Le ragioni della Corte costituzionale (*)

Alessandro Pace (**)

Da più parti, e non solo dal centro-destra, si muovono alla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l'incostituzionalità del c.d. lodo Alfano due rilievi critici: il primo, di aver rinnegato ciò che nella sentenza n. 24 del 2004 aveva affermato, e cioè che l'«assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono» alle alte cariche dello Stato costituirebbe «un interesse apprezzabile»; il secondo, di non aver esplicitato, in quella decisione, che il c.d. lodo Schifani violava l'art. 138 oltre agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Il primo rilievo è inesatto, perché se è vero che tali parole figurano nel paragrafo 4 della sentenza, è anche vero che esse vanno lette alla luce della frase conclusiva dello stesso paragrafo, che suona così: «Occorre ora accertare e valutare come la norma incida sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti».

Una frase, quest'ultima, che rende chiaro, al lettore attento, come l'effettiva rilevanza costituzionale di quell'interesse costituisse, per la Corte, non la conclusione di un iter argomentativo, ma un problema (ancora) da valutare alla luce dei principi costituzionali. Ciò che la Corte ha poi fatto nei paragrafi 6, 7 e 8 evidenziando il contrasto della legge Schifani con il «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali».

Il secondo rilievo è altrettanto inesatto. È vero che in quella sentenza non si parla dell'art. 138, ma il riferimento a questa norma, per quanto implicito, è trasparente (almeno per un costituzionalista). Non si può infatti sostenere, nel contempo: a) che la Costituzione sia superiore alle leggi ordinarie; b) che essa sia posta allo stesso livello delle leggi ordinarie che possono modificarla.

Ne segue che, nel momento stesso in cui la Corte ha annullato il lodo Schifani alla luce degli articoli 3 e 24 della Costituzione, essa - nel riaffermare la superiorità della nostra Carta fondamentale (che è un «prius logico» di tutte le sentenze della Corte costituzionale dichiarative dell'incostituzionalità di una legge) - ha altresì certificato anche l'insufficienza formale della legge ordinaria come strumento normativo idoneo a modificare le disposizioni costituzionali alla luce delle quali la legge è stata annullata.

Pertanto, qualora, nonostante la sentenza n. 24 del 2004, il Governo e il Parlamento avessero voluto - come è appunto avvenuto - riprodurre, pur con taluni (insufficienti) ritocchi, la norma derogatoria del principio costituzionale d'eguaglianza già dichiarata incostituzionale, avrebbero dovuto seguire la procedura dell'art. 138, essendo già stata accertata l'insufficienza della procedura ordinaria.

In conclusione, è bensì vero che la sentenza non forniva, in positivo, questa indicazione (la Corte non era tenuta a farlo); ma è altrettanto vero che, dato il contenuto decisorio della sentenza, non c'era, per il legislatore, altra via da tentare.

Dico "tentare", perché è assai assai discutibile che una legge ad personam, come le leggi Schifani e Alfano volute nell'interesse di un solo soggetto, potrebbe superare il vaglio del sindacato di costituzionalità non solo con riferimento all'art. 3 della Costituzione ma anche (e soprattutto) all'art. 1 comma 2, secondo il quale «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Da cui chiaramente deriva a fortiori che nel nostro ordinamento costituzionale non esistono "sovrani" o "unti del signore" che si pongano al di sopra dei cittadini.

Note

(*) Articolo pubblicato su "La Repubblica" del 10 ottobre 2009.

(**) Professore ordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza" di Roma.

Data di pubblicazione: 13 ottobre 2009.

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