L'incostituzionalità della costituzione di Berlusconi.
Una traccia per poter discutere
su una legge costituzionale assai controversa

Alessandro Pace (*)

1. La legge costituzionale d'iniziativa del governo Berlusconi (Atto Sen. n. 2544, Atto Cam. n. 4862), approvata in seconda lettura il 16 novembre 2005, incide profondamente e incostituzionalmente sulla forma di Stato e di governo prevista dalla vigente Costituzione. In particolare ne modifica le norme relative al ruolo e alle funzioni del Premier, al ruolo e alle funzioni del Presidente della Repubblica, al procedimento legislativo, alla composizione e alle funzioni di Camera e Senato, alle competenze legislative regionali, alla Corte costituzionale e al giudizio di legittimità costituzionale in via diretta e al procedimento di revisione costituzionale.

È quindi evidente che il cittadino italiano, che i prossimi 25 e 26 giugno voterà nel referendum confermativo di tale legge costituzionale, esprimerà un voto libero e consapevole per il «sì» solo a condizione che egli sia convinto della bontà di tutte e sette queste importanti modifiche. Ciò che, ad esempio, non avverrà qualora egli sia favorevole all'ampliamento dei poteri del Premier, ma sia invece perplesso circa la devolution voluta dalla Lega, mentre i leghisti, per poter dire «sì» alla devolution, dovranno giocoforza «trangugiare» anche il premierato assoluto. Il che costituisce una evidente violazione della libertà dell'elettore, il quale - per usare le parole più volte usate dalla Corte costituzionale con riferimento al referendum abrogativo di leggi ordinarie (art. 75 Cost.) (1) - verrà «costretto» ad «esprimere un unico voto» per decidere «una irriducibile pluralità di questioni».

Il che costituisce, com'è noto, la conferma che il procedimento previsto per la revisione costituzionale dall'art. 138 Cost. non consente una modifica costituzionale che possa incidere contemporaneamente su disposizioni tra loro eterogenee.

Non lo consentono infatti né la lettera dell'art. 138 Cost. - che esplicitamente non prevede la possibilità di riforme «totali» (come invece le Costituzioni austriaca, spagnola e svizzera, che però disciplinano, a tal fine, un procedimento diverso e maggiormente aggravato) -, né il suo spirito, che ipotizza solo modifiche o di singole disposizioni o di disposizioni tra loro legate da un vincolo di omogeneità (2), pur sempre con il limite invalicabile della immodificabilità dei principi fondamentali della Costituzione (artt. 1-12) nonché di quelli connessi e discendenti dall'esplicito divieto di modifica della forma repubblicana (art. 139 Cost.) (ovverosia del limite dei principi supremi più volte invocato dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. n. 1146 del 1988).

Ma se questo è vero, è altrettanto vero che chi presenta un disegno di legge costituzionale ha, di perciò stesso, l'onere (rectius: il dovere costituzionale) di proporre solo modifiche puntuali ed omogenee (tali quindi da non pregiudicare la libertà del votante, garantita dagli artt. 1 e 48 Cost.). Non può infatti il proponente della legge di revisione costituzionale dare per scontato che il testo da lui proposto sarà approvato, in seconda deliberazione, con la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera (3). Il che a fortiori avrebbe dovuto impedire l'eterogenea riforma costituzionale del Governo Berlusconi, avendo tale d.d.l. costituzionale incontrato, già dal suo primo apparire, il disfavore di tutti i partiti di opposizione. Era perciò scontato che sarebbe stata richiesta sulla sua approvazione l'indizione del referendum popolare, con tutte le conseguenze sulla doverosa tutela della libertà del voto dei cittadini.

Di qui la prima puntualizzazione: la riforma costituzionale del Governo Berlusconi è costituzionalmente illegittima perché viola l'art. 138 Cost. e perché gravemente pregiudica sia la sovranità popolare (art. 1 Cost.) sia la libertà di voto (art. 48 Cost.) dei votanti che viene sostanzialmente coercita.

2. Passando ora - senza alcuna pretesa di completezza - alla disamina dei punti maggiormente controversi della legge costituzionale approvata nello scorso novembre, deve essere subito sottolineato che essa si pone in contrasto con i più elementari principi del moderno costituzionalismo, che impongono un equilibrio fra i poteri dello Stato (4). La riforma Berlusconi esaspera infatti la primazia del Premier, in misura tale da risultare sconosciuta a tutte le attuali liberaldemocrazie.

