Profili d'incostituzionalità
della sospensione cautelare
dei pubblici dipendenti

Mario Pavone (*)

La legge 27 marzo 2001, n. 97, che ha di recente disciplinato il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e gli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, è apparsa subito come del tutto afflittiva del diritto alla difesa costituzionalmente protetto ed in aperto contrasto con una pur minimale tutela dei diritti dei dipendenti della pubblica amministrazione sottoposti a procedimento penale.

Già in passato analoghe disposizioni introdotte dal legislatore erano state ritenute profondamente viziate d'incostituzionalità e come tali cancellate dall'ordinamento dalla Corte costituzionale.

Il T.U. degli impiegati civili dello Stato introdusse all'art. 85, lettera A), l'automatica destituzione del dipendente in conseguenza della condanna penale definitiva per specifici reati senza che vi fosse per la P.A. la possibilità di valutare il caso concreto anche sotto il profilo disciplinare e tanto meno in contraddittorio con il pubblico dipendente.

A tale principio era correlato il potere della P.A. di sospendere in via facoltativa (art. 91), a fronte di gravi motivi, o in via obbligatoria (art. 92), per reati particolarmente gravi, il pubblico dipendente.

Il principio d'automaticità della destituzione "di diritto" del pubblico dipendente in forza dell'art. 85, comma 1 lett. A del d.P.R. n. 3/1957 (T.U. degli impiegati civili dello Stato) venne successivamente dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 971 del 14 ottobre 1988 siccome in contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 97 della Costituzione.

La successiva legge n. 19 del 7 febbraio 1990, cercando di colmare il vuoto normativo derivante dalla declaratoria d'incostituzionalità delle norme previgenti, stabili, all'art. 9, che il pubblico dipendente non poteva essere destituito di diritto a seguito di condanna penale; che la destituzione poteva avvenire solo a seguito di rituale procedimento disciplinare ed infine che la sospensione cautelare dal servizio non poteva avere durata superiore a cinque anni.

Il nuovo limite temporale di durata massima della sospensione cautelare sostituì quindi la precedente disciplina sancita degli artt. 91 e 92 del T.U. n. 3/1957 che, al contrario, non sancivano alcun limite temporale.

Inoltre la previsione normativa della destituibilità del pubblico dipendente a seguito di procedimento disciplinare valeva ad evitare ogni automatismo legato al giudicato penale di condanna dello stesso pubblico dipendente.

Una analoga disciplina sanzionatoria venne parallelamente introdotta per i componenti delle assemblee elettive regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, che si fossero resi responsabili dei reati di associazione mafiosa, traffico di stupefacenti e reati contro la P.A., con la legge 19 marzo 1990, n. 55 che stabiliva la sospensione dell'eletto e la successiva decadenza a seguito di condanna penale irrevocabile.

Lo stesso e più drastico trattamento venne esteso dal legislatore con la successiva legge 18 gennaio 1992, n. 16 ai funzionari resisi responsabili di gravi delitti quali quello d'associazione mafiosa o d'associazione per delinquere.

Limitatamente a tali casi, oltre alla sospensione obbligatoria, venne disposta la decadenza di diritto del pubblico dipendente a seguito del giudicato penale di condanna per tali delitti di particolare rilievo.

Pur tuttavia la Corte costituzionale, con la sentenza n. 197 del 27 aprile 1993, dichiarava l'incostituzionalità della destituibilità del pubblico dipendente a seguito di condanna penale irrevocabile in mancanza di procedimento disciplinare.

In conseguenza, con il successivo art. 59 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 venne demandata ai contratti collettivi la definizione delle infrazioni e delle relative sanzioni mentre la con la legge 13 dicembre 1999, n. 475 il legislatore ribadì il principio della necessità della condanna definitiva per l'operatività della sospensione immediata del pubblico dipendente riducendo i casi di sospensione per condanna definitiva in relazione ai reati comportanti abuso d'ufficio.

Con il contratto dei pubblici dipendenti, emanato con provvedimento P.C.M. 3 marzo 1995, al capo IV vennero quindi disciplinati i casi di sospensione cautelare a seguito di procedimento disciplinare (art. 26) e di procedimento penale (art. 27) in tutte le fattispecie contemplate dall'art. 25.

Infine con il nuovo T.U. degli impiegati civili dello Stato, introdotto con d.lgs 30 marzo 2001, n. 165, l'art. 55, comma 3 (sanzioni disciplinari e responsabilità) ha introdotto un espresso rinvio al C.C.N.L. per la individuazione della tipologia delle infrazioni e relative sanzioni da applicare nei confronti del pubblico dipendente e comunque "previa tempestiva contestazione scritta dell'addebito al dipendente, sentito a sua difesa con l'assistenza di un procuratore o rappresentante sindacale".

