Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 26 gennaio 2018, n. 2037

Presidente: Di Palma - Estensore: Nazzicone

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 26 febbraio 2016, la Corte d'appello di Roma, decidendo in sede di rinvio, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma ha condannato Enav s.p.a. al pagamento, in favore di Giulio S., della somma di euro 185.924,48, oltre alla rivalutazione ed agli interessi legali sugli importi annualmente rivalutati, a partire dalle singole scadenze dal 31 marzo 2002 al 31 dicembre 2003, quali compensi non percepiti, a titolo di risarcimento del danno per la revoca senza giusta causa dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione della società, deliberata dall'assemblea il 9 marzo 2002.

La Corte del merito ha preso le mosse dalla sentenza di legittimità del 18 settembre 2013, n. 21342, la quale, cassando con rinvio la precedente decisione della corte territoriale, confermativa di quella di primo grado di rigetto della domanda, aveva ribadito il principio secondo cui, in ipotesi di cessazione del consigliere di amministrazione, a seguito della modifica della struttura dell'organo amministrativo da collegiale a monocratico, la giusta causa oggettiva di revoca non è integrata in sé dalla decisione assembleare di dare alla società il nuovo assetto organizzativo; la predetta sentenza di legittimità, inoltre, aveva dichiarato inammissibile il motivo del ricorso incidentale di Enav s.p.a., concernente l'integrazione della giusta causa soggettiva di revoca per l'interruzione del rapporto fiduciario tra le parti, questione, dunque, da riesaminare in sede di rinvio.

Ciò posto, la Corte d'appello, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che: a) è fondata l'eccezione di inammissibilità della deduzione, da parte di Enav s.p.a., di ulteriori fatti integranti la giusta causa di revoca solo nel corso del giudizio, dovendo questi essere enunciati nella deliberazione assembleare, mentre non possono essere addotte diverse ragioni in corso di causa; b) la deliberazione dell'assemblea del 9 marzo 2002 indica, a fondamento della disposta revoca del consiglio di amministrazione, due sole ragioni, ovvero l'esigenza di dare una più confacente struttura organizzativa all'organo amministrativo e la necessità di sottrarlo all'eccessiva dialettica interna: secondo la corte del merito, mentre la prima circostanza è stata già ritenuta inidonea a fondare la giusta causa dalla sentenza rescindente di legittimità, la seconda non è tale da integrare una giusta causa di revoca, la quale deve incidere sul pactum fiduciae e inerire alla sfera dell'amministratore, laddove quella menzionata, pur non propriamente a lui estranea, è tuttavia generica, non specificamente riferita alla sua persona e priva di elementi che potessero far ritenere minato il patto di fiducia.

In ordine all'entità del risarcimento, quindi, la Corte:

a) ha liquidato il danno nella somma di euro 185.924,48, con riguardo ai compensi non percepiti nel periodo successivo alla revoca e sino alla naturale scadenza del mandato, tenuto peraltro conto dell'esigenza di non superare il quantum richiesto;

b) ha ritenuto tardivamente dedotti, e comunque non provati, ulteriori danni.

In particolare, ha affermato che non è stata data la prova del danno alla "immagine", avendo l'attore quantificato il pregiudizio subìto in modo apodittico, nell'atto di citazione, nella misura di euro 7.695.924,48, senza indicazione dei parametri di riferimento, mentre solo nella comparsa conclusionale in primo grado egli ha genericamente dedotto di non avere ricevuto ulteriori incarichi manageriali, limitandosi a sostenere di non potere fornire la prova del "fatto negativo"; soltanto nell'atto di appello e nell'atto di riassunzione nel giudizio di rinvio egli ha introdotto ulteriori allegazioni, menzionando il curriculum pregresso e le non soddisfacenti attività in seguito reperite; unicamente in tale ultima sede, ha prodotto complessi conteggi sui livelli remunerativi del settore, però contestati dalla controparte; infine, egli ha concluso in appello chiedendo la minor somma di euro 4.115.647,00 per il danno all'immagine e di euro 1.000.000,00 per il danno alla vita di relazione.

Premesso che grava sull'amministratore, secondo i criteri generali di cui agli artt. 1223 e 2697 c.c., l'onere di provare il nesso causale tra la revoca e il danno all'immagine, con perdita [di] chance e danno non patrimoniale alla vita di relazione, la corte ha ritenuto non raggiunta la prova anche alla luce delle ragioni della revoca, espresse nella deliberazione assembleare, in cui non è parola di inadempimenti o di condotte illegittime dell'amministratore. Infine, ha affermato che lo S. non ha supportato le proprie affermazioni con riscontri oggettivi, né dimostrato di avere proposto domande per incarichi nello stesso settore o in altri settori omogenei.

