Corte di cassazione
Sezione III civile
Ordinanza 20 marzo 2018, n. 6854

Presidente: Travaglino - Relatore: Ambrosi

FATTI DI CAUSA

Manrico Maria C. premesso di aver assistito, nella qualità di difensore, Marco A. e Giulia A. nel giudizio di opposizione a precetto instaurato dinanzi al Tribunale di Roma contro il Condominio di via [omissis], in Roma, conseguente al decreto ingiuntivo n. 11433/2007, a sua volta, opposto innanzi ad altro giudice, dedusse che nel corso del giudizio di opposizione a precetto, gli opponenti - revocatogli l'incarico professionale e transatta nel frattempo la lite con il Condominio - decisero di abbandonarla, non provvedendo alla nomina di un nuovo difensore. Pertanto, sul presupposto della nullità della transazione per non essere stato richiesto il suo ausilio, l'avv. C. propose atto di intervento nel giudizio di opposizione a precetto, quale distrattario, deducendo l'inesistenza di ogni atto compiuto dallo Studio amministrativo Catania s.n.c. in nome e per conto del predetto Condominio nonché della delega conferita dal menzionato Studio all'avv. S. al fine dell'ottenimento dell'opposto precetto ed insistendo per l'accoglimento dell'opposizione.

Il Tribunale di Roma con sentenza 11 dicembre 2009 dichiarò inammissibile la domanda di intervento «non potendo l'interveniente proporre domande a favore di terzi, stante il divieto di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c.» e condannò il C. al pagamento delle spese di lite in favore dello Studio amministrativo Catania s.n.c.

Il C. propose impugnazione avverso quest'ultima decisione deducendo con un primo motivo di appello l'avvenuta cancellazione dal Registro delle Imprese della s.n.c. in data 11 ottobre 2006 e con un secondo e terzo la genericità della liquidazione delle spese in favore della medesima società.

La Corte di appello di Roma con sentenza 8 luglio 2014 rigettò l'appello, con condanna alle spese.

Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile il primo motivo di appello per carenza di specificità ed in particolare per non aver censurato la ratio decidendi posta dal giudice di prime cure a base della declaratoria di inammissibilità dell'intervento e ha rigettato i restanti motivi asserendo che «Non essendovi stata impugnazione da parte di tutte le parti del giudizio di I grado e non potendosi valutare tutto l'iter processuale innanzi al Tribunale».

Propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi, Manrico Maria C. Resiste con controricorso lo Studio amministrativo Catania, depositando anche memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo ["Violazione dell'art. 360, n. 4, c.p.c. nel combinato disposto dell'art. 277 c.p.c. Nullità della sentenza"] il ricorrente lamenta che i giudici di merito non avrebbero dato peso al fatto dell'avvenuta cancellazione dal Registro delle Imprese in data 11 ottobre 2006 dell'appellato Studio amministrativo Catania s.n.c., attribuendogli il diritto alla vittoria delle spese.

1.1. Il motivo è manifestamente infondato.

Dalla sentenza impugnata emerge che il giudice di primo grado aveva dichiarato inammissibile l'atto di intervento del C. e rigettato le ulteriori domande di cui al medesimo intervento, evidenziando che:

- da un lato, «il thema decidendum è chiaramente limitato alle domande di cui all'atto di intervento, avendo gli opponenti e gli opposti, a seguito di transazione, abbandonato il giudizio. Preliminarmente deve rilevarsi che con l'atto di intervento Manrico C. è legittimato esclusivamente ad agire per la tutela di un proprio diritto» e,

- dall'altro, «non potendo l'interveniente proporre domande a favore di terzi, stante il divieto di sostituzione processuale di cui all'art. 81 c.p.c. Conseguentemente deve dichiararsi inammissibile la domanda di cui all'atto di intervento relativa all'accoglimento dell'opposizione proposta nel presente giudizio e successivamente abbandonata da A. Marco e A. Giulia».

La Corte d'appello ha individuato in tali argomentazioni una duplice ratio decidendi e ha escluso che il motivo di gravame censurasse idoneamente la seconda ratio, e precisamente quella posta a base della declaratoria di inammissibilità dell'atto di intervento fondata sul divieto posto dall'art. 81 c.p.c. di proporre domande a favore di terzi.

Il ricorrente si limita, invece, ad insistere in merito alla nullità della sentenza di appello per non aver considerato ai fini della regolazione delle spese la circostanza della cancellazione dal registro delle imprese dello Studio amministrativo Catania s.n.c.

