Corte di cassazione
Sezione VI civile
Ordinanza 24 dicembre 2021, n. 41507

Presidente: Amendola - Relatore: Tatangelo

FATTI DI CAUSA

Fulvia T. ha agito in giudizio nei confronti del Comune di Covo (BG) per ottenere il risarcimento dei danni subiti da un proprio immobile in conseguenza del parziale crollo della copertura del locale campo sportivo. Nel corso del giudizio è stata chiamata in causa la A.I.L.V. s.p.a. (successivamente dichiarata fallita e poi cancellata dal registro delle imprese), appaltatrice di lavori aventi ad oggetto l'impianto sportivo.

La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Bergamo.

La Corte di appello di Brescia, in riforma della decisione di primo grado, l'ha invece accolta, condannando il Comune di Covo a pagare all'attrice l'importo di euro 34.078,94, oltre accessori.

Ricorre il Comune di Covo, sulla base [di] un unico motivo (articolato in due distinti profili).

Resiste con controricorso la T.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati.

È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380-bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato inammissibile e/o manifestamente infondato.

È stata quindi fissata con decreto l'adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l'indicazione della proposta.

L'ente ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'art. 380-bis, comma 2, c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l'unico motivo del ricorso (articolato in due distinti profili) si denunzia «Violazione, falsa e mancata applicazione di norme di diritto ed in particolare dell'art. 2051 c.c. derivante dall'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», nonché «Omesso esame di un "fatto storico" decisivo: la presa di possesso del cantiere da parte del Comune successiva all'evento (doc. 4 fascicolo primo grado Comune di Covo) nonché delle risultanze testimoniali».

Secondo l'ente ricorrente, la cosa che aveva causato il danno, cioè la tettoia della tribuna del campo sportivo, non era nella sua custodia al momento del fatto, in quanto ne era stata appaltata la realizzazione alla società A.I.L.V. s.p.a., al fine di installarvi un impianto fotovoltaico, in base ad una convenzione scritta che prevedeva il trasferimento della relativa proprietà all'ente locale solo al termine dei lavori, dopo il collaudo (pacificamente non ancora intervenuto al momento del fatto) e, comunque, l'onere dell'appaltatrice di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti realizzati.

La corte di appello avrebbe omesso di considerare gli effetti di tale convenzione e, in sostanza, avrebbe addirittura travisato i fatti pacificamente emergenti dall'istruttoria, ritenendo che la copertura della tribuna del campo sportivo fosse preesistente e che l'ente comunale ne avesse, almeno in origine, la custodia.

Il ricorso è in parte infondato ed in parte inammissibile.

2. In primo luogo, non può dirsi sussistente il dedotto travisamento delle prove in ordine alla preesistenza della tettoia di copertura del campo sportivo rispetto alla stipula della convenzione con la A.I.L.V. s.p.a.

La corte di appello si è infatti limitata ad affermare, in proposito, che, nonostante l'appalto in corso di svolgimento, l'intero campo sportivo - con la relativa tribuna, ivi inclusa la tettoia di copertura della stessa - aveva continuato ad essere regolarmente utilizzato per la sua ordinaria funzione pubblica e che, dunque, l'area del cantiere non era stata «enucleata e delimitata e vietata all'utilizzo dei fruitori dello stadio, con conseguente affidamento all'esclusiva custodia all'appaltatore». Ha aggiunto che la copertura della tribuna «non è affatto una struttura distinta dalla tribuna cui è annessa (semmai lo è e lo sarà l'impianto fotovoltaico, seppure anche questo dopo il collaudo risulterà di proprietà del comune)».

Da tali considerazioni - senza alcun travisamento, ma sulla base della dovuta valutazione degli elementi di prova acquisiti - ha tratto la conclusione che il Comune di Covo aveva conservato la custodia dell'intera struttura sportiva, come esistente al momento dei fatti (inclusa quindi la tribuna, con la tettoia realizzata sulla stessa, che ne costituiva un "annesso", indipendentemente dalla sua preesistenza), nonostante la stipulazione della convenzione con la A.I.L.V. s.p.a.

3. Tanto premesso, risulta altresì evidente che la corte di appello non ha affatto omesso di esaminare il fatto storico rappresentato dall'esistenza della convenzione cui fa riferimento l'ente ricorrente, che ha invece tenuto in considerazione al fine di escludere che, nonostante fosse in corso un appalto (derivante da detta convenzione) avente ad oggetto opere da svolgersi sulla tribuna del campo sportivo, il comune avesse perso la custodia della stessa.

Tale convenzione è stata, anzi, addirittura oggetto di interpretazione da parte della corte territoriale (anche se in parte implicita), laddove essa ha affermato (a pag. 4 della sentenza, negli ultimi due capoversi) che, in base alla stessa, solo l'impianto fotovoltaico poteva ritenersi oggetto di un trasferimento di proprietà in favore del comune a seguito del collaudo, in quanto struttura distinta rispetto alla tribuna, al contrario della tettoia, che ne faceva invece parte integrante.

L'interpretazione degli atti negoziali, come è noto, costituisce accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità, se non per l'eventuale violazione delle disposizioni in tema di ermeneutica contrattuale, violazione nella specie in realtà neanche dedotta da parte ricorrente.