Avverso questa sentenza viene proposto nuovamente ricorso per cassazione da Giulio S., affidato a quattro motivi.

Resiste l'intimata con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale sulla base di due motivi, cui resiste controparte con proprio controricorso.

L'Enav s.p.a. ha depositato la memoria di cui all'art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Il ricorso principale espone quattro motivi, che possono essere come di seguito riassunti.

Con il primo motivo, il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 163, terzo comma, n. 4, e 164, quinto comma, c.p.c., per non avere la sentenza impugnata rilevato come egli avesse, sin dall'atto di citazione, richiesto la liquidazione del danno di immagine per euro 7.510.000,00, oltre ad euro 185.924,48 per lucro cessante, in relazione a compensi non percepiti, onde non vi era stata nessuna domanda tardiva. Il primo importo, in séguito, era stato precisato anche con riguardo alla perdita di chance e al danno esistenziale, trattandosi per definizione di eventi individuabili nella loro effettiva entità successivamente all'introduzione del giudizio.

Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 161, primo comma, e 164, quinto comma, c.p.c., dato che il giudice di primo grado non aveva ordinato la rinnovazione della citazione, in tal modo emanando una pronuncia implicita di validità dell'atto: onde la mancata proposizione dell'appello sul punto ha sanato il vizio, ove pure esistente, mentre l'attore aveva diritto di procedere ad integrare l'atto di citazione in sede di comparsa conclusionale, allorché l'entità del danno si era manifestata in tutta la sua consistenza; inoltre, anche nel giudizio di rinvio vige l'art. 1226 c.c. ed il giudice procede in via equitativa alla liquidazione del pregiudizio.

Con il terzo motivo, denunzia la violazione dell'art. 345 c.p.c., perché anche nel giudizio di rinvio si possono palesare i danni patiti, nella specie innegabili, secondo i conteggi riportati in ricorso.

Con il quarto motivo, censura la violazione degli artt. 2043 e 2227 [ma 2727, come emerge dal corpo del motivo] c.c. e 115 c.p.c., per avere la corte del merito preteso la prova del nesso causale tra l'illegittima condotta dell'Enav s.p.a. e il danno, mentre tale nesso sussiste, sulla base di nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza, essendo comunque le presunzioni l'unico possibile mezzo di prova in tali evenienze; inoltre, la corte ha mancato di distinguere tra i pregiudizi allegati dall'attore, di cui quello all'immagine è prodromico agli altri due, la perdita di chance e il danno esistenziale, essendo chiaro che la revoca del consiglio di amministrazione, dopo i noti eventi occorsi nell'aeroporto di Linate, costituì un evidente segno di riprovazione del suo operato e di sfiducia da parte della società; né da un top manager può pretendersi che egli provi di aver presentato, come un qualsiasi impiegato, domande di assunzione, per dimostrare il danno patito.

1.2. Col primo motivo del ricorso incidentale, Enav s.p.a. deduce la violazione dell'art. 183 c.p.c., perché la convenuta sin dalla comparsa di risposta in primo grado aveva enunciato le ragioni della revoca del consiglio di amministrazione, che avevano riguardo alle dichiarazioni rese dal prof. S. innanzi alle commissioni parlamentari sulla ritenuta incapacità dell'ente di garantire la sicurezza dei voli dopo il passaggio al sistema RVSM, all'affidamento dell'attività di radiomisure ad una joint venture costituita con una società terza contro il disposto normativo, all'omessa vigilanza sulle attività aziendali, all'eccessiva dialettica interna al consiglio. La corte del merito, tuttavia, ha esaminato solo quest'ultima, reputando fondata l'eccezione di inammissibile introduzione in giudizio delle altre ragioni, sebbene, invece, controparte non avesse mai formulato l'eccezione di tardiva deduzione dei motivi di giusta causa di revoca, né tantomeno allegato l'invalidità della deliberazione assembleare per la mancata enunciazione delle ragioni integranti la giusta causa: in tal modo, la corte d'appello si è sostituita alla parte, introducendo tale motivo di invalidità della deliberazione, ben oltre il termine di decadenza di tre mesi, di cui all'art. 2377 c.c., né trattandosi di deliberazione nulla ex art. 2379 c.c. Infine, è stato violato l'art. 183 c.p.c., nel testo all'epoca vigente, anteriore alla riforma di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, quanto ai termini di decadenza dalla facoltà di sollevare le eccezioni, mentre il rilievo d'ufficio, anche prima dell'entrata in vigore del nuovo art. 101, secondo comma, c.p.c., per giurisprudenza costante avrebbe dovuto essere preceduto dalla fissazione di un termine alle parti per instaurare il contraddittorio sul punto. E la Cassazione, nella sentenza di rinvio del 2013, aveva richiesto l'analisi di tutte le ragioni dedotte da Enav s.p.a. da parte del giudice del rinvio.

