Corte di cassazione
Sezione IV penale
Sentenza 27 marzo 2014, n. 22257

RITENUTO IN FATTO

1. Il Gip del Tribunale di Monza, con sentenza del 27 ottobre 2011, dichiarati D.F. Michelangelo, F. Gianluca, G. Fabrizio e T. Salvatore colpevoli di aver violato, in più occasioni, l'art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, riconosciute a tutti gli imputati le attenuanti generiche, valutate equivalenti alla contestata recidiva, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione ed effettuata la riduzione del rito abbreviato, condannò il D.F. alla pena di un anno e sei mesi di reclusione ed Euro 9.000,00 di multa, quale aumento in continuazione sulla pena inflitta con sentenza del Gip di Monza il 16 settembre 2010, rideterminando la complessiva pena in sei anni e sei mesi di reclusione ed Euro 39.000,00 di multa; il F. alla pena di un anno e sei mesi di reclusione ed Euro 9.000,00 di multa, quale aumento in continuazione sulla pena inflitta con sentenza dell'8 luglio 2010, rideterminando la complessiva pena in sei anni e sei mesi di reclusione ed Euro 29.000,00 di multa; il G. alla pena di due anni di reclusione ed Euro 15.000,00 di multa quale aumento in continuazione sulla pena inflitta con sentenza del Gip di Monza l'8 luglio 2010, rideterminando la complessiva pena in sei anni e sette mesi di reclusione ed Euro 33.000,00 di multa; il T. alla pena di otto anni di reclusione ed Euro 35.000,00 di multa.

1.1. La Corte d'appello di Milano, investita dall'impugnazione degli imputati, con sentenza del 9 ottobre 2012, confermata la sentenza di primo grado nei confronti del G., in parziale riforma della stessa rideterminò la pena nei confronti del F. in un anno di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa; quella nei confronti del D.F. in un anno di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa; quella nei confronti del T. in sei anni di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa.

1.2. Per quel che rileva in questa sede risulta utile, riprendendo in estrema sintesi la descrizione fornita dalla Corte territoriale, ricordare che il procedimento aveva preso le mosse dall'attività d'indagine svolta dai CC di Sesto San Giovanni, volta a fronteggiare una rilevante rete di spaccio di stupefacenti operante in loco. Le predette indagini, che si erano avvalse di intercettazioni e attività di osservazione e controllo e che avevano portato al sequestro di armi e sostanze stupefacenti, avevano consentito d'individuare gli odierni ricorrenti, ai quali si era addebitato, fra l'altro, l'uso di un box, utilizzato per nascondere le armi e lo stupefacente.

2. Tutti gli imputati, con distinti atti, propongono ricorso per cassazione.

3. D.F. Michelangelo, denunziando vizio motivazionale e violazione di legge, assume che la sentenza gravata aveva erroneamente tenuto conto della recidiva, nonostante che tutti i fatti fossero stati posti in continuazione con quelli oggetto della sentenza patteggiata del 16 settembre 2010, che, al contrario, aveva escluso l'applicazione della pur contestata recidiva. Da ciò conseguiva che «poiché la disciplina del reato continuato ha la sua ratio nel far ritenere più fatti reato riconducibili ad un unico progetto criminoso, così da costituire sostanzialmente un unico fatto reato commesso in tempi diversi, è evidente che la recidiva esclusa per il reato più grave già assunto come pena base per il calcolo degli aumenti in continuazione per gli ulteriori delitti, non possa poi ritenersi sussistente (appunto) per gli altri episodi ad esso collegati ex art. 81 cpv. c.p.».

4. F. Gianluca con l'unica censura esposta, lamentando violazione di legge, si duole del trattamento penale, giudicato eccessivamente severo, trattandosi di soggetto incensurato e privo di pendenze giudiziarie in materia di stupefacenti, essendo stato disposto un aumento per continuazione di un anno e sei mesi sulla precedente pena patteggiata, per retribuire solo due episodi di «scarsissima rilevanza».

5. G. Fabrizio si duole negli stessi termini del F., censurando l'aumento di due anni di reclusione e 15.000 euro di multa sulla precedente pena patteggiata, considerato che «i capi di imputazione contestati (...) sono di modestissima entità» e che il ricorrente, doveva considerarsi oramai fuori «da ogni giro delinquenziale», positivamente intento a scontare la pena in affidamento terapeutico.

6. T. Salvatore con l'unitario, articolato motivo, denunziante violazione di legge e vizio motivazionale, contesta il vaglio probatorio operato dai giudici di merito.