In proposito, questa Corte ha più volte affermato che "L'interpretazione del contenuto dell'atto di appello è riservata al giudice di merito ed è sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente motivata" e che tale interpretazione deve essere condotta tenendo conto sia della formulazione letterale che del contenuto sostanziale dell'atto, che ne esprime la volontà effettiva attraverso l'enunciazione e la prospettazione delle ragioni addotte a sostegno, in relazione alla finalità che la parte intende raggiungere. A tal fine, il giudice d'appello è libero di verificare l'esatta natura delle questioni dedotte in giudizio nei motivi di gravame e di precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, purché non introduca nuovi elementi di fatto del tutto estranei al thema devolutum (Cass. 30 agosto 2007, n. 18310; Cass. n. 27789 del 2005; Cass. n. 4720 del 1996).

Inoltre, ha già rilevato che, qualora la sentenza di primo grado pronunci sulla domanda in base ad una pluralità di autonome ragioni, ciascuna di per sé sufficiente a giustificare la decisione (come nel caso in esame), la parte soccombente ha l'onere di censurare con l'atto d'appello ciascuna delle ragioni della decisione, non potendosi, in difetto, trattare successivamente della ragione non tempestivamente contestata e non potendosi, conseguentemente, più nemmeno utilmente discutere, sotto qualsiasi profilo, della stessa statuizione che nella detta ragione trova autonomo sostegno, a nulla valendo a tal fine la richiesta di integrale riforma della sentenza, poiché la non contestata autonoma ragione di decisione resta anche in tal caso idonea a sorreggere la pronunzia impugnata, non potendo il giudice d'appello estendere il suo esame a punti non compresi neppure per implicito nei termini prospettati dal gravame, senza violare il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (Cass. 30 agosto 2007, n. 18310; Cass. 8 giugno 2001, n. 7809).

Ciò premesso, si rileva che correttamente la Corte d'appello ha escluso che nell'atto di appello fosse censurata la seconda ratio assunta dal giudice di primo grado a fondamento della propria decisione. A fronte, infatti, del rilievo contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui, l'interveniente non può proporre domande a favore di terzi, stante il divieto di sostituzione processuale di cui all'art. 81 c.p.c., la censura che il ricorrente ritiene di avere utilmente svolto si limitava genericamente a dolersi della condanna alle spese a favore di una parte contumace, cancellatasi dal registro delle imprese (lo Studio amministrativo Catania s.n.c.), ma nulla assumeva in ordine alla questione della propria legittimazione ad intervenire in un giudizio di opposizione afferente altre parti, carenze che avevano indotto il giudice di primo grado a ritenere inammissibile l'intervento. In sostanza, il ricorrente non solo non ha dedotto, nell'atto di appello, di avere, al contrario di quanto affermato dal giudice di primo grado, offerto elementi idonei a fondare il proprio diritto ad intervenire in giudizio, ma non ha neanche offerto la relativa prova nel giudizio di appello; difatti, chiosa al riguardo il giudice di appello che l'interveniente si è limitato «a dare per scontate circostanze e errori giuridici che nulla hanno a che vedere con la motivazione del primo giudice» mentre «avrebbe dovuto argomentare una censura volta ad incrinare la ragione di rigetto della sua domanda di intervento in un giudizio di opposizione afferente diritti di altre parti e con riferimento ad una materia del contendere che lo vedeva del tutto estraneo e non legittimato».

La decisione del giudice di appello di reiezione del motivo di gravame risulta quindi immune dalla proposta censura.

2. Con il secondo motivo ["Violazione dell'art. 360, n. 4, c.p.c. Contraddittorietà manifesta. Nullità della sentenza"] il ricorrente lamenta che la sentenza sarebbe altresì nulla per la mancata indicazione dei criteri seguiti per la liquidazione delle spese; in particolare, deduce di aver analiticamente indicato l'importo delle somme spettanti alla controparte e che la Corte, viceversa, ha contraddittoriamente motivato di non aver potuto esaminare i documenti di causa in quanto non vi sarebbe stata impugnazione da parte di tutte le parti e che sarebbe stato onere dell'appellante produrre la documentazione in oggetto.

