Corte di cassazione
Sezione II civile
Ordinanza 14 marzo 2018, n. 6230

Presidente: Petitti - Relatore: Grasso

Ritenuto che la Corte d'appello di Campobasso, con decreto depositato il 31 marzo 2016, rigettò l'opposizione, avanzata da Maria Gabriella M. avverso il decreto monocratico depositato il 19 novembre 2013, con il quale il Consigliere delegato della stessa Corte locale aveva disatteso la domanda di equa riparazione per la non ragionevole durata di un giudizio civile, essendosi estinto il processo, ai sensi dell'art. 393 c.p.c., a cagione della tardiva riassunzione;

che la reiezione in parola aveva riguardato il ricorso del 3 giugno 2013, con il quale la parte aveva riproposto la domanda di cui sopra, dopo che la Cassazione, con la sentenza n. 23153/2012, aveva cassato il precedente decreto n. 132/2010 della Corte di Campobasso, che, accogliendo in parte la pretesa, aveva condannato il Ministero della Giustizia a pagare la somma di Euro 2.554,79, rinviando al giudice del merito perché valutasse la spettanza del periodo durante il quale la ricorrente era rimasta contumace, che era stato escluso dalla Corte locale;

che avverso la decisione di cui sopra la M. propone ricorso corredato da sei motivi e che la memoria illustrativa non può essere presa in considerazione in quanto tardiva;

che L'Amministrazione interessata, per mezzo dell'Avvocatura Generale dello Stato ha, con controricorso, chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi il ricorso;

che il Procuratore Generale, in persona del sostituto Carmelo Sgroi, ha concluso come in atti [i.e. per il rigetto del ricorso - n.d.r.];

OSSERVA

Tutti gli esposti motivi, pur evidenziando profili che si discostano, sia pure non sempre apprezzabilmente l'uno dall'altro, risultano, in ogni caso, osmotici fra loro e, pertanto, conviene riportarli ed esaminarli unitariamente.

Con il primo motivo viene allegata la violazione degli artt. 112, in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c.; con il secondo la mancanza assoluta di motivazione, in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c.; con il terzo ed il quarto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 393 e 310 c.p.c. e dell'art. 4 l. n. 89/2001, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.; con il quinto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. c.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.; con il sesto, violazione e falsa applicazione di non meglio precisate norme di diritto e del «principio de quo», in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.

Queste, in sintesi, le ragioni esposte in ricorso:

- la ricorrente non aveva contestato, siccome affermato nel provvedimento, che «la domanda giudiziale, allorché l'atto richiesto per impedire la decadenza consiste nella proposizione di una azione, non è idonea ad impedire la decadenza del diritto dedotto in giudizio allorquando, pur essendo stata proposta tempestivamente, essa sia divenuta inefficace per essersi, nelle more del giudizio e dopo la scadenza del termine decadenziale, verificata l'estinzione del processo», bensì rilevato la non applicabilità del principio, dovendo conservare efficacia la statuizione di merito, sulla quale si era formato il giudicato implicito sulle questioni pregiudiziali, preclusivo di nuovo vaglio della decadenza;

- la domanda riproposta differiva da quella originaria «perché non richiedeva accertamenti» e perché aveva oggetto diverso, non concernendo l'an e il quantum ma solo «un residuo quantum»;

- la motivazione, in quanto estranea all'oggetto del giudizio e, comunque, perché apparente, doveva ritenersi insussistente;

- la statuizione della Cassazione «precludeva un nuovo esame della decadenza» e conservava il suo effetto vincolante anche nel nuovo instaurato processo, ex art. 393 c.p.c.;

- il principio di diritto richiamato dalla Corte territoriale non avrebbe potuto avere effetto dirimente in quanto affermato dalla Cassazione a riguardo di fattispecie non identiche sul piano sostanziale e processuale;

- il principio enunciato dalla Cassazione (sentenza n. 3505 del 14 aprile 1994) era stato erroneamente richiamato dal provvedimento gravato.

La Corte non condivide le esposte critiche.

Non è seriamente discutibile che con la decadenza l'ordinamento impone, per ragioni le più varie (tutte, comunque, riconducibili ad esigenze non disponibili) l'esercizio di una data attività entro un termine perentorio e la funzione preclusiva, salvo specifiche ed eccezionali previsioni di legge, non può incontrare deroghe, che, inevitabilmente, ne negherebbero l'essenza e la ragion d'essere. La tassatività delle rare ipotesi derogatorie e, di converso, la perentorietà dell'effetto preclusivo fa escludere la scelta ermeneutica di porre nel nulla lo sbarramento privilegiando opzioni, che, pur fondate apparentemente su regole e principi non controvertibili, abbiano lo scopo di aggirare e neutralizzare la preclusione, frustrandone la ratio.