Vengono investiti da specifica critica le imputazioni di cui ai capi 16), 19), 20) e 21) (detenzione delle sostanze stupefacenti, armi e munizioni rinvenute all'interno di un box, in occasione dell'arresto flagrante del G. e del F.).

Si era ingiustamente addebitata la detenzione anche al ricorrente attraverso un'ingiustificata congettura tratta da una telefonata nella quale il G. chiede al T. se costui sapesse dove fossero le chiavi del predetto locale, dimenticando che, anche ad ammettere che il T. fosse a conoscenza dell'uso del garage, ciò non lo faceva partecipe dei delitti contestatigli, ma mero connivente non punibile. Conferma del detto ragionamento il ricorrente rinviene nel contenuto di una conversazione intercorsa tra il G. ed il F., dalla quale si trae che quanto custodito nel box era di esclusiva spettanza dei medesimi, i quali si mostravano preoccupati di non far insospettire il proprietario del locale in parola.

Reputa, poi, il ricorrente che la Corte di merito non avesse fatta corretta applicazione delle regole sulla valutazione della prova e, comunque, avesse esposto motivazione in questa sede censurabile, a riguardo dell'episodio di cessione di stupefacenti a tale A. Nessun acquisto era avvenuto e «non esisteva alcun elemento per affermare un coinvolgimento del T. in "affari pregressi" in concorso con il cognato e in favore dell'A.». Con motivazione di «mero stile», così come «per gli altri capi di incolpazione», la Corte meneghina aveva tratto il proprio convincimento colpevolista dall'assunto che il T. risultava essere stato informato dal G. dell'insorgere di alcune difficoltà. In definitiva, la statuizione, muovendo da indizi che non resistevano ad obiezioni attendibili e convincenti, aveva affermato la penale responsabilità dell'imputato violando la regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio.

7. In limine, la Corte, accolta istanza avanzata dall'avvocato Francesco Guarino, difensore degli imputati G. e F., non potuto comparire a cagione di assoluto impedimento derivante da motivi di salute, ha disposto, separati gli atti, procedersi nei soli confronti di T. e D.F.

CONSIDERATO IN DIRITTO

8. Occorre anticipare che, nonostante l'infondatezza delle critiche mosse dal T. all'accertamento della di lui penale responsabilità ed assorbita quella mossa dal D.F. in ordine al trattamento penale, dell'impugnata sentenza devesi, comunque, disporre annullamento per le ragioni di cui appresso.

La contestazione del vaglio probatorio mossa dal T. deve essere rigettata in quanto volta ad ottenere riesame nel merito della decisione, coerentemente motivata.

Con la formula, introdotta con l'art. 5 della l. n. 46 del 2006, ad integrazione dell'art. 533, c.p.p., dopo essersi chiarito che così non si era varato un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova, quanto piuttosto proceduto a dare valore normativo alla consolidata affermazione giurisprudenziale secondo la quale la condanna è possibile solo in presenza di certezza processuale della penale responsabilità dell'imputato (Cass., Sez. I, n. 20371 dell'11 maggio 2006, Rv. 234111), si è con maggiore puntualità, precisato che il dato probatorio acquisito deve essere tale da lasciar fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del ben che minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass., I, n. 31456 del 21 maggio 2008, Rv. 240763). Sicché, in caso di prospettazione di un'alternativa ricostruzione dei fatti, occorre che siano individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Cass., IV, n. 30862 del 17 giugno 2011, Rv. 250903). Con la conseguenza dell'apparire del tutto conseguente l'ulteriore approdo di legittimità (Cass., I, n. 41110 del 24 ottobre 2011, Rv. 251507) che ha sintetizzato il principio nella cogenza di un metodo dialettico di verifica dell'ipotesi accusatoria secondo il criterio del "dubbio", con la conseguenza che il giudicante deve effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (l'autocontraddittorietà o l'incapacità esplicativa) o esterni (l'esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica).

In ordine, poi, al percorso motivazionale in questa sede non sarebbe consentito sostituire la motivazione del giudice di merito, pur anche ove il proposto ragionamento alternativo apparisse di una qualche plausibilità.

Sull'argomento può richiamarsi, fra le tante, la seguente massima, tratta dalla sentenza n. 15556 del 12 febbraio 2008 di questa Sezione, particolarmente chiara nel delineare i confini del giudizio di legittimità sulla motivazione: il nuovo testo dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., come modificato dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il "novum" normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto travisamento della prova, finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere a un'inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della decisione.

L'evidenza probatoria e il vaglio effettuato dalla Corte territoriale, alla luce di quanto sopra chiarito, univocamente indirizzano per l'infondatezza delle critiche sotto entrambi i profili evidenziati.