Nella legge costituzionale del Governo Berlusconi non è più il Governo, ma il Premier, che determina la politica nazionale (non si limita più a dirigere la politica generale del Governo, come previsto dall'art. 95 della Costituzione del 1947). Conseguentemente egli viene denominato Primo Ministro (e non più Presidente del Consiglio dei Ministri, come è stato sempre designato dal 1848 in poi, con la sola parentesi del fascismo). Inoltre è il Premier che nomina e revoca i ministri, senza che il Presidente della Repubblica possa minimamente interferire. Poiché la candidatura alla carica di Primo Ministro è effettuata mediante collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati all'elezione della Camera dei Deputati, il potere di nomina del Premier, da parte del Presidente della Repubblica, ha ormai una valenza solo formale. Conseguentemente il Primo Ministro non necessita della fiducia né della Camera, né tanto meno del Senato (che, come si vedrà, è stato addirittura collocato fuori del circuito della responsabilità politica). Dopo la nomina (formale) da parte del Capo dello Stato, il Primo Ministro si presenta perciò alla Camera esclusivamente per illustrare il suo programma (5).

Perché sia ben evidente il ruolo assolutamente abnorme che, secondo la riforma Berlusconi, il Primo Ministro svolgerebbe in Italia - per cui si è giustamente parlato, a tal proposito, di «Primo Ministro assoluto» (6) -, va inoltre sottolineato che il Presidente della Repubblica è obbligato a decretare lo scioglimento della Camera tutte le volte che insindacabilmente lo richieda il Primo Ministro, nonché nel caso di sua morte o di suo impedimento permanente (art. 88, comma 1) ovvero nel caso che contro di lui sia stata approvata una mozione di sfiducia.

Il Primo Ministro deve però dimettersi (con conseguente scioglimento della Camera) anche nell'ipotesi che la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. Ciò svela un ulteriore violazione dei principi del parlamentarismo: i deputati verrebbero a distinguersi in parlamentari di serie A - quelli della maggioranza - e in parlamentari di serie B, quelli dell'opposizione, con un evidente pregiudizio per l'eguaglianza dello status di parlamentare.

È bensì vero che l'art. 94, comma 5, prevede la c.d. sfiducia costruttiva (e cioè l'approvazione di una mozione di sfiducia con la designazione di un nuovo Primo Ministro). Tale mozione, per essere efficace, deve però essere approvata dai «deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera», il che potrebbe essere possibile solo se tutta (ma davvero tutta) la maggioranza decidesse di abbandonarlo il Primo Ministro al suo destino.

A questa ipotesi di difficilissima realizzazione si affianca l'altra, non meno difficile, prevista dall'art. 88, comma 2, il quale prevede che, in caso di richiesta di scioglimento della Camera da parte del Primo Ministro, di sua morte, di accertamento del suo impedimento permanente e di sue dimissioni, il Presidente della Repubblica non decreta lo scioglimento della Camera a condizione che, entro il ventesimo giorno successivo, la maggioranza dei componenti della stessa Camera dichiari, in una mozione, di voler continuare l'attuazione del programma del Primo Ministro con un nuovo Premier designato nell'ambito della sua stessa maggioranza.

Il che, se è ben possibile... nel caso di morte o di impedimento del Premier, è praticamente impossibile sia negli altri due casi (dimissioni e sfiducia) (art. 88, comma 1), sia nel caso della mozione costruttiva (art. 94, comma 3), dovendosi ragionevolmente escludere che il Premier eletto non abbia conservato un certo numero di amici nella sua stessa maggioranza, e cioè un numero tale da non consentire il raggiungimento, in favore di altri, della maggioranza assoluta nell'ambito dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni.

3. La legge costituzionale in esame stravolge il ruolo del Presidente della Repubblica. Il quale viene privato del potere sostanziale di nomina del Premier e del potere di scioglimento delle Camere, nonché del potere di autorizzare i disegni di legge di iniziativa del Governo. Né questa deminutio viene compensata, sia pure... ad pompam, con l'eliminazione della controfirma ministeriale (art. 89) sugli atti strettamente presidenziali (7), come invece era stato previsto nel testo originario del d.d.l. cost. n.. 2544 ed inizialmente approvato dal Senato (8).