Con il secondo motivo, censura l'omesso esame di fatti decisivi, consistenti nelle altre ragioni della revoca, dichiarate da Enav s.p.a., ma non prese in esame dalla corte d'appello, che si è limitata ad esaminare la sola situazione di dialettica interna. In particolare, il giudice del rinvio avrebbe dovuto considerare tutti i fatti già ravvisati dal giudice di primo grado, ossia la constatata incapacità del consiglio d'amministrazione di assicurare l'efficiente gestione col raggiungimento del delicatissimo scopo sociale, nonché la sussistenza, tra i componenti del consiglio, e segnatamente tra presidente ed amministratore delegato, di gravi dissidi interni e di un'esasperata contrapposizione, tradottasi in una poco tempestiva ed impropria amministrazione della società, ed, infine, l'inidoneità dell'organo collegiale ad assolvere al suo mandato ed attuare la vigilanza sui delegati.

2. Giova dapprima considerare, per ragioni di priorità logico-giuridica, i due motivi del ricorso incidentale, da esaminare congiuntamente in quanto intimamente connessi.

Essi sono infondati.

2.1. Occorre ricordare come, a norma dell'art. 2383, terzo comma, c.c., l'assemblea può revocare gli amministratori «in qualunque tempo», ossia durante tutta la durata del rapporto, indipendentemente dagli esercizi stabiliti in origine per la carica, con disposizione rimasta invariata dopo la riforma del diritto societario (nella specie, la deliberazione assembleare è anteriore).

La «giusta causa» di revoca è nozione distinta sia dal mero «inadempimento», sia dalle «gravi irregolarità» di cui all'art. 2409 c.c.: essa riguarda circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, provocate o no dall'amministratore stesso, che però pregiudicano l'affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità: in una parola, il rapporto fiduciario tra le parti (cfr., in tal senso, Cass. 23 marzo 2017, n. 7475; 15 ottobre 2013, n. 23381; 14 maggio 2012, n. 7425; 5 agosto 2005, n. 16526; 7 agosto 2004, n. 15322; 21 novembre 1998, n. 11801; 22 giugno 1985, n. 3768).

Il legame di fiducia con la società, e, per essa, con i soci fonda infatti il rapporto di amministrazione, donde la giusta causa è integrata da ogni fatto che sia idoneo a comprometterlo. Proprio l'ampiezza dei poteri attribuiti all'organo amministrativo presuppone, invero, un'alta intensità di tale fiducia: onde giocoforza è «più ampio lo spazio aperto ai fatti idonei a scuoterla, e, conseguentemente, alla giustificatezza», mentre la proporzionalità della revoca ai fatti imputati all'amministratore si risolve nella valutazione della idoneità di questi ultimi a turbare il rapporto di fiducia (così, in tema di dirigente aziendale, Cass. 7 agosto 2004, n. 15322).

Nonostante l'espressione tradizionale - la stessa degli artt. 2259 e 2476 c.c. - si tratta, peraltro, di un potere di recesso ex lege, ponendo fine ex nunc al rapporto giuridico sorto dal contratto, non investendo invece l'atto di nomina. Ma, essendo l'espressione radicata nel linguaggio del legislatore (v. artt. 2319, 2364, 2373, 2° comma, 2390, 2° comma, 2393, 5° comma, 2449, 2456, 2487 c.c.; artt. 104-bis, 105 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; art. 21, 3° comma, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175; ecc.), ad essa si continuerà a fare riferimento.

Il potere di revoca è concesso dalla legge con notevole ampiezza, alla luce dell'essenziale funzione svolta dall'amministratore di società per azioni, al fine del perseguimento degli scopi di questa: gli amministratori, in sostanza, sono la società (cfr. ora l'art. 2380-bis c.c.).

Trattandosi di facoltà di recesso attribuita ex lege, la società gode sul punto di una forma di autotutela privata, non avendo essa, per sciogliere il rapporto gestorio pure in mancanza di espressa pattuizione ex art. 1373 c.c., necessità di ricorrere al giudice, ma potendo senz'altro porre in essere la deliberazione ad effetto estintivo del rapporto di amministrazione; in seconda battuta, il controllo sulla revoca spetta al giudice, ai soli fini della liquidazione dell'eventuale risarcimento. Il potere discende dall'esercizio dell'autonomia privata; tale esercizio è libero; il confine di questa libertà è nella giusta causa della revoca.

