Il sindacato della Corte dei Conti
sui provvedimenti discrezionali emessi dalla P.A.:
verso una maggior tutela del cittadino
Luigi Levita (*)
L'inequivoco dettato dell'articolo 103 della Costituzione, unito ad un susseguirsi di interventi legislativi anche recenti, lascia pochi dubbi in ordine alla considerazione che la Corte dei Conti, quale giudice speciale del nostro ordinamento, sia il giudice "naturale" della responsabilità amministrativa.
La specialità di questo giudice rispetto agli organi di giustizia amministrativa è rinvenibile, innanzitutto ed in maniera più evidente, nella presenza di un organo inquirente, la Procura generale, che esercita l'azione pubblica di responsabilità amministrativa-contabile a tutela di interessi superiori, quali la corretta gestione della cosa pubblica e dei beni di proprietà della Pubblica Amministrazione. Nulla di simile esiste, è agevole notarlo, nell'attuale giudizio amministrativo "classico" il quale, seppure modellatosi ormai in un giudizio cd. "sul rapporto" lontano anni luce dall'antiquato modello impugnatorio, resta pur sempre un giudizio ad iniziativa di parte, e giammai officioso.
L'azione di responsabilità contabile si caratterizza, invece, per essere officiosa, obbligatoria ed autonoma, in quanto immediatamente correlata all'interesse generale al "buon andamento" dell'attività amministrativa di cui alla Carta Fondamentale, ed ha ad oggetto la responsabilità amministrativa in linea generale, genus all'interno del quale la dottrina prevalente, pur ravvisando la diversità di regime giuridico, ricomprende la species della responsabilità contabile, in ragione delle peculiari obbligazioni che incombono sui soggetti sottoposti ad essa (maneggio di beni e denaro della Pubblica Amministrazione).
Natura, elementi costitutivi e disciplina della responsabilità contabile si rinvengono essenzialmente nella legge 20 del 1994 (fatte salve le normative di settore per Regioni ed enti locali) la quale, nel regolamentare la materia, assoggetta a responsabilità tutti i soggetti appartenenti alla Pubblica Amministrazione in senso lato, siano essi organicamente inseriti in essa o siano invece soggetti privati legati da un mero rapporto di servizio con l'amministrazione. Inoltre, seguendo una impostazione estensiva idonea ad assecondare il mutamento dei tempi, che vede una Pubblica Amministrazione costretta a perseguire i suoi molteplici compiti istituzionali con l'ausilio di soggetti esterni, la giurisprudenza contabile è giunta ad affermare la sussistenza di detto nesso anche nel caso di attività occasionale o strumentale rispetto all'organizzazione del servizio pubblico: paradigmatico il caso, ad esempio, del progettista di un'opera pubblica il quale, seppur nell'esecuzione di un contratto privatistico di prestazione d'opera intellettuale, di fatto realizza una funzione "oggettivamente" pubblica; o dell'organizzatore di una fiera o di una mostra, in ragione della funzione di diffusione culturale dei suddetti eventi.
Nessun dubbio sussiste, in aggiunta, sul potere-dovere di assoggettare a responsabilità anche le persone giuridiche, giacché una loro indebita esenzione si risolverebbe, di fatto, in una costante impunità per l'amministrazione: la legge 20/94, tuttavia, all'apprezzabile fine di scongiurare una pericolosa commistione fra la persona giuridica e le singole persone fisiche che la compongono, ha cura di dettare una disciplina peculiare per le deliberazioni degli organi collegiali.
Ovviamente, l'addebito di responsabilità neppure sorge se il funzionario abbia agito nell'espletamento di una funzione totalmente estranea al rapporto di servizio (realizzando la cd. "frattura del nesso"); l'affermazione, in sé scontata, manifesta invece tutta la sua incertezza applicativa in tutti quei casi in cui l'assetto delle competenze non sia ben determinato dalla legge (si pensi al nuovo riparto in materia di assetto del territorio, quale scaturente dalla riforma del titolo V), col rischio per l'agente di vedersi addebitata una omissione a lui ignota.
Elementi essenziali risultano invece l'elemento psicologico dell'agente, il danno cagionato alla Pubblica Amministrazione ed il nesso causale fra l'attività dell'agente ed il pregiudizio sofferto.
