Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 8 novembre 2010, n. 22678

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Bari con sentenza del 24 maggio 2005, in riforma della decisione del 7 luglio 2002 del Tribunale di Trani, ha condannato i coniugi A.N. e C.G.V. a rimborsare al Comune di [omissis] la somma di Euro 14.743,81, oltre accessori da detta amministrazione versata alla comunità [omissis] quale retta per l'ospitalità prestata dall'[omissis] all'[omissis] alla figlia minore adottata A.M., in esecuzione di un provvedimento emesso ai sensi degli artt. 333 e 336 c.c., dal Tribunale per i minorenni di Bari. Ha osservato: a) che l'appello era stato legittimamente proposto dal segretario comunale, cui il sindaco aveva attribuito la qualifica di dirigente di ufficio dirigenziale generale prevista dall'art. 64 dello Statuto; b) che il concetto di beneficenza pubblica non è necessariamente collegato a quello di gratuità implicando anche l'erogazione di servizi a pagamento e la possibilità dell'ente di rivalersi delle spese sostenute nei confronti dei soggetti indicati dall'art. 433 c.c.; c) che il relativo obbligo trovava conferma nell'art. 11 del Regolamento comunale che per l'ipotesi di affidamento dei minori presso strutture socio-assistenziali prevedeva l'obbligo dell'amministrazione comunale di provvedere al pagamento delle rette soltanto nell'ipotesi, qui non ricorrente, che detti congiunti non fossero in grado di versarle.

L'A. e la C. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, illustrati da memoria; cui resiste il Comune di [omissis] con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il secondo motivo del ricorso, dall'evidente carattere pregiudiziale, i coniugi A., deducendo violazione della l. n. 142 del 1990 e l. n. 267 del 2000, censurano la sentenza impugnata per aver dichiarato ammissibile l'appello del Comune con la rappresentanza del segretario comunale, senza considerare che la normativa che attribuisce a quest'ultimo la rappresentanza processuale del Comune non è applicabile a quelli con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, nei quali non è prevista la nomina di direttori generali: infatti non esistenti nell'organico del Comune di [omissis] avente solo 7.000 abitanti, che può essere rappresentato soltanto dal sindaco.

La censura è infondata.

I ricorrenti hanno ricordato le sole disposizioni dei primi due commi dell'art. 108 T.U. enti locali, approvato con d.P.R. n. 267 del 2000, trascurando quelle successive, le quali dispongono "Nei Comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti è consentito procedere alla nomina del direttore generale previa stipula di convenzione tra Comuni le cui popolazioni assommate raggiungano i 15.000 abitanti. In tal caso il direttore generale dovrà provvedere anche alla gestione coordinata o unitaria dei servizi tra i Comuni interessati". "Quando non risultino stipulate le convenzioni previste dal comma 3 e in ogni altro caso in cui il direttore generale non sia stato nominato, le relative funzioni possono essere conferite dal sindaco o dal presidente della provincia al segretario".

Proprio quest'ultima fattispecie ha trovato applicazione nel caso concreto, avendo la sentenza impugnata accertato che il Sindaco del Comune di [omissis] con provvedimento 17 luglio 2002 n. 9, peraltro in conformità alla previsione dell'art. 64 dello statuto, ha conferito al segretario comunale le funzioni suddette ed in particolare quella di rappresentarlo in giudizio; per cui pur continuando la legittimazione a promuovere giudizi in rappresentanza dell'ente Comune a competere in via primaria al sindaco, la stessa è stata correttamente esercitata dal segretario generale nella sua qualità di dirigente di ufficio dirigenziale generale, sia perché la relativa potestà gli è stata attribuita dal sindaco in ottemperanza alla menzionata disposizione dell'art. 108, u.c. del T.U., sia perché la norma regolamentare prevede espressamente che in mancanza del direttore generale la competenza in questione debba venire necessariamente conferita al segretario generale (Cass. 2878/2003).