D'altronde, come è altrettanto noto, «l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie» (Cass., Sez. un., Sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, Rv. 629831-01; conf., ex multis: Sez. un., Sentenza n. 8054 del 7 aprile 2014, Rv. 629834-01; Sez. 6-3, Sentenza n. 25216 del 27 novembre 2014, Rv. 633425-01; Sez. 3, Sentenza n. 9253 dell'11 aprile 2017, Rv. 643845-01; Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29 ottobre 2018, Rv. 651028-01).

Nella specie, non vi è dubbio che - come si è visto - la corte di appello abbia preso espressamente in considerazione i "fatti storici rilevanti in causa", e cioè l'esistenza della convenzione richiamata dal comune ricorrente, limitandosi per il resto a valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento.

Di conseguenza, le censure di cui al motivo di ricorso in esame finiscono per risolversi, in definitiva, nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle prove, il che non è consentito in sede di legittimità.

4. Le ulteriori censure (e, in particolare, quelle di violazione dell'art. 2051 c.c.) risultano manifestamente infondate.

La Corte ritiene di confermare e ribadire i seguenti principi di diritto, in tema di danni causati da cose oggetto di appalto:

«in caso di danni subiti da terzi nel corso dell'esecuzione di un appalto, bisogna distinguere tra i danni derivanti dall'attività dell'appaltatore e i danni derivanti dalla cosa oggetto dell'appalto; per i primi si applica l'art. 2043 c.c. e ne risponde di regola esclusivamente l'appaltatore (in quanto la sua autonomia impedisce di applicare l'art. 2049 c.c. al committente), salvo il caso in cui il danneggiato provi una concreta ingerenza del committente nell'attività stessa e/o la violazione di specifici obblighi di vigilanza e controllo; per i secondi (e cioè per i danni direttamente derivanti dalla cosa oggetto dell'appalto, anche se determinati dalle modifiche e dagli interventi su di essa posti in essere dall'appaltatore) risponde (anche) il committente ai sensi dell'art. 2051 c.c., in quanto l'appalto e l'autonomia dell'appaltatore non escludono la permanenza della qualità di custode della cosa da parte del committente; in tale ultimo caso, il committente, per essere esonerato dalla sua responsabilità nei confronti del terzo danneggiato, non può limitarsi a provare la stipulazione dell'appalto, ma deve fornire la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c. e, quindi, dimostrare che il danno si è verificato esclusivamente a causa del fatto dell'appaltatore, quale fatto del terzo che egli non poteva prevedere e/o impedire (e fatto salvo il suo diritto di agire eventualmente in manleva contro l'appaltatore)» (principi testualmente enunciati in Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23442 del 28 settembre 2018, non massimata; a tali principi risulta, nella sostanza, conforme la successiva Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7553 del 17 marzo 2021, Rv. 660915-01, per quanto sembra qui opportuno ribadire, a puri fini di completezza espositiva, la necessità di distinguere, in ogni caso, tra danni derivanti dalla cosa oggetto dell'appalto e danni derivanti dall'attività dell'appaltatore di esecuzione dell'appalto, essendo insuperabile il dato normativo emergente dalla disposizione di cui all'art. 2051 c.c., la quale, per sua espressa definizione, non riguarda i danni causati da una condotta umana, ma esclusivamente quelli causati direttamente da cose; cfr., altresì, ancor più di recente: Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 16609 dell'11 giugno 2021 e Sez. 6-3, Ordinanza n. 31601 del 4 novembre 2021, Rv. 662646-01, anch'esse di fatto adesive ai principi di diritto sopra enunciati).

La decisione impugnata risulta conforme a tali principi (e, comunque, per quanto possa occorrere, la relativa motivazione va corretta ovvero integrata in conformità agli stessi).

Il danno di cui è stato chiesto il risarcimento risulta, infatti, certamente cagionato direttamente dalla cosa oggetto dell'appalto (cioè la tribuna del campo sportivo), come modificata dall'attività dell'appaltatore (con la realizzazione della tettoia di copertura), non dall'attività dell'appaltatore stesso.

Di conseguenza, per i relativi danni, l'ente committente deve ritenersi rispondere ai sensi dell'art. 2051 c.c. e, per essere esonerato da tale responsabilità, non avrebbe potuto semplicemente limitarsi ad allegare e provare l'avvenuta stipulazione dell'appalto, dovendo invece fornire la prova liberatoria del fortuito richiesta dall'art. 2051 c.c., anche se eventualmente coincidente con l'attività dell'appaltatore, quale fatto del terzo costituente causa esclusiva del danno che il custode non poteva prevedere e impedire.

In altri termini, l'ente ricorrente avrebbe dovuto dimostrare «di avere scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di avere esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull'attività dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno possa ritenersi causato da una condotta dell'appaltatore non prevedibile e/o evitabile» (così, ancora espressamente, la richiamata Cass. 23442/2018, in motivazione), ciò che, certamente, nella specie non è avvenuto.

5. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte:

- rigetta il ricorso;

- condanna l'ente ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, liquidandole in complessivi euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, per il versamento, da parte dell'ente ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P. Dubolino, F. Costa

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