno equivoco, il danno alla vita di relazione).

In questa evidente realtà naturalistica si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie che non cancellino la fenomenologia del danno alla persona attraverso sterili formalismi unificanti) all'interrogativo circa la reale natura e la vera, costante, duplice essenza del danno alla persona:

- la sofferenza interiore;

- le dinamiche relazionali di una vita che cambia (illuminante, in tal senso, è il disposto normativo di cui all'art. 612-bis del codice penale, in tema di presupposti del reato cd. di stalking).

Restano così efficacemente scolpiti i due aspetti essenziali della sofferenza: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana. Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, provati caso per caso, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (tra cui il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni) al di là di sommarie quanto impredicabili generalizzazioni.

E se è lecito ipotizzare, come talvolta si è scritto, che la categoria del danno "esistenziale" risulti "indefinita e atipica", ciò appare la probabile conseguenza dell'essere la stessa dimensione della sofferenza umana, a sua volta, "indefinita e atipica".

Di tali premesse è conferma la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 235/2014, predicativa della legittimità costituzionale dell'art. 139 del codice delle assicurazioni, la cui (non superficiale o volutamente parziale) lettura conduce a conclusioni non dissimili.

Si legge, difatti, al punto 10.1 di quella pronuncia, che "la norma denunciata non è chiusa, come paventano i remittenti, alla risarcibilità anche del danno morale: ricorrendo in concreto i presupposti del quale, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell'ammontare del danno biologico, secondo la previsione e nei limiti di cui alla disposizione del comma 3 (aumento del 20%)".

La limitazione ex lege dell'eventuale liquidazione del danno morale viene così motivata dal giudice delle leggi:

"In un sistema, come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata - in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di Garanzia per le vittime della strada, perseguono anche fini solidaristici, l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi" (punto 10.2.2.).

La Corte prosegue, poi, significativamente, sottolineando come "l'introdotto meccanismo standard di quantificazione del danno - attinente al solo, specifico e limitato settore delle lesioni di lieve entità e coerentemente riferito alle conseguenze pregiudizievoli registrate dalla scienza medica in relazione ai primi nove gradi della tabella - lascia comunque spazio al giudice per personalizzare l'importo risarcitorio risultante dall'applicazione delle suddette predisposte tabelle, eventualmente maggiorandolo fino a un quinto in considerazione delle condizioni soggettive del danneggiato".

La motivazione della Corte non sembra prestarsi ad equivoci.

Il danno biologico da micro-permanenti, definito dall'art. 139 C.d.A. come "lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato", può essere "aumentato in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato" secondo la testuale disposizione della norma: e il giudice delle leggi ha voluto esplicitare una volontà legislativa che, alla luce delle considerazioni svolte, limitava la risarcibilità del danno biologico da micro permanente ai valori tabellari stabiliti ex lege, contestualmente circoscrivendo l'aumento del quantum risarcitorio in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato - e cioè attraverso la personalizzazione del danno, senza che "la norma denunciata sia chiusa al risarcimento anche del danno morale" - al 20% di quanto riconosciuto per il danno biologico.

Viene così definitivamente sconfessata, al massimo livello interpretativo, la tesi predicativa di una pretesa "unitarietà onnicomprensiva" del danno biologico.

Anche all'interno del sotto-sistema delle micro-permanenti, resta ferma (né avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo le sovrastrutture giuridiche sovrapporsi alla fenomenologia del danno alla persona) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore e incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto.

Tanti equivoci sarebbero stati forse stati evitati ad una più attenta lettura della definizione di danno biologico, identica nella formulazione (del vecchio testo) tanto dell'art. 139 come del 138 del codice delle assicurazioni nel suo aspetto morfologico (una lesione medicalmente accertabile), ma diversa in quello funzionale, discorrendo la seconda delle norme citate di lesione "che esplica un'incidenza negativa sulla attività quotidiana e sugli aspetti dinamico relazionali del danneggiato".

Una dimensione, dunque, dinamica della lesione, una proiezione tutta (e solo) esterna al soggetto, un vulnus a tutto ciò che è "altro da sé" rispetto all'essenza interiore della persona.

La distinzione dal danno morale si fa dunque ancor più cristallina ad una (altrettanto attenta) lettura dell'art. 138 (nel testo previgente alla novella del 2017, della quale di qui a breve si dirà), che testualmente la Corte costituzionale esclude dalla portata precettiva del proprio decisum in punto di limitazione ex lege della liquidazione del danno morale.

Il meccanismo standard di quantificazione del danno attiene, difatti, "al solo, specifico, limitato settore delle lesioni di lieve entità" dell'art. 139 (e non sembra casuale che il giudice delle leggi abbia voluto rafforzare il già chiaro concetto con l'aggiunta di ben tre diversi aggettivi qualificativi).

L'art. 138 previgente, difatti, dopo aver definito, alla lett. a) del comma 2, il danno biologico in maniera del tutto identica a quella di cui all'articolo successivo, precisa poi, al comma 3, che "qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, ... l'ammontare del danno può essere aumentato dal giudice sino al trenta per cento con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato".

Lo stesso tenore letterale della disposizione in esame lascia comprendere il perché la Corte costituzionale abbia specificamente e rigorosamente limitato il suo dictum alle sole micro-permanenti: nelle lesioni di non lieve entità, difatti, l'equo apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato è funzione necessaria ed esclusiva della rilevante incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico relazionali personali.

Il che conferma, seppur fosse ancora necessario, la legittimità dell'individuazione della doppia dimensione fenomenologica della sofferenza, quella di tipo relazionale, oggetto espresso della previsione legislativa in aumento, e quella di natura interiore, da quella stessa norma, invece, evidentemente non codificata e non considerata, lasciando così libero il giudice di quantificarla nell'an e nel quantum con ulteriore, equo apprezzamento.