La giurisprudenza interpretativa delle norme citate aveva sempre definito la sospensione cautelare come "istituto i cui effetti permangono fino a quando non intervenga l'accertamento demandato al procedimento penale" (Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 15 novembre 1999, n. 12631) stabilendo il diritto del pubblico dipendente alla "restitutio in integrum" per il periodo di sospensione cautelare sofferta nel caso di sentenza assolutoria (Consiglio di Stato 20 novembre 2000, n. 6181).

In ogni caso era stato sempre sancito, anche di recente, come incombesse alla P.A. l'obbligo di motivazione del provvedimento di sospensione adottato anche in relazione a motivi di urgenza (Consiglio di Stato 29 novembre 2000, n. 6349).

In tale quadro di riferimento interveniva la legge 27 marzo 2001, n. 97 diretta a disciplinare in maniera unitaria e definitiva la materia.

Il legislatore introduceva ex-novo all'art. 3 il principio del "trasferimento" del pubblico dipendente a seguito di rinvio a giudizio per i delitti contro la Pubblica Amministrazione: contemplati dallo stesso articolo.

A tale principio veniva correlato il potere dell'amministrazione di collocare il dipendente in posizione di aspettativa o di disponibilità nel caso in cui non sia possibile il trasferimento d'ufficio.

L'art. 4 della stessa legge, inoltre, ripristinava la misura della sospensione cautelare del pubblico dipendente di durata illimitata nel caso di condanna anche non definitiva per i reati elencati dall'art. 3 anche in presenza di sospensione condizionale della pena.

Il secondo comma della norma sanciva tuttavia l'inefficacia della sospensione nel caso di intervenuta sentenza di assoluzione o di proscioglimento, anche se non definitiva, e comunque nel caso del decorso di un periodo di tempo pari a quello della prescrizione del reato.

L'estinzione del rapporto di impiego a seguito di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni veniva disciplinata dall'art. 5 che introduceva una nuova pena accessoria come effetto del giudicato penale di condanna con l'art. 32-quinques del Codice Penale.

La stessa norma, al quarto comma, prevedeva la possibilità di estinzione del rapporto a seguito di rituale procedimento disciplinare in conseguenza della condanna definitiva del pubblico dipendente per i medesimi delitti contro la P.A. ancorché in presenza di pena sospesa benché tale procedimento sia fortemente pregiudicato dalla attribuzione di efficacia alla sentenza irrevocabile ai sensi dell'art. 1-bis.

Veramente singolare è apparsa la norma dell'art. 8 della legge che privava i pubblici dipendenti della autonomia contrattuale in materia benché stabilita in precedenza dallo stesso legislatore.

Infine va pure sottolineata l'introduzione del principio della applicabilità della legge anche ai procedimenti civili, penali, amministrativi e disciplinari pendenti alla data di entrata in vigore della stessa ai sensi dell'art. 10 in aperto contrasto con il più generale principio della irretroattività normativa specie con riferimento alla delicata materia in esame.

Se tale erano le innovazioni apportate dal legislatore, una lettura più approfondita delle norme introdotte suscitava da subito numerose perplessità sia dottrinali sia giurisprudenziali.

La dottrina, infatti (v. Bosco, Prime riflessioni sulla nuova disciplina legislativa del procedimento disciplinare a carico del pubblico dipendente indagato o condannato in sede penale, in Giust.it), non mancava di sottolineare come "l'interrogativo più rilevante suscitato dalla approvazione della nuova disciplina è costituito dalla reintroduzione di una forma di estinzione automatica del rapporto di lavoro quale mera conseguenza accessoria della condanna penale irrevocabile" atteso che "risulta in tal modo precluso qualsiasi intervento integrativo sul punto da parte della contrattazione collettiva in palese contraddizione con l'indirizzo dettato dall'art. 59 d.lgs. n. 29/1993".

Altri commentatori ponevano in risalto il contrasto delle nuove disposizioni con l'art. 27, secondo comma della Costituzione, la violazione del diritto alla difesa sancito dall'art. 24 e del diritto al lavoro sancito dagli artt. 35 e 36 della Costituzione oltre alla violazione dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi sancito dall'art. 3 della l.n. 241/1990 (v. Guerini e De Rosa, Profili di incostituzionalità dell'art. 4 della Legge 27.03.2001 n. 97, in Camera penale di Bologna).

Alcuni autori infatti evidenziavano il rischio insito nell'art. 4 della legge di emettere un provvedimento di sospensione che costituiva una forma atipica ancorché illegittima di sanzione sulla base di una semplice probabilità di colpevolezza del pubblico dipendente in realtà ancora tutta da dimostrare e che si risolveva in una presunzione assoluta d colpevolezza in danno del dipendente totalmente contraria ai principi ispiratori del nostro ordinamento giuridico e della Costituzione.