9. Esclusa violazione di legge di sorta (l'evocazione dell'art. 192, c.p.p., si presenta aspecifica, mero richiamo delle regole sulla valutazione della prova, che non trova concreta e puntuale censura, che non si risolva, in definitiva, nella critica del percorso motivazionale), proprio avuto riguardo al perimetro decisionale di legittimità sopra chiarito, le doglianze esposte sono tutte dirette ad ottenere "altra" decisione, ovviamente più favorevole, contrapposta al vaglio del giudice di merito legittimamente svolto.

a) Al contrario dell'asserto impugnatorio la Corte territoriale mostra di aver correttamente addebitato anche al T. la disponibilità del box adibito a nascondiglio delle armi e dello stupefacente, valorizzando il contenuto dei dialoghi intercettati, dai quali si trae il comune consapevole uso illecito del locale, del quale, all'evidenza, aveva avuto e, in quel frangente, avrebbe potuto avere le chiavi (cfr. in ispecie pag. 4).

b) Quanto all'episodio di cessione di stupefacente all'A. il ragionamento motivazionale risulta del pari logico ed esaustivo, nonché convincentemente sorretto dalle risultanze delle captazioni telefoniche e dei servizi di osservazione e pedinamento.

10. Non di meno, la caducazione degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272, siccome convertito nella l. n. 49 del 21 giugno 2006, che avevano sostituito l'art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 32 dell'11-12 febbraio 2014 (depositata il 25 febbraio 2014 e pubblicata sulla G.U. del 5 marzo 2014, n. 11, 1a Serie Speciale) impone il riesame del trattamento sanzionatorio.

Attraverso le disposizioni normative colpite dal giudizio d'incostituzionalità il legislatore, come noto, aveva proceduto ad equiparare le sostanze stupefacenti, prima distinte in cd. "leggere" e "pesanti", definendo un trattamento sanzionatorio unitario (reclusione da sei a venti anni e multa da 26.000 a 260.000 euro) nei confronti dei soggetti che avevano agito essendo privi dell'autorizzazione di cui all'art. 17 dello stesso corpo normativo.

Il regime in precedenza in vigore riservava, invece, trattamenti sanzionatori ben differenziati, a seconda la qualità della sostanza fatta oggetto dell'illecito mercato (reclusione da otto a venti anni e multa da cinquanta a cinquecento milioni di lire; reclusione da due a sei anni e multa da dieci a centocinquanta milioni di lire).

La riscrittura operata con la novella oggi dichiarata incostituzionale ha fatto sì che non fosse più ritenuto rilevante specificare nei capi d'incolpazione, prima, in quelli d'imputazione, poi, e nelle sentenze, infine, la natura delle sostanze stupefacenti in relazione alle quali erano mosse le contestazioni.

Ove risulti operato un tale indistinto richiamo si pone, quindi, l'esigenza di sottoporre al giudice del merito l'assetto normativo sopravvenuto, ove più favorevole, perché, ferma ed intangibile la scelta (adeguatamente motivando) di mantenere il trattamento penale così come disposto, ove compatibile con il nuovo range sanzionatorio, tenga conto, dell'art. 2, comma 4, c.p.

L'esigenza di fare applicazione della lex mitior in conseguenza di pronunce caducatorie del Giudice delle leggi è già stata presa in considerazione nel passato da questa Corte, senza che fosse stato ritenuto d'ostacolo la definitività della pronuncia (a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 61, n. 11-bis, c.p., introdotto dalla l. 24 luglio 2008, n. 125, il giudice dell'esecuzione è stato chiamato a rideterminare la pena applicata con la sentenza di patteggiamento in conseguenza dell'effetto abolitivo prodotto dalla citata pronuncia, laddove l'ipotesi circostanziale sia stata considerata dal giudice di merito nella determinazione del trattamento sanzionatorio, da Cass., Sez. I, n. 26899 del 25 maggio 2012, Rv. 253084).

In sede di legittimità, si è più volte chiarito (Cass., Sez. V, n. 345 del 13 novembre 2002, Rv. 224220; Sez. I, n. 1711 del 14 aprile 1994, Rv. 197464) in siffatti casi che il rispetto del principio di legalità della pena (comb. disp. art. 2, comma 4, c.p. e 129, comma 2, c.p.p.) impone annullamento d'ufficio della statuizione di merito. Salvo a registrarsi contrasto sull'idoneità del ricorso inammissibile a dar vita ad un tale esercizio officioso (in senso contrario: Sez. II, n. 44667 dell'8 luglio 2013, Rv. 257612; Sez. V, n. 36293 del 9 luglio 2004, Rv. 230636; nel senso dell'ininfluenza: Sez. VI, n. 21982 del 16 maggio 2013).