Al riguardo, può parlarsi «non già di un potere illimitato dell'assemblea, ma di una facoltà discrezionale e controllata, che è limitata, ovviamente, non già in vista del conseguimento degli interessi e degli obiettivi societari ma solo in considerazione del rispetto della posizione sociale ed economica dell'amministratore di società. Ossia in ragione della dignità e del sacrificio economico imposto alle persone che rivestono la carica amministrativa e che, in ragione dell'atto di revoca, vedono sacrificata, in una misura più o meno ampia, la propria posizione» (Cass. 15 aprile 2016, n. 7587, in motivazione).

La facoltà di revocare a propria discrezione gli amministratori trova, pertanto, un limite nel presupposto della «giusta causa»: non, però, nel senso che questa sia condizione di efficacia della deliberazione di revoca, la quale resta in ogni caso ferma e non caducabile (salvi eventuali vizi suoi propri), assumendo, invece, la giusta causa il più limitato ruolo di escludere in radice l'obbligo risarcitorio, altrimenti previsto a carico della società per il fatto stesso del recesso anticipato dal rapporto prima della sua scadenza naturale, come stabilita all'atto della nomina.

Può dirsi che la responsabilità per i danni costituisca la tutela di tipo obbligatorio che la legge appresta per l'amministratore revocato senza giusta causa, cui non spetta, invece, la tutela reale: sì da ricondurre la fattispecie alla medesima ratio di altre, in cui il legislatore esclude l'azione caducatoria della deliberazione (accanto alla decadenza dall'impugnazione tempestivamente eccepita dalla società, si pensi alla mancanza della percentuale di azioni sufficiente ad impugnare la delibera, alla titolarità di azioni prive del diritto di voto, alla vendita della partecipazione in corso di causa, alla sanatoria della nullità ex art. 2379-bis, 1° e 2° comma, c.c. e 2379-ter, all'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di trasformazione, fusione o scissione, all'approvazione del bilancio relativo all'esercizio successivo ex art. 2434-bis c.c., e così via).

In tali casi, è precluso l'annullamento o la declaratoria di nullità della deliberazione - in una parola, la sua caducazione - che, dunque, permane nel mondo giuridico e produce per intero i suoi effetti: nella specie, l'estinzione del rapporto di amministrazione. La deliberazione di revoca non viene posta in discussione, tutto risolvendosi sul piano patrimoniale, la continuità della vita sociale fondando le esigenze di certezza e di stabilità degli atti; a tale ratio - comune alle fattispecie ricordate - si aggiunge qui l'intento di presidiare la volontà assembleare che, come è libera di scegliere i gestori, così deve poterli revocare in ogni tempo, qualunque sia il motivo di quella scelta.

2.2. Con riguardo all'esigenza di illustrare la giusta causa, dunque, la deliberazione di revoca dovrà esporre le ragioni che la giustificano.

È noto come, nel diritto societario, costituiscano un numero limitato le deliberazioni degli organi sociali soggette per legge all'obbligo di motivazione (cfr. artt. 2391, 2391-bis, 2441, quinto comma, 2497-ter c.c.), restando di regola i soci liberi di determinarsi senza necessariamente esternare le ragioni delle proprie decisioni.

Accanto alle ipotesi in cui le deliberazioni societarie debbano essere motivate per esplicito dettato normativo, altre possono essere individuate in via interpretativa.

Tra di esse vi sono appunto, sia pure con connotati fra loro parzialmente diversi, le deliberazioni di interruzione del rapporto sociale (artt. 2287, 2473-bis, 2533 c.c.), gestorio (art. 2259, 2383, 2409-duodecies c.c.) o sindacale (art. 2400 c.c.), dove la necessità di verificare la sussistenza della giusta causa, o della fattispecie statutaria, impone di motivare la deliberazione al momento in cui essa viene assunta.

Pertanto, se è vero che il legislatore ha previsto un potere di recesso ex lege in capo alla società, tanto che la giusta causa non si pone come requisito di efficacia dell'atto, la condizione della sussistenza di ragioni integranti la medesima è, tuttavia, da verificare per impedire la nascita del diritto al risarcimento del danno.

Secondo alcuni, peraltro, la mancata esplicitazione a verbale delle ragioni della revoca, che potrebbero allora rimanere inespresse, non ne impedirebbe la successiva enunciazione, ad opera della società, nel corso del giudizio risarcitorio intrapreso dall'amministratore revocato: sempre che, tuttavia, sul piano sostanziale preesistessero alla revoca, che abbiano storicamente concorso a fondare (mentre altri reputano debba tenersi conto anche delle ragioni sopravvenute: ma se queste possano integrare la giusta causa, magari mediante una successiva deliberazione che rinnovi la prima, non è questione di cui sia dato occuparsi in questa sede, essendo estranea al thema decidendum). In tal caso, tutto si ridurrebbe al profilo dell'onere probatorio in giudizio: posto che ben più complesso ed impegnativo è provare l'esistenza di motivi, pure effettivi, non espressamente indicati nel verbale assembleare, laddove la consacrazione all'interno del medesimo costituisce un'indubbia agevolazione probatoria.