Con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione del d.P.R. n. 616 del 1977, art. 23, nonché vizi di motivazione censurano la sentenza impugnata per non aver considerato che il Tribunale per i minorenni aveva disposto il ricovero della minore presso la comunità [omissis] ponendo il relativo onere a carico del Comune, con la conseguenza: a) che a seguito della sospensione della potestà genitoriale rimaneva sospeso anche il dovere di provvedere al mantenimento della figlia; b) che, d'altra parte, nulla lasciava presumere che il provvedimento di detto Tribunale avesse carattere temporaneo e lasciasse impregiudicato il diritto di rivalsa del Comune nei confronti dei genitori, peraltro privati della potestà nei confronti della minore.

Con il terzo motivo, deducendo violazione del Regolamento comunale sui criteri per l'erogazione dei servizi di natura economica, censurano la sentenza impugnata per aver fondato il diritto suddetto sul menzionato regolamento senza avvedersi che lo stesso si riferiva esclusivamente alle persone che versano in stato di bisogno e che non abbiano congiunti in grado di provvedere ad esse; e che d'altra parte il provvedimento del giudice minorile aveva vagliato le condizioni della minore e della famiglia ponendo la retta a carico del Comune di [omissis]: senza che a detta autorità amministrativa fosse consentito alcun sindacato in merito alla scelta dell'autorità giudiziaria.

Con l'ultimo motivo deducono violazione anche della l. n. 1580 del 1931, per aver accolto l'azione di rivalsa del Comune senza considerare che l'ente non aveva seguito neppure il procedimento stabilito da quest'ultima normativa; e che non si trattava di recupero di spese di spedalità, bensì di collocazione presso una struttura avente finalità socio-assistenziali.

Le censure sono infondate.

La sentenza impugnata ha accertato, ed i ricorrenti confermato, che questi ultimi avevano proceduto all'adozione ex l. n. 183 del 1984, della minore A.M.; e che successivamente il Tribunale per i minorenni di Napoli dopo aver constatato una serie di aggressioni di quest'ultima nei confronti dei genitori, ne dispose il collocamento presso la comunità [omissis] con l'onere della retta a carico del Comune di [omissis]. I coniugi A. hanno aggiunto nel ricorso che con provvedimento dell'[omissis] successivo ai fatti di causa, che si riferiscono invece all'anno [omissis], l'adozione dell'A. veniva revocata per indegnità dell'adottata.

Ora è noto che dal fatto della procreazione sorge in modo necessario un complesso di diritti e di doveri reciproci fra genitore e figlio fra cui appare qui fondamentale il dovere dei genitori sancito dal combinato disposto dell'art. 30 Cost., artt. 147, 148 e 155 c.c., di mantenere ed educare i figli. E che, d'altra parte, la l. n. 184 del 1983, art. 27, dispone che "per effetto dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti", per cui l'art. 48, comma 2, impone all'adottante l'obbligo di mantenere, istruire ed educare l'adottato, conformemente a quanto prescritto dall'art. 147 c.c.: perciò equiparando anche sotto questo profilo i suoi doveri a quelli del genitore naturale e correlandoli esclusivamente allo status di genitore adottivo.

È egualmente pacifico che l'obbligo di mantenimento dei genitori - tanto naturali quanto adottivi - verso i figli, di contenuto più ampio e comprensivo di quello alimentare, si sostanzia tanto nell'assistenza economica, quanto nell'assistenza morale di costoro (Cass. 6197/2005; 3974/2002); e non cessa per il raggiungimento della maggiore età da parte di essi, ovvero per altra causa, ma perdura - anche indipendentemente dalla loro età - fino a quando i figli non vengono avviati ad una professione, ad un'arte o ad un mestiere confacente alla loro inclinazione e preparazione e rispondente, per quanto possibile, alla condizione sociale della famiglia.

Pertanto, come hanno rilevato la più qualificata dottrina e la giurisprudenza di questa Corte anche più lontana nel tempo (Cass. 38/1976), l'obbligo del mantenimento posto dalla menzionata normativa prescinde dalla potestà dei genitori e sopravvive ad essa in varie ipotesi, come dimostra quella appena evidenziata del figlio che abbia raggiunto la maggiore età; ovvero proprio le fattispecie di impedimento o di decadenza del genitore naturale o adottivo dalla potestà suddetta genitoriale (artt. 330 e 260 c.c.): in conformità del resto alla più moderna concezione dell'istituto che si concreta nell'attribuzione a quest'ultimo (o ad entrambi i genitori) non di un diritto soggettivo, bensì di un munus (di diritto privato) comportante un potere, nella sua più limitata accezione di potere-dovere, di curare determinati interessi privati e pubblici del minore. Sicché ove detto ufficio non venga di fatto esercitato, ovvero venga sospeso o addirittura revocato ex artt. 330 e 333 c.c., la reazione dell'ordinamento è soltanto quella, ponendo rimedio all'anomalia, di apprestare le opportune misure onde consentirne il regolare funzionamento; o, per converso, di limitare oppure escludere del tutto i poteri di rappresentanza nonché di amministrazione che lo stesso comporta.