Il che conferma ancora che, al di fuori del circoscritto ed eccezionale ambito delle micro-permanenti, l'aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione (e dalla risarcibilità) del danno morale.

Senza che ciò costituisca alcuna "duplicazione risarcitoria".

In altri termini, se le tabelle del danno biologico offrono un indice standard di liquidazione, l'eventuale aumento percentuale sino al 30% sarà funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto.

Altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore.

Senza che alcun automatismo risarcitorio sia peraltro predicabile.

Il sistema risarcitorio del danno non patrimoniale, così inteso, conserva, dunque, una sua intima coerenza, e consente l'applicazione dei criteri posti a presidio della sua applicazione senza soluzioni di continuità o poco ragionevoli iati dovuti alla specifica tipologia di diritti costituzionalmente tutelati.

Ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta costituzionale si caratterizza, pertanto, per la sua doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

E se un paragone con la sfera patrimoniale del soggetto fosse lecito proporre, pare delinearsi una sorta di (involontaria) simmetria con la doppia dimensione del danno patrimoniale, il danno emergente (danno "interno", che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e il lucro cessante (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna).

Tale ricostruzione della morfologia del danno non patrimoniale trova, oggi, definitiva quanto inequivoca conferma nella nuova formulazione dell'art. 138 del Codice delle Assicurazioni (contenuta nella Legge annuale per il mercato e la concorrenza, approvato definitivamente il 2 agosto 2017) dove, dopo la oltremodo significativa modificazione della stessa rubrica della norma (che non discorre più di danno biologico, ma di danno non patrimoniale, così spostando definitivamente l'asse del ragionamento probatorio dal solo danno alla salute a tutti gli altri danni conseguenti alla lesione di un diritto costituzionale) si legge, testualmente, alla lett. e), che "al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all'integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico stabilita in applicazione dei criteri di cui alle lettere da a) a d) è incrementata in via percentuale e progressiva per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione.

A tali principi non si è uniformata la Corte di merito, che ha indebitamente sovrapposto una pretesa voce di "danno psicologico ulteriore rispetto al danno morale da reato riconosciuto dal primo giudice" (reato, peraltro, escluso in sede penale), ritenendolo (poco comprensibilmente) "già in parte riconosciuto sotto il profilo del danno morale, ma costituente un quid pluris rispetto al mero danno da reato", per poi procedere alla liquidazione di un supposto "danno biologico complessivo, liquidabile, con personalizzazione massima, in euro 27.770", aggiungendo poi, del tutto erroneamente, che "il danno morale è incluso nel calcolo tabellare", onde il suo riconoscimento avrebbe comportato "duplicazione risarcitoria". Non risulta, per altro verso, identificabile il ragionamento probatorio che ha condotto alla determinazione della somma in concreto liquidata, non essendo stati in alcun modo specificati i criteri di valutazione delle varie componenti del danno alla salute in tutti i suoi aspetti dinamico-relazionali (ivi compresi quelli estetici), che, in sede di rinvio, dovranno essere oggetto di una compiuta analisi e di una conseguente, altrettanto compiuta valutazione, considerando che, nella specie, tale danno è consistito nella definitiva perdita della capacità procreativa (pur nella necessaria valutazione delle pregresse difficoltà gestazionali) conseguente ad un intervento chirurgico che, nato come laparoscopia funzionale all'asportazione di una cisti ovarica, si è risolto in una ben più complessa operazione, mai acconsentita, di laparotomia cui è conseguita la definitiva perdita della possibilità di dare alla luce un figlio (e su tali basi andrà conseguentemente considerato, ed autonomamente liquidato, il danno morale).

d) Alla liquidazione del danno subito dal coniuge della signora N. (motivo 9). Risulta, difatti, estesa ben oltre la soglia dell'apparenza motivazionale la sbrigativa quanto incomprensibile affermazione secondo la quale la censura mossa dal M. alla liquidazione disposta in suo favore dal primo giudice, e confermata dalla prima sentenza di appello, doveva ritenersi inaccoglibile "stante l'assoluta genericità della doglianza in punto di quantum debeatur".

In ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, l'odierno ricorrente riproduce (ff. 47-52) tutte le critiche motivatamente mosse ad una pronuncia che riteneva tale danno liquidabile nella misura di 4138 euro e 66 centesimi, rappresentando, con dovizia di argomentazioni, alla Corte di merito l'essenza e la rilevanza del danno lamentato, sostanziatosi nella grave lesione di un determinante aspetto del rapporto parentale, quello, cioè del diritto ad una procreazione biologica ed alla creazione di una famiglia in cui fossero presenti dei figli naturali.

Appare, pertanto, palesemente illegittima una liquidazione la cui natura non solo meramente simbolica, ma addirittura offensiva per la dignità della persona nella sua dimensione di aspirante genitore biologico, viene pronunciata in spregio del costante insegnamento di questa Corte regolatrice, sia precedente che successivo agli insegnamenti delle sezioni unite del 2008, a mente del quale il risarcimento del danno non patrimoniale deve necessariamente rivestire carattere di integrale riparazione (pur nell'amara consapevolezza della irriducibilità della sofferenza umana ad una riparazione in denaro) delle conseguenze inferte a diritti espressamente tutelati dalla Carta costituzionale.

e) Alla liquidazione delle spese processuali, delle quali la Corte territoriale ha disposto la integrale quanto compensazione, pur essendo risultati gli odierni ricorrenti sostanzialmente vittoriosi in tutte le fasi del presente procedimento.

I restanti motivi devono essere rigettati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di appello di Roma in altra composizione.

A. Di Majo

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