La norma è apparsa - agli autori citati - ancora più affittiva nel caso di sospensione del dipendente senza la instaurazione tra il dipendente e l'Ente di appartenenza di un contraddittorio sulle circostanze che hanno determinato la condanna penale e senza che vi sia mai stata una raccolta ed una compiuta disamina delle prove esistenti a carico del medesimo sotto il profilo della loro rilevanza disciplinare.

Invero, dal tenore letterale della norma dell'art. 4 della legge 97/2001 la P.A. sembrerebbe autorizzata a non instaurare alcun contraddittorio con il dipendente, a non raccogliere prove, a non effettuare alcun accertamento prima di sospendere l'impiegato dal servizio a seguito della condanna non definitiva.

La stessa giurisprudenza amministrativa ed ordinaria, posta di fronte alle doglianze sollevate da più parti in relazione alla formulazione della nuova legge, non poteva che rilevarne l'incostituzionalità con varie Ordinanze (v. tra gli altri TAR Bologna, Sezione I, ordinanza n. 548 del 1° luglio 2001; Tribunale Reggio Emilia, sentenza n. 412 del 12 aprile 2000).

In particolare il TAR di Bologna sottolineava nel provvedimento di rimessione come la sospensione prevista dall'art. 4 consegua automaticamente alla condanna non definitiva del dipendente e come il legislatore abbia operato in tal modo una valutazione ex-ante della incompatibilità del mantenimento in servizio di un dipendente condannato in via non definitiva per determinati reati.

In proposito la stessa Corte costituzionale aveva già sancito il contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità in base ai quali dovrebbe essere consentito di valutare discrezionalmente la opportunità di applicare o meno la sospensione cautelare in relazione alla gravità del fatto ed alla personalità del soggetto agente (v. Corte Cost. sentenza n. 239 del 1996).

La illegittimità della applicazione de jure delle misura cautelari era già stata affermata dalla Corte in precedenza con la sentenza n. 40 del 1990, stante il carattere provvisorio del provvedimento, come tale definito cautelare, come enunciato dalle Sezioni Unite della Cassazione sin dal 1962.

L'automatismo della misura cautelare era stato affrontato dalla Corte con la sentenza n. 971/1988, che aveva dichiarato illegittima la destituzione di diritto nell'ambito del pubblico impiego, come pure illegittimo venne dichiarato dalla Corte l'art. 15 della legge 55/1990 con la sentenza n. 197/1993.

In definitiva, la Corte costituzionale aveva sempre affermato in precedenza come l'accertamento della responsabilità penale in sede giurisdizionale non potesse essere accolto in altre sedi acriticamente senza una espressa valutazione in sede disciplinare da parte degli organi preposti e comunque senza alcun automatismo di sorta (v. Iannuccelli, Effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, in Camera penale di Bologna).

A tanto va aggiunto che, prima ancora della emanazione della legge, il Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria, decisione n. 2 del 28 febbraio 2002) aveva sancito che "in caso di omissione del procedimento disciplinare, la condanna penale intervenuta nei confronti dell'impiegato non è suscettibile di tenere ferma la sospensione cautelare dal servizio disposto in corso di procedimento penale e stabilita dall'amministrazione in via discrezionale, non potendosi ammettere una conversione della misura in una sanzione di identico contenuto".

In conseguenza, in base alla decisione citata, "la sospensione dal servizio deve ritenersi caducata, al pari di quella cui sia seguito un procedimento disciplinare estinto e la posizione dell'impiegato deve ritenersi reintegrata, essendo venuto a mancare il titolo che giustificava la quiescenza del rapporto".

Il Consiglio di Stato che "l'apprezzamento discrezionale, rimesso alla P.A. esige una nuova ponderazione in ordine al fatto originariamente preso in considerazione secondo una cognizione incompleta, dato che compete alla stessa la cura del pubblico interesse da perseguire. A questo interesse si accompagna - anche dopo una sentenza di assoluzione o qualsiasi sentenza di condanna nei confronti del pubblico dipendente - quello correlativo ai doversi osservati o meno dall'impiegato, in ufficio o al di fuori, e quello connesso con le esigenze della stessa amministrazione di affidare determinati compiti al dipendente, anche con riguardo alle funzioni assegnate o assegnabili".

Ampiamente giustificate risultavano quindi le censure di costituzionalità sollevate da più parti dalla nuova disciplina della sospensione cautelare.

In conseguenza, la Corte costituzionale, investita della incostituzionalità dell'art. 4 della legge 97/2001, con sentenza del 3 maggio 2002 n. 145 ha ritenuto parzialmente fondata la questione sollevata dal TAR per la Campania ed ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma secondo, della legge nella parte in cui dispone che la sospensione cautelare del pubblico dipendente perde efficacia decorso un periodo pari a quello della prescrizione del reato.