Il che trova conferma proprio nella menzionata l. n. 184 del 1983, posto che l'art. 5 apporta una deroga all'obbligo del mantenimento da parte dei genitori nel solo caso di affidamento familiare, ponendolo a carico dell'affidatario; e che l'art. 50, per converso, nell'ipotesi di cessazione della potestà da parte dell'adottante o degli adottanti, non dispone affatto il contestuale venir meno del loro obbligo di provvedere al mantenimento dei figli adottivi, che continua ad essere regolato dal combinato disposto del precedente art. 48 e dell'art. 147 c.c., ma devolve al Tribunale per i minorenni il potere "di emettere i provvedimenti opportuni circa la cura della persona dell'adottato, la sua rappresentanza e l'amministrazione dei suoi beni, anche se ritiene conveniente che l'esercizio della potestà sia ripreso dai genitori"; e dispone che in tal caso si applichino le disposizioni dell'art. 330-bis c.c.

Nel caso concreto si è verificata quest'ultima fattispecie, in quanto la giovane A.M. è stata allontanata dal nucleo familiare dei genitori adottivi (di cui è stata disposta la sospensione della potestà) e collocata presso una casa famiglia ai sensi della l. n. 184 del 1983, art. 2, per effetto del ricordato provvedimento del Tribunale per i minorenni di Bari, adottato in conformità al disposto dell'art. 333 c.c., e segg. Per cui, l'obbligo di provvedere al suo mantenimento, nel caso consistente nel pagamento della relativa retta, ha continuato a gravare sui genitori adottivi, essendo collegato esclusivamente al perdurare di tale status e non alla permanenza della minore presso il nucleo familiare dei genitori ovvero alle vicende della potestà genitoriale di questi ultimi.

Questa disciplina non può poi ritenersi modificata per il fatto che il provvedimento suddetto ha posto la retta in questione a carico del Comune di [omissis], avendo con esso l'autorità giudiziaria inteso disporne esclusivamente l'anticipazione da parte di detta amministrazione quale prevista dal r.d.l. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, conv. nella l. n. 835 del 1935, e succ. modif. dove sono indicate le misure applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere.

Fra di esse rientra l'affidamento del minore al servizio sociale minorile, come pure l'ipotesi di cui al successivo art. 26, u.c., in base al quale questa misura "può altresì essere disposta quando il minore si trovi nella condizione prevista dall'art. 333 c.c.": nella quale "il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l'allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta abusa del minore", adottando provvedimenti qualificati, nel comma 2, come revocabili in qualsiasi momento.

E per entrambe le fattispecie l'art. 25, u.c., stabilisce che: "le spese di affidamento o di ricovero, da anticiparsi dall'erario, sono a carico dei genitori": restando così definitivamente confermato che il provvedimento del [omissis] non avrebbe comunque potuto modificare, né ha inteso modificare, come del resto appare ovvio, i profili patrimoniali del rapporto di filiazione.