È, tuttavia, preferibile ritenere che le ragioni della revoca debbano essere enunciate espressamente nella deliberazione, e non restare meramente implicite, senza dunque facoltà di integrazione in sede giudiziale.

Argomenti relativi alla celerità dell'agire societario, efficienza imprenditoriale, certezza delle situazioni giuridiche, deflazione del contenzioso, buona fede nei rapporti societari e (pur relativo) formalismo degli atti societari inducono a tale conclusione.

La questione è stata già esaminata da questa Corte, che l'ha decisa in tal senso, affermando il condivisibile principio secondo cui l'indicazione delle ragioni nella delibera è imposta dalla circostanza che la revoca è atto dell'assemblea ed in seno ad essa le ragioni della revoca trovano la loro ponderazione e valutazione (Cass. 12 settembre 2008, n. 23557; v. pure, in tema di esclusione del socio da società personale, Cass. 16 giugno 1989, n. 2887).

In conclusione, occorre l'enunciazione esplicita a verbale in ordine alle ragioni di revoca, che devono presentare i caratteri di effettività ed essere ivi riportate in modo adeguatamente specifico; mentre la deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori non è ammessa, restando esse ormai quelle indicate nella deliberazione.

2.3. Ma se, in ipotesi di controversia, le ragioni enunciate nella deliberazione di revoca sono le sole che possono e debbono essere allegate e provate dalla società, la quale non può dedurne (o lo farà in modo irrilevante) ulteriori o diverse, ne deriva che alla società compete la posizione di attore sostanziale in giudizio.

Si pensi al caso similare dell'esclusione del socio, di cui all'art. 2287 c.c. (ma anche artt. 24, 2473-bis, 2533 c.c.), dove, nel cd. giudizio di opposizione all'esclusione (lì, con tutela reale), la situazione sostanziale di attore è in capo alla società, sebbene questa sia convenuta in senso formale. Ciò vuol dire che la società, nel giudizio di opposizione, è onerata di provare i fatti costitutivi della fattispecie di esclusione, come previsti dalla legge o dall'atto costitutivo.

Analogamente, quando l'amministratore revocato agisce in giudizio, contestando la sussistenza della giusta causa e facendo valere il diritto al risarcimento del danno, la posizione sostanziale di attore spetta alla società, onerata della prova della giusta causa di revoca, secondo i caratteri avanti indicati, mentre l'amministratore è il convenuto sostanziale.

La giusta causa è fatto costitutivo della facoltà della società di recedere senza conseguenze risarcitorie; di contro, la deduzione secondo cui la deliberazione non reca le ragioni (idonee ed enunciate a verbale) integranti giusta causa di revoca costituisce una mera difesa, quale negazione della sussistenza del fatto costitutivo predetto.

Quale fatto costitutivo del diritto della società, nei termini illustrati, il giudice dunque valuta se esista o no la giusta causa, in séguito alla stessa domanda attorea: la relativa allegazione da parte dell'amministratore ha lo scopo di sollecitare l'attenzione del giudice sull'assenza di un requisito intrinseco della legittimità dell'operato assembleare. L'assenza di ragioni integranti la giusta causa non è, pertanto, l'oggetto di un'eccezione in senso stretto, ma contestazione del fatto costitutivo della domanda: com'è noto, ove un elemento integri un fatto costitutivo del diritto vantato (profilo sostanziale), l'onere della allegazione e della prova è in capo a chi lo fa valere e la controparte potrà opporvi anche solo una mera difesa (profilo processuale).

Si può dire che, in sostanza, il giudice non può accogliere domande che risultino dagli atti infondate (è la logica della «eccezionalità delle eccezioni in senso stretto»), come portato della stessa funzione giurisdizionale. Il giudice del merito, adìto dall'amministratore per il risarcimento del danno per assenza di una giusta causa di revoca, è tenuto alla valutazione della sussistenza di fatti addebitati all'amministratore, addotti dall'assemblea come giusta causa per la cessazione del rapporto (per tali concetti, v., tra le altre, Cass. 1° settembre 2015, n. 17385; ord. 31 maggio 2016, n. 11223; ord. 10 settembre 2016, n. 17461).