La Corte ha precisato che la durata della sospensione non può eccedere i cinque anni, dovendosi applicare in materia il termine di carattere generale introdotto dalla legge 7 febbraio 1990, n. 19.

La Corte ha rilevato come una misura cautelare, proprio perché tale, deve per sua natura essere contenuta nei limiti di durata strettamente indispensabile per la protezione degli interessi della P.A. in attesa dell'accertamento giudiziale delle responsabilità del dipendente ma non deve tuttavia gravare eccessivamente sui diritti del lavoratore che essa comprime, in ossequio al criterio di proporzionalità della misura cautelare riconducibile all'art. 3 della Costituzione.

La questione è apparsa alla Corte ancora più rilevante ove si consideri che il termine di prescrizione può raggiungere una durata ultradecennale tenuto conto anche degli effetti interattivi della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 160, ultimo comma, del Codice Penale con la conseguenza che tale termine sarebbe del tutto eccessivo comportando un evidente quanto irragionevole compressione dei diritti del singolo.

Numerose altre doglianze sulla costituzionalità della norma dell'art. 10 della nuova legge erano state sollevate dalla stessa Suprema Corte (v. Corte di cassazione, III sezione civile, ordinanza 4/6-27/6/2001) per contrasto con gli art. 3 e 24 della Costituzione "nella parte in cui dispone l'applicabilità degli artt. 1 e 2 della l. 97/2001 ai patteggiamenti perfezionati anteriormente alla nuova legge" stante l'equiparazione operata dal legislatore della sentenza di patteggiamento alla pronuncia di condanna, secondo la regola dettata dall'ultima parte dell'art. 445, comma uno, del codice di procedura penale.

Nella ordinanza di rimessione la Cassazione rilevava che, ai sensi dell'art. 10 della nuova legge, le disposizioni in essa contenute si applicano ai procedimenti penali, ai giudizi civili ed amministrativi ed ai procedimenti disciplinari in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa (5 aprile 2001) ma proprio l'espressa previsione della retroattività della disciplina in esame e la sua applicabilità anche ai patteggiamenti perfezionati anteriormente alla nuova legge suscitava dubbi di costituzionalità nel giudice remittente

La Corte di cassazione, pur aderendo al consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale che considera il divieto di retroattività della legge non elevato a dignità costituzionale, eccettuata la previsione dell'art. 25 della Costituzione limitatamente alla legge penale ha ritenuto, tuttavia, che il legislatore ordinario possa adottare norme con efficacia retroattiva solo a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti.

Accogliendo le argomentazioni poste a base della ordinanza di rimessione, la Corte costituzionale, con sentenza n. 394 del 10-25/7/2002, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma uno della legge 27 marzo 2001, n. 97 nella parte in cui esso prevede che gli artt. 1 e 2 della stessa legge trovano applicazione anche alle sentenze di patteggiamento pronunciate anteriormente alla sua entrata in vigore.

Soffermandosi in particolare sul problema sollevato della irretroattività della normativa introdotta, la Corte osserva la norma transitoria dell'art. 10, in aperto contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, ha radicalmente innovato la disciplina precedente ed ha retroattivamente attribuito al consenso prestato in sede di patteggiamento l'ulteriore significato di una rinunzia alla difesa anche nel successivo procedimento disciplinare con la conseguenza di un'irrimediabile lesione del diritto di difesa del lavoratore.

La norma risulterebbe quindi del tutto illegittima sul piano della applicabilità ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge 97/2001 benché la Corte abbia limitato l'esame sugli effetti dell'art. 10 sui patteggiamenti intervenuti in epoca anteriore.

In linea con quanto enunciato dalla Suprema Corte va invece sottolineato come la norma dell'art. 10, siccome formulata, finirebbe con il trovare applicazione anche per i procedimenti penali in corso non ancora definiti con sentenza irrevocabile determinando così un'effettiva lesione del diritto di difesa da più parti sollevata in quei casi in cui l'accertamento della responsabilità penale non sia divenuto definitivo e sia comunque collegato al successivo procedimento disciplinare.

Risulta del tutto evidente come, in tali casi, sia stata operata una forzatura da parte del legislatore che ha inteso eludere le garanzie costituzionali più elementari ed ignorare del tutto le norme in precedenza introdotte.

In base a tali presupposti la Corte costituzionale non potrà che pervenire alla declaratoria di illegittimità della norma che appare del tutto in contrasto con l'attuale Ordinamento.

È auspicabile, in base alle numerose censure mosse alla legge 97/2001 dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che il legislatore pervenga ad una radicale modifica dell'attuale testo normativo nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali in una materia mai così delicata evitando ogni possibile lesione dei diritti fondamentali dei pubblici dipendenti sottoposti a torto o a ragione a procedimento penale.

Note

(*) Avvocato.

Data di pubblicazione: 30 giugno 2003.