Neppure tale modifica può essere ricavata, come ritenuto per ultimo dalla sentenza impugnata, "dal compito di assistenza che grava sui Comuni": ed in particolar modo dal d.P.R. n. 616 del 1977, artt. 23 e 25, che hanno trasferito alle Regioni la materia della assistenza e beneficenza pubblica, comprendente ex art. 38 Cost., anche l'assistenza sociale attribuendo ai Comuni tutte le funzioni amministrative contemplate da dette norme, fra le quali hanno compreso "gli interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell'ambito della competenza amministrativa e civile" (Corte Cost. 287/1987; 174/1981), in quanto il legislatore del 1977, in ottemperanza ai precetti contenuti negli artt. 117 e 118 Cost., nonché alla legge-delega n. 382 del 1975 ha inteso trasferire alle regioni ed agli enti locali funzioni attinenti alla beneficenza ed assistenza pubblica secondo una ridefinizione della materia, contestuale al trasferimento, e cioè "tutte le funzioni relative ad attività e interventi socio-assistenziali, sia attraverso la creazione di infrastrutture che attraverso l'erogazione diretta o indiretta di prestazioni anche a carattere continuativo e previste in via generale dalla legge per determinate categorie di assistibili, nell'ambito della progressiva realizzazione di un sistema di sicurezza sociale". Sicché a seguito di detto trasferimento i Comuni sono tenuti soltanto ad esercitare "tutte le funzioni amministrative relative all'organizzazione ed alla erogazione dei servizi di assistenza e di beneficenza".

La legge statale non ha inciso, invece, sulle condizioni e sui titoli necessari per la erogazione dei servizi e la individuazione dei destinatari, rimessi alla legislazione regionale: come conferma nella materia in esame la l. n. 184 del 1983, art. 2, comma 5, per il quale "Le regioni, nell'ambito delle proprie competenze e sulla base di criteri stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli standard minimi dei servizi e dell'assistenza che devono essere forniti dalle comunità di tipo familiare e dagli istituti e verificano periodicamente il rispetto dei medesimi". Né ha inteso rendere la materia "beneficenza pubblica" gratuita, mantenendo anzi espressamente la distinzione tra "erogazione di servizi, gratuiti o a pagamento" (art. 22): così come del resto avveniva nel regime preesistente (cfr. l. n. 6972 del 1890, art. 78, e segg.) ove esemplificativamente la l. n. 1580 del 1931, art. 1 (in vigore anche dopo l'emanazione della l. n. 833 del 1978) regolava la rivalsa delle spese di ricovero sostenute dai Comuni in favore di coloro "che non si trovino in condizioni di povertà"; ed è stato ritenuto da questa Corte applicabile anche all'ipotesi di servizi socio-assistenziali resi a domanda, con anticipazione degli oneri da parte del Comune e con il diritto dell'Ente di agire direttamente nei riguardi del ricoverato o, in via di rivalsa, nei riguardi di coloro che sarebbero stati obbligati alla prestazione alimentare (ex artt. 433 e 437 c.c.) durante il periodo della degenza (Cass. 3629/2004; 4460/2003; 4837/2000; 481/1998).

È d'altra parte significativo che la l. n. 184, art. 1, comma 2, abbia predisposto interventi di sostegno e di aiuto solo a favore delle famiglie indigenti e che il successivo art. 22 dispone che il Tribunale per i minorenni prima di decidere sulla domanda di adozione debba eseguire le opportune indagini per accertare tra l'altro anche la situazione economica dei richiedenti.

In ottemperanza a questa normativa, il Comune di [omissis], come accertato dalla sentenza impugnata ha stabilito nel proprio Regolamento relativo ai servizi sociali, approvato con Delib. consiliare 13 febbraio 1997, n. 9, per l'ipotesi di "affidamento dei minori presso strutture socio-assistenziali" (art. 11) che l'amministrazione debba provvedere al pagamento delle rette solo nel caso in cui "i parenti tenuti agli alimenti non siano in grado di contribuire totalmente o parzialmente al pagamento delle rette di mantenimento presso le strutture residenziali". Sicché, non avendo i ricorrenti impugnato detto regolamento presso il giudice competente, e neppure prospettato di versare in una delle situazioni indicate dalla menzionata disposizione, anche al lume di detto provvedimento che non li includeva tra i soggetti esonerati dal pagamento della retta in questione, correttamente la sentenza impugnata li ha dichiarati obbligati ai rimborso di questa, anticipata dal Comune per il collocamento della figlia adottiva presso la casa famiglia [omissis] e relativa al periodo in cui l'adozione non era stata revocata.

Le spese del giudizio gravano su questi ultimi e si liquidano in favore del Comune di [omissis] come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore del Comune di [omissis] in complessivi Euro 1.700,00 di cui Euro 1.500,00 per onorario di difesa, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

P. Valensise e al. (curr.)

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