Al contrario di quanto affermato in ricorso, la diversità di materia non rende qui impertinente il principio condivisamente enunciato in sede di legittimità, richiamato dal provvedimento gravato, secondo il quale la domanda giudiziale, allorché l'atto richiesto per impedire la decadenza consiste nella proposizione di una azione, non è idonea ad impedire la decadenza dal diritto dedotto in giudizio allorquando, pur essendo stata proposta tempestivamente, essa sia divenuta inefficace per essersi, nelle more del giudizio e dopo la scadenza del termine decadenziale, verificata l'estinzione del processo (Sez. 1, n. 3505, 14 aprile 1994, Rv. 486179). Quel che, infatti, rileva è che il termine decadenziale risulti effettivamente rispettato attraverso il compimento efficace dell'atto previsto.

Di conseguenza, in perfetta analogia con la vicenda processuale qui al vaglio, questa Corte ha già avuto modo di chiarire, per quel che qui rileva, che in tema di effetti del giudizio di rinvio sul giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, qualora alla pronunzia sul decreto sia seguita l'opposizione con il suo accoglimento (totale o parziale), e successivamente la sentenza di merito sia stata a sua volta cassata con rinvio, nel caso in cui il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto non trova applicazione il disposto dell'art. 653 c.p.c., secondo cui a seguito dell'estinzione del processo di opposizione il decreto che non ne sia munito acquista efficacia esecutiva, ma il disposto dell'art. 393 c.p.c., alla stregua del quale alla mancata riassunzione consegue l'estinzione dell'intero procedimento e, quindi, anche l'inefficacia del decreto ingiuntivo opposto (Sez. un., n. 4071, 22 febbraio 2010, Rv. 611575).

Si era già puntualmente osservato, ad ulteriore approfondimento sistematico, che la domanda giudiziale è un evento idoneo ad impedire la decadenza di un diritto, non in quanto costituisca la manifestazione di una volontà sostanziale, ma perché instaura un rapporto processuale diretto ad ottenere l'effettivo intervento del giudice, sicché l'esercizio dell'azione giudiziaria non vale a sottrarre il diritto alla decadenza qualora il giudizio si estingua, facendo venire meno il rapporto processuale; infatti, l'inefficacia degli atti compiuti nel giudizio estinto, prevista dall'art. 310, secondo comma, c.p.c., non può essere arbitrariamente limitata ai soli aspetti processuali, dovendo estendersi anche a quelli sostanziali, fatte salve le specifiche deroghe normative (come ad es. quella di cui all'art. 2952, terzo comma, c.c.). D'altra parte, la non estensione alla decadenza dell'effetto interruttivo della domanda giudiziale previsto dalle norme sulla prescrizione, secondo quanto stabilito dall'art. 2964 c.c., è giustificata dalla non omogeneità della natura e della funzione dei due istituti, trovando la prescrizione fondamento nell'inerzia del titolare del diritto, sintomatica per il protrarsi del tempo, del venir meno di un concreto interesse alla tutela, e, la decadenza nel fatto oggettivo del mancato esercizio del diritto entro un termine stabilito, nell'interesse generale o individuale, alla certezza di una determinata situazione giuridica (Sez. 2, n. 1090, 18 gennaio 2007, Rv. 594483).

A suggello di quanto si è andato esponendo è utile riprendere la massima che può trarsi da statuizione emessa in puntuali termini, la quale ha precisato che in tema di procedimento camerale per equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, è ammissibile e deve essere accolto il ricorso per cassazione proposto nei confronti del provvedimento del presidente della corte d'appello, che neghi la fissazione di una nuova udienza, richiesta nel ricorso in riassunzione ai sensi dell'art. 181 c.p.c., proposto a seguito di provvedimento di "non luogo a provvedere", già emesso dal collegio della medesima corte a causa della mancata comparizione delle parti all'udienza in camera di consiglio, fissata ai sensi dell'art. 3, comma 4, legge cit., in quanto, anche se il provvedimento impugnato non ha natura decisoria, tuttavia conclude in modo abnorme un processo contenzioso su diritti soggettivi, né potendo invocarsi la riproponibilità della domanda, ai sensi dell'art. 310 c.p.c., ostandovi il termine di decadenza di cui all'art. 4 legge cit., insuscettibile d'interruzione. Decisione, quest'ultima, la quale conferma la tassatività del termine decadenziale, in alcun modo aggirabile.

Le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle attività espletate.

Non trova applicazione l'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.147,50 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

P. Tonini, C. Conti

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