2.4. Circa l'ambito, al riguardo, del sindacato di legittimità, questa Corte ha già precisato (da ultimo, Cass. 10 novembre 2015, n. 22950, in motivazione) come il giudizio circa i fatti integranti le clausole generali o i concetti indeterminati è riservato al giudice del merito solo ove esso appartenga alla specifica singolarità del caso concreto, come tale destinato a restare ivi confinato: ma se, invece, la fattispecie concreta sia idonea a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi, là si ravvisa allora un giudizio di diritto e la necessità dell'intervento nomofilattico della Cassazione, al fine di garantire la prevedibilità delle future decisioni, posto che si tratta d'integrare il contenuto della norma indeterminata o della clausola generale predetta. Trattasi di giudizio di diritto, controllabile ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.

Che la sussunzione della fattispecie concreta sotto l'astratto ed ancorché indeterminato paradigma legislativo, per lo più richiedente un giudizio di valore, operata dal giudice di merito, possa essere sottoposta al sindacato di questa Corte di legittimità è affermato da molte pronunce: così, fra le altre, proprio in tema di licenziamento «per giusta causa» l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare la clausola generale dell'art. 2119 c.c. non sfugge ad una verifica di legittimità (Cass. 9 luglio 2015, n. 14324; 13 agosto 2008, n. 21575; 14 marzo 2013, n. 6501).

In conclusione, per quanto riguarda il giudizio di sussistenza della giusta causa di revoca dell'amministratore, ferma la verifica della ricorrenza in concreto della situazione nel caso di specie - riservata al giudice del merito - la sussunzione della singola ragione di revoca nell'ambito della nozione di giusta causa, di cui all'art. 2383 c.c., è giudizio di diritto.

2.5. Nella specie, le ragioni della revoca furono enunciate nella deliberazione, come afferma la sentenza e come ricordano le stesse parti, con riguardo a due elementi: le esigenze di auto-organizzazione della struttura dell'organo gestorio ed i dissidi disfunzionali verificatisi all'interno del consiglio di amministrazione.

La prima, costituente un motivo di natura oggettiva non pertinente alla condotta dell'amministratore, è stata reputata estranea alla nozione di giusta causa ex art. 2383 c.c. da Cass. n. 21342 del 2013, con effetto vincolante nel presente giudizio, a norma dell'art. 384, secondo comma, c.p.c.; la seconda, più direttamente pertinente alla condotta degli amministratori, per il dictum della decisione ora ricordata avrebbe dovuto essere valutata, nella sua congruenza al fine di integrare la giusta causa di revoca, dal giudice del rinvio.

Né ha pregio l'assunto della ricorrente incidentale, secondo cui detta sentenza di legittimità avrebbe ormai demandato al giudice di rinvio di esaminare tutte le ragioni di revoca, sebbene addotte dalla società solo in corso di causa o ravvisate dal tribunale: non questo è il portato della sentenza stessa, la quale si limitò a giudicare inammissibile, in quanto relativo a questione rimasta assorbita nel giudizio di appello, il motivo concernente la sussistenza della causa soggettiva di revoca per lesione del rapporto fiduciario tra le parti, che avrebbe dovuto essere riesaminata in sede di rinvio.

Ciò appunto è quanto ha fatto la sentenza impugnata: la quale ha giudicato la dialettica interna «circostanza del tutto generica, non specificamente riferita alla sua persona ed assolutamente priva di elementi che possano far ritenere minato il patto di fiducia». L'esistenza di gravi dissidi nell'ambito consiliare, in particolare tra presidente ed amministratore delegato, e la loro esasperata contrapposizione, con conseguente intempestiva ed impropria amministrazione dell'ente - ossia, la seconda ragione enunciata nella deliberazione - non è stata dunque ritenuta dalla sentenza impugnata integrare giusta causa di revoca.

Tale accertamento non è stato validamente contrastato dalla ricorrente incidentale, la quale non ha speso neppure una parola per affermare che, viceversa, proprio la descritta condotta avrebbe dovuto ritenersi integrare la giusta causa ex art. 2383 c.c., avendo invero concentrato i suoi motivi unicamente sul dovere, a vario titolo, per il giudice del merito di valutare anche gli argomenti giustificativi della revoca non espressi nella deliberazione.

3. I primi tre motivi del ricorso principale sono inammissibili, per difetto di autosufficienza.

La corte d'appello ha ritenuto che tardivamente siano state dall'attore allegate voci di danno diverse dalla perdita dei compensi, quali il danno alla immagine (rectius, reputazione professionale), da perdita di chance e il danno esistenziale, i cui fatti costitutivi non erano dedotti nell'atto introduttivo, né furono tempestivamente specificati nel prosieguo.