In pratica, al Capo dello Stato vengono sottratti i più efficaci strumenti perché possa esercitare, insieme con la Corte costituzionale, le sue funzioni di garanzia costituzionale. Tutto sommato, è quindi di secondaria importanza che, in sede elettorale, il Parlamento in seduta comune sia integrato da una più consistente, ancorché non decisiva, rappresentanza degli enti pubblici territoriali; e che per la sua eleggibilità la legge costituzionale prevede il compimento del 40° anno d'età.

Va però menzionata un'eccezione d'un certo rilievo. Al Presidente della Repubblica viene attribuito il potere di nomina del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (che, com'è noto, nella prassi, è l'effettivo presidente dell'organo di autogoverno) «nell'ambito dei componenti eletti dalle Camere». Conseguentemente viene modificato l'originario art. 104, comma 5, Cost. che ne attribuisce l'elezione al Consiglio, pur sempre «fra i componenti designati dal Parlamento».

È di tutta evidenza come tale modifica inciderebbe sull'autonomia del C.S.M.

4. La riforma Berlusconi interviene poi, con effetti sconvolgenti, sul procedimento legislativo. Il quale è stato differenziato e disciplinato in tre sottotipi (9), pur sempre teoricamente bicamerali, ma in effetti uno di tipo formalmente bicamerale ma con prevalenza della Camera (nel senso che, in caso di contrasto col Senato, prevale il volere della Camera); un secondo tipo anch'esso formalmente bicamerale ma con prevalenza del Senato (nel senso che, in caso di contrasto con la Camera, prevale il volere del Senato) e solo un terzo tipo formalmente e sostanzialmente bicamerale (e cioè paritario).

Al procedimento del primo tipo sono sottoposte le materie previste dall'art. 117, comma 2 (con eccezione delle lettere m] e p]), che sono quelle più importanti in assoluto: le norme processuali civili, penali e amministrative, l'ordinamento civile e penale, le disposizioni in materia di pubblica sicurezza e di ordine pubblico, la disciplina attuativa degli stessi diritti costituzionali riconosciuti negli artt. 13-21 Cost., la disciplina degli organi dello Stato nonché l'ordinamento e l'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, la tutela dell'ambiente e della libera concorrenza ecc.

Orbene, se si tiene presente la determinante influenza del Primo Ministro sulla Camera (che in qualsiasi momento egli potrebbe far sciogliere), ne consegue che la stessa disciplina attuativa dei diritti previsti dalla Parte prima della Costituzione verrebbe a dipendere dalla graziosa volontà del Primo Ministro!

Al secondo tipo di procedimento (quello a prevalenza senatoriale) è invece attribuita, non senza notevoli contraddizioni interne a tale attribuzione (10), la competenza a determinare i principi fondamentali nelle materie in cui è prevista la competenza concorrente delle Regioni (11). Direi, anzi, che tale competenza è stata attribuita al Senato in palese... conflitto di interessi, essendo le due Camere del Parlamento, e non il Senato federale (nel quale sono rappresentate le Regioni), l'organo legislativo più indicato per porre dei limiti alla potestà legislativa delle stesse Regioni. Il che però significa altresì che l'organo legislativo più indicato non può nemmeno essere individuato... nella sola Camera dei deputati, alla quale, per volontà del Premier (art. 70, comma 4) (12), potrebbe essere devoluta tale competenza, sottraendola così al Senato.

Al terzo tipo sono sottoposte le leggi in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali (art. 117, comma 2, lett. m]), la legislazione elettorale, la disciplina degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, l'ordinamento della capitale dello Stato (art. 117, comma 2, lett. p], le forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di immigrazione e di polizia, di tutela dei beni culturali e della ricerca scientifica e tecnologica, delle grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale (art. 118, comma 5), l'istituzione di un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119, comma 3), l'istituzione delle Città metropolitane nell'ambito di una Regione (art. 133).

5. La legge costituzionale in esame incide poi tanto sulla composizione della Camera, quanto sulla composizione, sulla natura e sulla legittimazione del Senato.

Quanto alla Camera, i deputati sono ridotti a 518, di cui 18 eletti nella circoscrizione Estero. Ad essi vanno aggiunti i deputati (non più senatori) a vita, e cioè gli ex Presidenti della Repubblica e tre deputati a vita nominati dal Presidente della Repubblica. L'eleggibilità è ridotta al 21° anno d'età.