3. Il motivo è anch'esso manifestamente infondato.

Il ricorrente ripropone la doglianza formulata nel grado di appello (cfr. pagg. 3 e 4 della motivazione della sentenza impugnata, sub B) e già ritenuta infondata dalla Corte territoriale con adeguata motivazione. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che l'appellante non avesse assolto all'onere probatorio di produrre tutti i documenti utili a fondare l'esame della sostanza dei presupposti su cui egli basava il gravame e che si fosse limitato a dolersi dell'errata liquidazione delle spese legali a favore della parte vittoriosa nel giudizio senza dare la possibilità al giudice di appello di controllare in concreto, non solo i criteri di tariffa, ma anche i dati di fatto su cui basare una nuova liquidazione.

Pertanto, la decisione del giudice di appello di reiezione del motivo di gravame non risulta scalfita dalla proposta censura.

4. Sussistono, infine, i presupposti ai fini della condanna ex art. 385, comma 4, c.p.c. norma applicabile ratione temporis al giudizio in esame, introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006, art. 13 (in vigore dal 2 marzo 2006 al 3 luglio 2009, poi successivamente abrogata dalla l. n. 69 del 2009, art. 46, comma 20, con decorrenza dal 4 luglio 2009).

In proposito, questa Corte ha già affermato (Cass. 7 ottobre 2013, n. 22812; Cass. 11 marzo 2014, n. 5599; Cass. 8 marzo 2017, n. 5801) che la previsione continua ad essere applicabile tenuto conto che la l. n. 69 del 2009 (art. 58, comma 1) ha precisato che le nuove norme che modificano il codice di procedura civile, e quindi anche la norma abrogativa, si riferiscono ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore (4 luglio 2009), non alle sentenze (o alle impugnazioni avverso le sentenze) pubblicate dopo tale data (come invece previsto per singole disposizioni dal comma 4 del medesimo art. 58). Pertanto, risultando il giudizio in esame instaurato nell'ottobre 2006 (prima del 4 luglio 2009) e la sentenza impugnata pubblicata in data 8 luglio 2014 (dopo il 2 marzo 2006), si applica la disciplina dettata dal d.lgs. n. 40 del 2006.

Giova evidenziare peraltro che la condanna in esame, a differenza di quella comminabile ai sensi del comma 1 dell'art. 96 c.p.c., non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma tuttavia esige pur sempre, sul piano soggettivo, la malafede o la colpa grave della parte soccombente, la quale ultima sussiste nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda (cfr. in tal senso, da ultimo, Sez. 3, 30 novembre 2017, n. 28657).

Questa Corte ha già più volte ritenuto che costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante "colpa grave", la proposizione di un ricorso per cassazione fondato su motivi manifestamente infondati o inammissibili, o perché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, o perché assolutamente irrilevanti, o assolutamente generici, o perché, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale come rilevato dalla recente sentenza della Corte cost. 26 giugno 2016, n. 152 che ha confermato la tenuta costituzionale della norma processuale (art. 96, comma 3, c.p.c.) in riferimento alle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo così ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti (Sez. 3, 29 settembre 2016, n. 19285; Sez. 3, 21 luglio 2016, n. 15017).

Nel caso in esame, il grado minimo di diligenza deve ritenersi senz'altro violato in quanto vengono reiterate tesi giuridiche già reputate infondate dal giudice di merito, formulando motivi manifestamente infondati o palesemente inammissibili in quanto non consentiti dalla legge e tali da sottoporre questioni di fatto che non possono trovare ingresso in sede di legittimità, per di più trascurando di considerare le ragioni, ampiamente argomentate, che la Corte territoriale ha posto a giustificazione della decisione impugnata e addirittura proponendo censure del tutto avulse dalla logica della decisione impugnata.

Per quel che concerne, infine, il quantum della condanna da irrogare, del tutto discrezionale, con l'unico limite dell'equità che è rappresentato dalla ragionevolezza che può individuarsi assumendo come parametro di riferimento l'importo liquidato per le spese dovute alla parte vittoriosa per il grado di giudizio, si stima equo condannare il ricorrente al pagamento in favore della parte resistente della ulteriore somma di euro 800,00, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza sino al saldo.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla resistente le spese del giudizio di cassazione che si liquidano in complessivi Euro 1.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Condanna il ricorrente a pagare alla parte controricorrente la somma di Euro 800,00, ai sensi dell'art. 385, quarto comma, c.p.c., oltre interessi legali dalla data della pubblicazione della presente sentenza sino al saldo.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

P. Dubolino, F. Costa

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