Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 19 gennaio 2010, n. 698

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L'Agenzia delle entrate propone due motivi di ricorso per cassazione contro la sentenza n. 304/2005 del Giudice di pace di Patti, notificata il 19 settembre 2005, che ha condannato la ricorrente a pagare a G.M. la somma di Euro 705,40 oltre interessi, in risarcimento dei danni da essa arrecati all'attore tramite un avviso di accertamento, con richiesta di pagamento di Euro 779,85, in relazione ai redditi dichiarati nel 1996. A seguito di ricorso dell'interessato, la pretesa tributaria è stata ritenuta illegittima ed è stata annullata, ed il G. ha chiesto il rimborso delle spese sostenute per difendersi e per il danno esistenziale.

L'intimato non ha depositato difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l'Agenzia delle entrate denuncia violazione dell'art. 156 c.p.c., comma 3 e art. 166 c.p.c. e ss.; d.lgs. n. 546 del 1992, art. 10, sul rilievo che il Giudice di pace ha emesso la condanna a carico dell'ufficio locale dell'agenzia delle entrate, cioè dell'ufficio di Patti, mentre unico legittimato a resistere è l'Agenzia centrale, con sede in Roma, essendo gli uffici locali autorizzati a partecipare solo ai processi davanti alle Commissioni tributarie (l. n. 546 del 1992, art. 10, cit.).

Il fatto che l'Agenzia si sia costituita in giudizio, tramite l'Avvocatura distrettuale, non ha l'effetto di un intervento volontario, né produce efficacia sanante.

In ogni caso, la sentenza sarebbe nulla perché emessa nei confronti di un soggetto privo di legittimazione processuale.

1.1. Il motivo non è fondato.

La ricorrente fa riferimento all'orientamento giurisprudenziale, anteriore all'istituzione delle Agenzie delle entrate, che attribuiva agli uffici periferici dell'amministrazione finanziaria la legittimazione ad intervenire nei soli giudizi promossi davanti alle commissioni tributarie, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11. Si riteneva che, in mancanza di speciale disciplina, riprendesse vigore la regola generale, che attribuiva l'esclusiva legittimazione al Ministero delle Finanze (r.d. n. 1611 del 1933, art. 11).

Tale interpretazione è stata modificata alla luce del nuovo sistema introdotto dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, divenuto operativo a decorrere dal 1° gennaio 2001 (d.m. 28 dicembre 2000), per effetto del quale le funzioni statali concernenti i tributi erariali sono state attribuite all'Agenzia delle entrate, quale soggetto dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, rappresentato dal direttore (d.lgs. n. 300 del 1999, artt. 61 e 66, cit.).

Agli uffici periferici dell'Agenzia è stata attribuita la stessa capacità di stare in giudizio che, in base al d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, spettava agli uffici finanziari che avevano emesso l'atto, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c.

Tali uffici si configurano quali organi dell'Agenzia che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza ai sensi dell'art. 163 c.p.c., comma 2, n. 2, e degli artt. 144 e 145 c.p.c. (Cass. civ., Sez. III, 9 aprile 2009, n. 8703, che richiama i principi enunciati da Cass. civ., S.U., 14 febbraio 2006, n. 3116, in motivazione). La ricostruzione del rapporto tra l'Agenzia e l'ufficio periferico in termini di procura institoria, con conseguente imputabilità all'ente pubblico preponente dell'attività posta in essere dall'ufficio locale preposto, impone di riconoscere a quest'ultimo la legittimazione processuale attiva e passiva, concorrente con quella dell'ente, anche nel processo innanzi al giudice ordinario, in relazione ai rapporti sorti dagli atti compiuti dall'ufficio periferico.

Correttamente quindi l'ufficio di Patti dell'Agenzia è stato evocato davanti al giudice di pace per il risarcimento di danni provocati dall'atto impositivo illegittimo, da esso stesso posto in essere.

2. Con il secondo motivo, deducendo violazione dell'art. 2043 c.c., la ricorrente censura la decisione impugnata, nella parte in cui ha ritenuto violato il divieto del neminem laedere, per avere l'ufficio finanziario colpevolmente ritardato l'annullamento in autotutela dell'atto impositivo illegittimo. Ciò comporterebbe violazione di principio informatore del diritto, per difetto dell'ingiustizia del danno, in quanto l'annullamento in autotutela della P.A. non costituisce obbligo dell'amministrazione; né è configurabile colpa dell'amministrazione, non essendo previsto dalla legge alcun termine per procedervi.

2.2. Il motivo non è fondato.

Va premesso che esso può essere esaminato solo entro i limiti in cui denuncia la violazione di principi informatori dell'ordinamento giuridico, trattandosi del ricorso contro una sentenza emessa dal Giudice di pace secondo equità.

Non viene in considerazione, quindi, il problema di stabilire se nella fattispecie sussistesse o meno una colpa sufficientemente grave, in relazione al tempo trascorso prima dell'annullamento dell'atto, o ad altro comportamento dell'ufficio finanziario: circostanze tutte che costituiscono oggetto di valutazioni in fatto, rimesse alla discrezionalità del giudice di merito.

Si tratta invece di stabilire se, in linea di principio, la P.A. possa essere tenuta responsabile ai sensi dell'art. 2043 c.c. per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell'esercizio del potere di autotutela, ove tale comportamento abbia arrecato danno al privato, o se ciò costituisca violazione di principi fondamentali dell'ordinamento.

Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sul punto, con riferimento ad un caso simile a quello di specie, ed ha affermato che può essere riconosciuto il risarcimento del danno sopportato da un soggetto per ottenere l'annullamento di un provvedimento amministrativo in sede di autotutela (danno consistente nelle spese legali sostenute per proporre ricorso contro l'atto illegittimo), non essendo esclusa la qualificazione di tali spese come danno risarcibile, per il solo fatto che esse si riferiscono ad un procedimento amministrativo (Cass. civ., Sez. I, 23 luglio 2004, n. 13801).

Nel caso in esame l'ingiustizia del danno è messa in questione sotto un diverso profilo, cioè nel senso che si dovrebbe ritenere sottratto al giudice ordinario il potere di valutare tempi e modalità di esercizio del potere di autotutela.

La soluzione, tuttavia, non può essere diversa, in quanto il danno di cui si chiede il risarcimento in realtà deriva dal compimento dell'atto illegittimo, essendo l'intervento in autotutela solo il mezzo che avrebbe potuto eliminarne tempestivamente gli effetti.

Ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile.

Non si tratta, quindi, dell'indebita interferenza della giurisdizione sulle modalità di esercizio del potere amministrativo, ma dell'accertamento che il danno conseguente all'atto illegittimo ha esplicato tutti i suoi effetti, per non essere la P.A. tempestivamente intervenuta ad evitarli, con i mezzi che la legge le attribuisce.

3. Il ricorso deve essere rigettato.

4. Non essendosi costituito l'intimato non vi è luogo a pronuncia sulle spese.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso.

P. Valensise e al. (curr.)

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