Quanto al Senato la riforma costituzionale incide sia sulla sua composizione, sia sulla sua natura, sia infine sulla sua stessa legittimazione politica (elettiva). Il numero dei senatori è fisso (252 membri), e varia da un minimo di sei (ma la Valle d'Aosta ne ha uno e il Molise due) ad un massimo imprecisato, ma che viene determinato in proporzione alla popolazione delle varie Regioni quale risulta dall'ultimo censimento (art. 57). Sono eleggibili gli elettori che abbiano compiuto 25 anni e che abbiano ricoperto o ricoprano cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali all'interno della Regione, o siano stati eletti senatori o deputati nella Regione o risiedano nella Regione alla data di indizione della Regione (art. 58). Non viene però specificato da quanto tempo essi debbano risiedere in quella Regione, con la conseguente possibilità di nutriti mutamenti di residenza in prossimità delle elezioni...

Va infine avvertito che rappresentanti delle Regioni e degli enti locali partecipano all'attività del Senato, ancorché senza diritto di voto.

La composizione del Senato suscita intuitive perplessità per la sua incongruenza con il modello federale, a cui invece vorrebbe ispirarsi. Il fatto che le Regioni abbiano individualmente un peso diverso in Senato, poiché i rappresentanti di ciascuna Regione (escluse Val d'Aosta e Molise) possono essere da sei a, probabilmente, venti, esclude quella essenziale parità tra enti territoriali minori (Stati-membri, Länder, Regioni) che è caratteristica degli Stati effettivamente federali, come gli USA o la Germania (13).

Va inoltre osservato che la doverosa contestualità delle elezioni del Senato con le elezioni dei Consigli o Assemblee regionali nonché dei Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano, proprio perché «politicizza sul piano nazionale» anche le competizioni elettorali locali (14) finisce per pregiudicare l'autonomo valore... delle autonomie locali.

Il Senato, pur partecipando all'esercizio della funzione legislativa, viene invece estromesso dal circuito della responsabilità politica, nel senso che esso, se non può essere sciolto d'autorità, non può, però, a sua volta, votare la sfiducia al Primo Ministro. Il che indirettamente finisce per garantire, ancora una volta, il Primo Ministro, il quale, in tal modo, viene posto al riparo da possibili voti a lui contrari da parte di quella delle due Camere - e cioè il Senato - che, per la diversa legittimazione elettiva, potrebbe essere più indipendente rispetto al Primo Ministro (15).

6. Sempre con riferimento alle Regioni deve poi essere ricordato che il «nuovo» art. 117, ult. comma ha attribuito ad esse la competenza nelle materie: a) «assistenza e organizzazione sanitaria», b) «organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche», c) «definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione» e d) «polizia amministrativa regionale e locale».

È ben vero che a queste competenze esclusive si contrappongono, nel secondo comma dello stesso art. 117, competenze, parimenti esclusive, dello Stato negli stessi settori (16), con conseguente diversità di funzionamento del sistema c.d. federale a seconda di quella che sarà, di volta in volta, la maggioranza di governo e a seconda della presenza, o meno, in tale maggioranza, della Lega Nord (17).

Ciò non di meno, è di tutta evidenza che, in conseguenza di tali nuove competenze legislative esclusive regionali, l'assistenza sanitaria potrà essere erogata diversamente non solo di fatto, come purtroppo già accade, ma anche giuridicamente, a seconda della Regione di appartenenza, con evidente pregiudizio dell'identità di status dei cittadini italiani.

È inoltre altrettanto evidente che la pluralità di programmi formativi di interesse regionale finirà per pregiudicare l'identità culturale della Nazione, che è il vero collante dell'unità della Repubblica (art. 5 Cost.).

In controtendenza con la previsione di queste competenze esclusive è stato però riesumato il limite dell'«interesse nazionale» (v. il «nuovo» art. 126, comma 2) nella valutazione del merito delle leggi regionali. Il che suscita gravi perplessità in conseguenza dell'amplissima discrezionalità che tale valutazione naturalmente comporta nel giudizio del Parlamento in seduta comune, che potrebbe portare all'annullamento della legge regionale o di parte di essa (successivamente «dichiarato» dal Presidente della Repubblica con un suo decreto).

Un limite, quello dell'interesse nazionale, che certamente finirebbe per refluire, a danno delle regioni, anche sulla consistenza del sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale, come avveniva prima della legge costituzionale n. 3 del 2001, e che pertanto venne giustamente eliminato dal tale legge costituzionale sostituendolo con limiti certi a garanzia dell'autonomia legislativa regionale.