11. Siccome condivisamente illustrato in profondità nella sentenza di questa stessa Sezione n. 13903/14 del 28 febbraio 2014, il principio di retroattività della norma più favorevole si fonda sulla legge ordinaria (art. 2, comma 4, c.p.) e, giudicata non pertinente l'evocazione degli artt. 13 e 25, Cost., sull'art. 3 Cost. Con la conseguenza che «Il livello di rilevanza dell'interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior - quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario - impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo (quali - a titolo esemplificativo - quelli dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del 2004; n. 10 del 1997, n. 353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993). Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (C. cost. sent. n. 393/2006; per la giurisprudenza di legittimità, Sez. 3, n. 34117 del 27 aprile 2006 - dep. 12 ottobre 2006, Alberini e altro, Rv. 235051).

La Corte costituzionale con la sentenza n. 236 del 19 luglio 2011, dopo aver ripreso le norme sovranazionali rilevanti in materia, ha escluso che l'art. 7 CEDU imponga una maggior tutela della retroattività della lex mitior, anzi rilevando che nella CEDU si rinviene il limite del giudicato, valicabile, invece, secondo lo stato dell'elaborazione interna, oltre a segnare un'incidenza, per estensione di materia, inferiore all'area delineata dall'art. 2, comma 4, c.p.

12. Ciò premesso, reputa il Collegio che ove si riscontri necessario, come nel caso di specie, a riguardo di entrambi gli imputati, che, per almeno una frazione (restando irrilevante qualsivoglia giudizio che neghi l'opera ricostruttiva facendo perno sullo scarso rilievo quantitativo, in presenza di in un compito obbligato d'individuazione della disposizione sanzionatoria comunque più favorevole, a sèguito dell'opera demolitoria della Corte costituzionale) della risposta sanzionatoria-rieducativa, costituita dalla pena in concreto inflitta, tener conto della lex mitior, non resta che disporre l'annullamento sul punto della decisione, non ostandovi nessuna delle superiori esigenze individuate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393, sopra citata.

Ciò non implica, come ad un approccio non adeguatamente approfondito si potrebbe pensare, che il giudice del rinvio sia obbligato a ridurre la pena, così da dar vita, sempre e comunque, ad un concreto beneficio per l'imputato. Quel che, invece, s'impone è la rivalutazione sul punto della decisione, all'esito della quale, fermo restando, ovviamente il divieto di qualsivoglia riforma peggiorativa, esplicitati gli argomenti a sostegno del caso, la determinazione può anche restare immutata.

In definitiva, quel che va escluso è che resti fuori dai parametri del giudizio il criterio normativo meno afflittivo ex post emerso.

In questa direzione devesi registrare la recente sentenza n. 15187/14 del 1° aprile 2014 di questa Sezione, la quale ha affermato che l'intervenuta reviviscenza, a sèguito della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale, del trattamento sanzionatorio più favorevole per l'illecita detenzione delle cd. "droghe leggere" impone la riponderazione dei presupposti applicativi delle misure cautelari personali in atto, atteso che la cornice edittale di riferimento incide sulla scelta della misura oltre che sulla sua stessa applicabilità, stante la necessaria valutazione in ordine alla prognosi di sospendibilità della pena.

Peraltro, andando più nello specifico, anche in un passato meno prossimo (Cass., Sez. I, n. 2095/08 del 19 febbraio 2007, Rv. 238857) si è affermato che la disciplina della continuazione attiene a un istituto di diritto sostanziale e, come tale, soggiace, in caso di sopravvenienza di disposizioni diverse, alle regole di cui all'art. 2 c.p. e non a quelle del diritto processuale, espresse nella formula "tempus regit actum", a nulla rilevando che la sua applicazione avvenga in sede esecutiva (conf. anche a n. 12475 del 2007, Buratti, non massimata). Fino a giungere, proprio in materia, alla sentenza n. 9874 del 5 febbraio 2009, Rv. 243237 della VI Sez. di questa Corte, la quale ha precisato che in tema di stupefacenti, il giudice di appello, nel rideterminare la pena inflitta in primo grado per il reato continuato di detenzione contestuale di sostanze stupefacenti "pesanti" e "leggere" - a seguito della soppressione della distinzione tabellare operata dalla l. n. 49 del 2006 - non deve necessariamente ridurre la pena, potendola ritenere equamente commisurata rispetto al caso concreto, avuto riguardo alla personalità dell'imputato e alla gravità del fatto (sulla quale incide necessariamente il tipo di sostanza oggetto del medesimo). Decisione, questa, che sottende il condiviso ragionamento, sopra anticipato, secondo il quale non può essere elusa, quale che ne sia il risultato, la necessità di riponderare il punto concernente la determinazione della pena, nello specifico, avuto riguardo all'aumento per la continuazione.