Quanto all'elemento psicologico, il precedente orientamento giurisprudenziale che riteneva sufficiente alla configurazione dell'illecito anche la colpa lieve è stato opportunamente superato dal dettato normativo, laddove si stabilisce che l'agente risponda per i soli comportamenti caratterizzati da dolo o colpa grave. La maggior parte della dottrina ha salutato con favore questa restrizione dell'ambito di operatività dell'istituto, facendo leva sul moltiplicarsi dei compiti dei pubblici funzionari e sulla autorevole pronuncia della Corte Costituzionale che, nel confermare la legittimità della scelta legislativa, ha ritenuto che una strutturazione siffatta costituisse il giusto punto di equilibrio fra le aspettative dei consociati ed il grado di esigibilità dell'azione amministrativa. Il rischio paventato, lo si arguisce chiaramente, era quello di addossare al singolo dipendente le disfunzioni e la disorganizzazione dell'apparato amministrativo nel suo complesso, giungendo pertanto ad una forma occulta di responsabilità oggettiva che il nostro ordinamento, almeno tendenzialmente, sembra rifuggire.
Non manca però chi, d'altro canto, sottolinei come questa impostazione possa, all'opposto, condurre ad una sostanziale impunità del soggetto agente, ponendosi quindi in stridente contrasto con i canoni di imparzialità, efficienza e buon andamento scolpiti nella Costituzione e nella normazione primaria (l. 241/90 in primis).
Tutti sono d'accordo, nondimeno, nel ritenere che la delimitazione dei concetti di "dolo" e "colpa grave" si presti a numerose questioni interpretative, in modo particolare per l'arbitrio giurisdizionale connesso al potere di qualificare come "lieve" o "grave" l'addebito mosso all'incolpato, laddove l'atteggiamento doloso non pone particolari problemi esegetici, stante l'operatività dei collaudati meccanismi penalistici.
Anche la nozione, parimenti rilevante, di "danno risarcibile", è stata sottoposta dalla giurisprudenza amministrativa e contabile ad un allargamento dei suoi confini, ragion per cui attualmente nessuno dubita della risarcibilità del danno anche non patrimoniale: ovviamente, questa voce di danno si strutturerà in modalità differenziate rispetto al suo alter ego civilistico (inteso come pretium doloris atto a ristorare la lesione della propria sfera morale), inerendo specificamente al discredito nel quale la Pubblica Amministrazione è incorsa a cagione del danno arrecato dal suo funzionario: la quantificazione del risarcimento, essendo inconfigurabile in termini matematici puri, è quindi lasciata alla discrezionalità equitativa del giudicante, il quale potrà fare ricorso alla disciplina di cui agli articoli 1226 e 1227 del codice civile.
In particolare, le fattispecie sulle quali la giurisprudenza si è trovata a dibattere con maggiore frequenza hanno riguardato, in tempi recenti, il cd. "danno all'immagine" ed il "danno da disservizio". Nella prima ipotesi, il comportamento anche doloso dei pubblici funzionari (es. episodi di corruzione o concussione) fonda l'addebito di responsabilità sulla base della considerazione, pacifica in giurisprudenza, che il reato del pubblico dipendente, oltre a ledere i beni giuridici tutelati dalla norma penale, finisce per menomare il prestigio e la credibilità delle Istituzioni agli occhi dell'opinione pubblica.
Nella seconda ipotesi, invece, viene in rilievo l'imperfetto agire degli esercenti un pubblico servizio i quali, non garantendo le prestazioni connesse allo svolgimento delle loro attività, ingenerano nel comune cittadino la convinzione che la Pubblica Amministrazione presenti delle carenze organizzative croniche, che lo condannano in eterno a non poter fruire delle prestazioni tipiche di uno Stato sociale. Il risarcimento del danno da disservizio, quale forma di ristoro per un prestigio dell'amministrazione in tal modo minato, concorre con gli ordinari rimedi civili e penali, ove configurabili, ed anche con la normativa in tema di sciopero nei servizi pubblici essenziali qualora, come spesso accade, l'esercente il pubblico servizio svolga un'attività di cui alla legge 146/90.
Meno problemi suscita, infine, l'accertamento del nesso di causalità fra l'evento ed il danno, per il quale i giudici contabili, oltre ad applicare l'articolo 1, comma 1-quater, della legge 20/94, fanno costante riferimento al principio penalistico della causalità adeguata, in virtù del quale soltanto i fattori straordinari ed eccezionali escludono l'addebitabilità del fatto lesivo al suo autore materiale. Ragioni di equità sostanziale, peraltro, non esimono il giudice dal tenere in debita considerazione anche e soprattutto il contesto operativo nel quale l'agente si trovava al momento dell'illecito, con tutte le eventuali difficoltà ed incertezze sia normative che fattuali.
Sinteticamente ricostruito il sostrato applicativo della responsabilità amministrativa-contabile, occorre nondimeno chiedersi sino a che punto possa spingersi il sindacato del giudice contabile sugli atti amministrativi. Il principio della separazione dei poteri, immanente nel nostro ordinamento, entra qui in conflitto con l'interesse della collettività, parimenti tutelato in via costituzionale, alla certezza ed alla legalità dell'azione amministrativa, tanto più nei casi in cui il pubblico denaro, lungi dal doversi maneggiare con approssimazione ed inefficienza, costituisca un bene prezioso (per la sua scarsità) da impiegare proficuamente e con raziocinio nella distribuzione delle risorse.