In controtendenza rispetto alla previsione delle nuove competenze legislative esclusive regionali sono state altresì previste, in favore dello Stato, le seguenti nuove competenze legislative esclusive che rimediano a talune gravi omissioni e disattenzioni del legislatore costituzionale del 2001: «promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale», «politica monetaria», «tutela del credito», «organizzazioni comuni di mercato», «norme generali sulla tutela della salute, sicurezza e qualità alimentari», «sicurezza del lavoro», «ordinamento della capitale», «grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza», «ordinamento della comunicazione» (18), «ordinamento delle professioni intellettuali; ordinamento sportivo nazionale», «produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell'energia».

Va tuttavia avvertito che la Corte costituzionale, nella sua prudente giurisprudenza in favore del mantenimento dell'unità giuridica dello Stato ha consentito, in nome dell'«attitudine ascensionale» del principio di sussidiarietà, a partire dalla sentenza n. 303 del 2003, ingerenze statali in materie a rigore rientranti nella competenza legislativa concorrente delle Regioni. In altre decisioni tali ingerenze sono state giustificate invocando la «trasversalità» di talune competenze statali. Da ultimo, la Corte costituzionale - favorendo anche qui il legislatore statale - ha inoltre affermato, contro la lettera dell'art. 117, comma 4 Cost. (19), che non è affatto vero che, quando non vi sia espresso riferimento ad una data materia, questa automaticamente spetterebbe alla potestà legislativa esclusiva regionale, dovendo infatti essere sempre presi in considerazione gli altri possibili interessi coinvolti (sentenze nn. 213 e 214 del 2006).

Tutto ciò merita di essere qui ricordato perché, pur essendo apprezzabili le modifiche apportate sul punto dalla riforma Berlusconi (in effetti: le uniche meritevoli di apprezzamento!!), non è affatto vero che se vincesse il NO, l'Italia si troverebbe nel caos, come più volte sottolineato dall'on. Tremonti. Non si troverebbe nel caos, appunto per merito della prudente giurisprudenza della Corte costituzionale di questi ultimi anni.

7. La riforma Berlusconi incide altresì sulla stessa Corte costituzionale, riducendo il numero dei giudici la cui scelta compete al Presidente della Repubblica (da cinque a quattro) e alle supreme magistrature (da cinque a quattro). Corrispondentemente viene aumentata la quota di giudici costituzionali complessivamente spettante alle sedi istituzionali politiche (tre alla Camera e quattro al Senato), con un non improbabile maggior peso della politica nelle decisioni della Corte.

Sempre a proposito della Corte costituzionale, non può poi non rilevarsi che l'estensione ai Comuni, a tutte le Province e alle Città metropolitane del potere di impugnare direttamente, dinanzi alla Corte costituzionale, leggi e atti con forza di legge dello Stato e delle Regioni («nuovo» art. 127-bis) costituisce, a ben vedere, un dono avvelenato per la Corte.

Se già il ben più esteso contenzioso Stato-Regioni, derivante dal criticato riparto delle competenze legislative introdotto dalla legge cost. n. 3 del 2001, ha ingolfato il lavoro della Consulta, superando in quantità le pronunce relative ai giudizi incidentali, è ragionevole paventare il pericolo che in tal senso potrebbe minacciare la giustizia costituzionale relativamente alle questioni interessanti i singoli cittadini. Va tuttavia avvertito che l'introduzione di questa ulteriore competenza è condizionata alla sua previa disciplina con una specifica legge costituzionale.

Comunque sia, stupisce che, messicisi sulla strada dell'ampliamento delle competenze della Corte, non si sia piuttosto pensato all'introduzione del ricorso diretto dei cittadini in caso di violazione dei diritti costituzionalmente loro spettanti.

8. L'ultima modifica che merita di essere ricordata è l'abrogazione del terzo comma dell'art. 138 Cost.

Essa rende possibile la richiesta di indizione del referendum popolare sulle leggi di revisione costituzionale anche quando queste siano state approvate dalle Camere, nella seconda votazione, con una maggioranza superiore ai due terzi dei loro componenti. Per quanto, a prima vista, l'innovazione sembrerebbe perseguire una finalità garantista, e sia quindi apprezzabile, bisogna tuttavia analizzarne i motivi ispiratori perché ad essa possa darsi una sicura valutazione positiva.