Non ignora il Collegio l'emersione di un contrario orientamento (Sez. IV, n. 22824 del 21 aprile 2006, Rv. 234575 e proprio in relazione alle ricadute della sentenza della Corte costituzionale n. 32 cit., la recente decisione della VI Sez. del 14 marzo 2014 nel processo Alessandrini Vincenzo + 16), il quale, fa leva (almeno per la sentenza più vecchia, della quale è nota la motivazione) sulla circostanza che nel reato continuato, ai fini del computo della pena, non assume concreta rilevanza la pena stabilita per i reati-satellite, essendo l'aumento di pena per questi determinato solo in relazione alla pena del reato più grave e sulla base di una valutazione di equità, che tiene conto della gravità del reato secondo i parametri di cui all'art. 133 c.p. e che non necessita di apposita motivazione.

L'orientamento sopra richiamato e non condiviso dal Collegio, in verità, sconta il pedaggio genetico di aver posto a fondamento del ragionamento la sentenza n. 4901 del 27 marzo 1992, Rv. 191129, con la quale le S.U. intesero prendere posizione in merito alla dibattuta questione, che aveva dato luogo ad interpretazioni quanto mai diversificate, del computo della pena nel reato continuato che annoveri la presenza di reati "satellite" puniti con pena qualitativamente diversa rispetto a quella del reato base. Questione con quella pronuncia risolta attingendo alla «considerazione, che a queste sezioni unite appare decisiva, che, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati satelliti non esplichi più alcuna efficacia proprio per la ragione che, individuata la violazione più grave, essi vanno a comporre una sostanziale unità, disciplinata e sanzionata diversamente mediante le regole dettate all'uopo dal legislatore. L'avere questi contemplato tale possibilità, con le conseguenti previsioni punitive, fa perdere notevole consistenza alla pretesa violazione del principio di legalità, dovendosi ogni norma incriminatrice leggere, per quanto riguarda l'aspetto punitivo, come se essa contenesse un'eccezione derogativa della sanzione per il caso che la violazione contemplata vada a comporre un reato continuato».

Trattasi, in definitiva, di considerazioni che, avendo altro scopo rispetto a quello qui al vaglio, valorizzano il criterio normativo speciale di computo enunciato nell'art. 81, cpv, c.p., per affermare che una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati "satellite" non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più grave, senza che rilevi la "qualità" della pena prevista per predetti reati accessori.

Qui il fulcro del ragionamento, invece, investe territorio logico-argomentativo affatto diverso, occorrendo chiedersi (e al quesito il Collegio assegna risposta affermativa) se il vaglio in concreto del disvalore penale del fatto, al quale non può dirsi estraneo il trattamento penale edittale riservato dalla legge, finalizzato a quantificare l'aumento a titolo di continuazione, debba tener conto del mutato e più favorevole giudizio di rimproverabilità, scaturito da legge successiva o, come nella fattispecie in esame, dalla riviviscenza di norma più favorevole, quale conseguenza del giudizio caducatorio della Corte costituzionale.

13. Poiché come è dato cogliere dai capi d'imputazione, almeno per taluni degli addebiti posti in continuazione non risulta specificato se la sostanza stupefacente di cui si tratta appartenga alla categoria di quelle cd. "leggere" o "pesanti", spetterà al giudice del rinvio, a cui gli atti vanno rimessi, effettuate le verifiche e gli approfondimenti istruttori del caso (restando inteso che, nel persistere del dubbio debba reputare l'ipotesi meno grave), ripreso a nuovo vaglio il pertinente capo, valutati tutti gli elementi di cui all'art. 133, c.p., riconsiderare l'entità della pena da porre in aumento a titolo di continuazione.

Come già anticipato le affermazioni di penale responsabilità devono intendersi irrevocabili.

P.Q.M.

Disposta la separazione dei procedimenti con nuova fissazione dei ricorsi relativi a G. e F. così decide:

annulla le disposizioni della sentenza impugnata relative ai ricorrenti T. e D.F. limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio alla Corte di Appello di Milano per nuovo esame sul punto.

Depositata il 29 maggio 2014.