Risponde invero a principio consolidato che l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell'iter processuale (fra le altre, Cass. 8 giugno 2016, n. 11738; 30 settembre 2015, n. 19410; 10 novembre 2011, n. 23420): adempimento nella specie non assolto.

4. Il quarto motivo del ricorso principale censura le argomentazioni della sentenza impugnata, con le quali è stato negato che sia stata raggiunta la prova di un ulteriore danno risarcibile.

4.1. La corte del merito, dopo avere reputato intempestiva la pretesa di voci di danno diverse dalla mancata percezione dei compensi sino a fine mandato, ha affermato che - in ogni caso - esse sono rimaste sfornite di prova: in particolare, osservando che la deliberazione di revoca non indica nessun inadempimento commesso dall'amministratore, onde manca un discredito; che non è provato il nesso causale tra l'assunzione della deliberazione assembleare e la dedotta mancanza di altre idonee opportunità di impiego professionale; che non è stato dimostrato come lo S. si attivò proponendo domande per reperire altri incarichi dopo la sua revoca.

In sostanza, la corte d'appello non ha ravvisato anzitutto nessun elemento da cui desumere che la revoca fu disposta con modalità tali da ledere la personalità dell'amministratore revocato, avendo accertato che la deliberazione assembleare enunciava ragioni della revoca estranee a fatti integranti condotte inadempienti o illegittime dell'amministratore, mentre deve «escludersi l'esistenza di tale nesso di causa per il tenore stesso delle motivazioni della revoca riportate nella delibera assembleare, non essendo stati contestati né inadempimenti né condotte illegittime a S.». La revoca, secondo la sentenza impugnata, fu determinata e motivata con l'esigenza di riorganizzare la struttura dell'organo gestorio e di superare l'eccessiva dialettica interna a quello collegiale; mentre nella deliberazione neppure furono prospettati e contestati inadempimenti da parte dello S. ai doveri della carica.

Se quindi, da un lato, le ragioni addotte dalla società non integravano una giusta causa di revoca, dall'altro lato però, e proprio per tale motivo, esse neppure sono state reputate suscettibili di ledere la reputazione ed il prestigio professionale del ricorrente.

In secondo luogo, la corte ha negato sia stato raggiunta la prova del nesso causale tra la revoca e il danno lamentato.

4.2. Il motivo è inammissibile, per essere esso rivolto avverso una parte della motivazione che è priva di effetti giuridici.

Invero, qualora il giudice che, come nella specie, abbia ritenuto inammissibile una domanda, o un capo di essa, o un singolo motivo di gravame, così spogliandosi della potestas iudicandi sul merito, proceda poi comunque all'esame di quest'ultimo, è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di impugnazione della sentenza da lui pronunciata che ne contesti la motivazione, da considerarsi svolta ad abundantiam, su tale ultimo aspetto (e multis, Cass. 20 agosto 2015, n. 17004; 19 dicembre 2014, n. 27049; sez. un., 30 ottobre 2013, n. 24469; sez. un., 28 novembre 2012, n. 21110).

Peraltro, per la particolare importanza della questione, è opportuno procedere al fine della enunciazione del principio di diritto, a norma dell'art. 363 c.p.c.

4.3. Ribadita, anzitutto, la regola secondo cui anche nelle azioni di responsabilità contrattuale grava sull'attore la prova dell'elemento oggettivo della fattispecie, composto da condotta, danno e nesso causale tra i medesimi, solo l'elemento soggettivo essendo oggetto di inversione dell'onere probatorio ex art. 1218 c.c. (e plurimis, Cass. 10 marzo 2016, n. 4014, in tema di procedure di selezione del personale per l'accesso a qualifica superiore; 8 gennaio 2016, n. 158, in tema di mobbing), occorre ora operare alcune precisazioni in tema di risarcimento del danno ex art. 2383 c.c.

La revoca anticipata senza giusta causa dell'amministratore dalla carica, mentre comporta il ristoro per la perdita dei residui compensi (ma anche ciò va delimitato, dovendosi pur sempre applicare le regole di cui agli artt. 1223-1227 c.c.), non necessariamente produce tuttavia altro tipo di danno, neppure alla reputazione.

Questa Corte ha già osservato come, nel caso di revoca dell'incarico di amministratore, il danno consiste «nel lucro cessante, e cioè nel compenso non percepito per il periodo in cui l'amministratore avrebbe conservato il suo ufficio, se non fosse intervenuta la revoca», in riferimento a questa voce di danno non sussistendo inoltre ragione di ricorrere alla liquidazione equitativa; l'amministratore potrebbe, bensì, ottenere la liquidazione di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli consistenti nel lucro cessante, ma di tali danni deve offrire puntuale allegazione e prova (Cass. 12 settembre 2008, n. 23557).