Orbene, è evidente che un primo sbarramento alle aspettative di tutela dei consociati discende dalla separazione fra indirizzo politico ed attività di gestione, quale legislativamente scolpita sin dal d. lgs. 29/1993, in virtù della quale gli atti politici, quali espressione della compagine di Governo democraticamente scelta dal Parlamento per l'esercizio del potere esecutivo, non sono conoscibili dal giudice amministrativo, residuando in capo al cittadino la sola tutela "politica" (concretatesi essenzialmente nel potere di voto).
Meno convincente, all'opposto, la pur maggioritaria opinione dottrinale secondo cui sarebbero sottratti al sindacato giurisdizionale anche gli atti "di alta amministrazione", in quanto diretta esplicazione del programma di Governo ed inidonei ad ingenerare un pregiudizio diretto in capo ai destinatari, necessitando di opportuni provvedimenti applicativi rimessi all'azione dei singoli dirigenti generali.
Accantonati gli atti amministrativi vincolati, per i quali non sembrano sussistere incertezze di sorta, il fulcro della questione risiede invece nella valutazione degli atti discrezionali che la Pubblica Amministrazione può porre in essere, e segnatamente di quegli atti connotati da discrezionalità tecnica, per i quali i confini del sindacato del giudice contabile non sono altrettanto netti; è in questa eventualità, si osserva dai più, che la libertà di cui è istituzionalmente dotata la Pubblica Amministrazione viene a scontrarsi, talora duramente, con le garanzie, assicurate al cittadino dalla legislazione, di controllo dell'operato del pubblico potere.
La giurisprudenza, nei casi sottoposti al suo esame, tende ad effettuare un giudizio prognostico volto ad accertare se, nelle medesime circostanze, il funzionario "medio" avrebbe fatto uso del potere discrezionale giungendo alle stesse conclusioni, in vista del soddisfacimento dei canoni di efficienza, efficacia ed imparzialità. L'indagine è favorita, nei casi di discrezionalità tecnica, dall'utilizzo dello strumento della CTU, quale di recente introdotta in via generale dalla legge 205/2000: difatti, basandosi sull'accertamento di cognizioni e nozioni appartenenti al novero delle scienze non esatte, e dotate intrinsecamente di un grado variabile di opinabilità, il consulente tecnico ritualmente nominato dal collegio ben può ripercorrere i passaggi logici seguiti dall'amministrazione (corroborando il convincimento giudiziale in merito all'addebito di responsabilità contabile) in maniera quasi automatica, dovendo fare riferimento a cognizioni abbastanza univoche (tipiche delle scienze matematiche).
Laddove invece l'attività amministrativa sia connotata da discrezionalità "pura", l'interprete dovrà procedere ad una valutazione ulteriormente approfondita, che tenga in debito conto la ponderazione degli interessi coinvolti, quale attuata ex ante dall'agente chiamato a rispondere del danno contabile. La dizione normativa dell'articolo 1, primo comma, della legge n. 20/1994, che scolpisce l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, non contribuisce a risolvere la questione in maniera definitiva, giacché la distinzione tra discrezionalità e merito non trova uniformità di vedute in dottrina e giurisprudenza. Ciò non toglie, nondimeno, che al giudice contabile sia sempre consentito di sindacare la scelta discrezionale operata dall'amministrazione qualora essa esorbiti i normali canoni di ragionevolezza ed efficienza.
Gli ultimi arresti giurisprudenziali della Suprema Corte, in un'ottica di maggiore garanzia nei confronti del cittadino-contribuente, sembrano meritoriamente ampliare l'ambito del sindacato del giudice contabile, erodendo quella originaria "barriera" del merito che una parte della dottrina aveva edificato per assicurare alla Pubblica Amministrazione una "zona franca" potenzialmente aperta all'arbitrio dei pubblici poteri. La questione è assai delicata perché nell'ambito dell'attività amministrativa, il discrimen tra sindacabilità ed insindacabilità delle opzioni possibili è davvero incerto, dovendosi contemperare due esigenze contrastanti, entrambe meritevoli di tutela, quali la necessità di non condizionare l'attività dei pubblici amministratori e l'esigenza di impedire lo sperpero del denaro pubblico. In particolare è stato precisato che la Corte dei conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico; ma non può estendere il suo sindacato all'articolazione concreta e dettagliata dell'iniziativa intrapresa dal pubblico amministratore, pena il travalicamento dai limiti esterni della sua giurisdizione.