Reputa il Collegio che tale principio debba essere ora precisato, nel senso che alla responsabilità contrattuale ex art. 2383 c.c. per la lesione del diritto alla prosecuzione della carica gestoria sino alla naturale scadenza, la quale sorge già per il fatto che la deliberazione enunci ragioni inidonee a fondare il potere di legittimo recesso, può affiancarsi una responsabilità per i danni ulteriori, quando: a) i fatti enunciati nella deliberazione integrino specifica violazione delle regole di buona fede e correttezza, ad esempio siano fatti rivelatisi diffamatori; oppure, in via concorrente, b) le concomitanti e concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius.

In tali casi, anche il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, con le eventuali ricadute patrimoniali) diviene risarcibile.

Occorre, tuttavia, un quid pluris, rispetto alla mera mancanza di giusta causa. L'assenza di giusta causa di revoca non comporta - di per sé ed automaticamente - la risarcibilità, in particolare, del danno alla reputazione o prestigio professionale dell'amministratore revocato, e delle ulteriori conseguenze economiche, in termini di mancato guadagno, che se ne assumano derivate: a differenza della perdita del diritto al compenso per il periodo successivo alla revoca e sino alla prevista scadenza del mandato (il quale può desumersi in via presuntiva, salvo che circostanze concrete non lo escludano), il preteso pregiudizio per la lesione della reputazione e per i mancati guadagni da discredito reputazionale deve essere specificamente allegato e dimostrato come ulteriore conseguenza immediata e diretta della revoca (sebbene anche in via presuntiva), alla stregua soprattutto delle ragioni, esplicitate nella deliberazione ed eventualmente diffuse in un dato ambiente economico, poste a suo fondamento.

Dal momento che, da un lato, anche eventi diversi da comportamenti imperiti o negligenti dell'amministratore possono integrare la giusta causa di revoca, la quale attiene al mero rapporto fiduciario tra le parti, e che, dall'altro lato, le modalità di esternazione di dette ragioni possono ben essere continenti e corrette, è possibile che, dalla revoca in questione, non discenda nessuna lesione alla reputazione ed all'onore del revocato: questa dovrà, invece, essere provata di volta in volta, quale conseguenza diretta ed immediata della revoca, senza nessun automatismo nel senso che alla revoca dell'amministratore dalla carica segua sempre un pregiudizio risarcibile alla sua reputazione, che non ne costituisce affatto, come pretenderebbe il ricorrente, una conseguenza in re ipsa.

Si tratta, infatti, di un pregiudizio che può essere ricollegato alla revoca non per la mera mancanza di giusta causa, ma solo in presenza di un quid pluris, diverso ed ulteriore, contenuto all'interno della deliberazione di revoca oppure al di fuori di essa, il quale palesi ad esempio un'attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell'amministratore nel contempo revocato.

Del resto, una certa diffusione all'esterno della notizia concernente la revoca del consiglio di amministrazione d'una società per azioni (specie se interamente partecipata dallo Stato) è fisiologica e proporzionata con l'interesse della società a provvedervi, potendo ben attuarsi senza l'utilizzo di forme e modalità integranti lesione della dignità personale. Può darsi, dunque, che alla cessazione del rapporto gestorio non ne siano seguiti altri dello stesso tipo: e, però, questa deve essere conseguenza ricollegabile non alla cessazione del rapporto in sé, ma alle modalità concretamente lesive della reputazione che si possano individuare nella revoca o in fatti illeciti distinti ed ulteriori posti in essere dalla società (anche in concorso con altri soggetti).

In conclusione, si deve affermare il seguente principio di diritto:

«In caso di revoca dell'amministratore di società azionaria, alla responsabilità contrattuale ex art. 2383 c.c. relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa dal rapporto di amministrazione, può aggiungersi la responsabilità, sempre di natura contrattuale, per la violazione delle regole di buona fede e correttezza, oppure una responsabilità extracontrattuale della società, o di soggetti in concorso con essa, solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris, diverso ed ulteriore, rispetto alla revoca in sé, come allorché le stesse ragioni esternate della revoca, in luogo che essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalità della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo, siano tali da ledere un diritto della persona (come onore, reputazione, identità personale, con le eventuali conseguenti ricadute patrimoniali) distinto dal diritto dell'amministratore alla prosecuzione della carica sino alla sua naturale scadenza».

5. Le spese vengono interamente compensate, attesa la reciproca soccombenza.

Deve, inoltre, provvedersi alla dichiarazione di cui all'art. 13 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, compensando fra le parti le spese di lite.

Dichiara che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono i presupposti per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

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