La modifica sarebbe infatti condivisibile qualora si ispirasse ad una concezione matura della sovranità popolare, la quale presuppone una doverosa e compiuta informazione dei cittadini, perché questi possano compiere scelte non emozionali in ordine ad eventi rilevanti per la vita democratica della comunità politica (20).

È per contro criticabile se essa sottende una concezione plebiscitaria della politica, che faccia leva sull'abuso del mezzo radiotelevisivo allo scopo di diffondere slogan o messaggi puramente emotivi (21).

Se questa, e non quella, è la ratio ispiratrice della modifica dell'art. 138 - e l'identità dei proponenti la modifica fa ritenere che questo, e non quello, sia lo scopo effettivamente perseguito -, allora tale modifica potrebbe costituire lo strumento per rovesciare, con l'appoggio dell'opinione pubblica meno avvertita, gli stessi esiti delle delibere parlamentari di revisione costituzionale, quand'anche approvate con i due terzi di maggioranza.

In tal caso secondo caso, anche questa modifica sarebbe ovviamente da respingere perché anch'essa tesa, nonostante le apparenze, a pregiudicare la sovranità popolare.

Note

(*) Professore ordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza" di Roma.

(1) Tra le molte decisioni in tal senso della Corte costituzionale v. le sentenze nn. 16 del 1978 e 27 del 1982. Si legge infatti nella prima delle due decisioni: «Uno strumento essenziale di democrazia diretta, quale il referendum abrogativo, non può essere (...) trasformato - insindacabilmente - in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppo organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie».

(2) Su tutti i problemi qui discussi, e per l'indicazione dei molti studiosi favorevoli alle tesi qui sostenute, v. A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, II ed., Cedam, Padova, 2002, passim.

(3) L'approvazione del progetto di legge costituzionale o di revisione costituzionale da parte dei due terzi dei componenti delle due Camere rappresenta infatti l'unica ipotesi in presenza della quale, ai sensi del terzo comma dell'art. 138 Cost., non si fa luogo a referendum popolare.

(4) V. già in questo senso G. Sartori, Verso una costituzione incostituzionale?, in Id., Ingegneria costituzionale comparata, V ed., Il Mulino, Bologna, 2004, p. 229 ss.

(5) È bensì vero che il «nuovo» art. 94, comma 1 dispone che «La Camera si esprime con un voto sul programma», ma ciò non significa affatto (come inesattamente ritiene P. Armaroli, ne Il giornale, 12 febbraio 2006, p. 10) che, in caso di voto contrario della Camera sul programma, il Primo ministro debba dimettersi. Le mozioni che possono (teoricamente) obbligare il Primo ministro alle dimissioni sono le sole mozioni di sfiducia previste dal terzo comma dello stesso art. 94, alle quali, però, il Primo ministro può rispondere con la richiesta (vincolante) di scioglimento, a cui accennerò di seguito nel testo. Ne consegue che la Camera potrebbe con il voto contrario al programma governativo, indurre il Premier a cambiare programma. Ma questa è un'ipotesi, a dir poco, inverosimile.

A riprova della differenza della votazione sul programma dalla votazione della mozione di fiducia (nel senso che solo questa, implicando il conferimento della fiducia, determina, in caso di esito negativo, l'obbligo di dimissioni), v. Corte cost., sent. n. 12 del 2006, con la quale la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 46, comma 2, dello Statuto della Regione Abruzzo, appunto perché collegava al voto sul programma (statutariamente ammissibile anche in una forma di governo «che prevede l'elezione a suffragio universale e diretto del vertice dell'esecutivo») la conseguenza della sfiducia, che si pone in contrasto con la scelta, effettuata dallo stesso Statuto, dell'elezione popolare del Presidente della Regione.

(6) L. Elia, La Costituzione aggredita, Il Mulino-AREL, Bologna, 2005, passim, ma p. 61 ss.

(7) Contro questo rilievo è stato disattentamente osservato (ancora da P. Armaroli, ne Il giornale, 12 febbraio 2006, p. 10) che, così opinando, io sosterrei che la riforma Berlusconi avrebbe eliminato l'obbligo di controfirma ministeriale agli atti del Capo dello Stato. Nulla di più errato. A parte l'ovvio rilievo che l'art. 89 Cost. è rimasto lo stesso - e quindi non si vede come potrei attribuire alla riforma Berlusconi scelte da essa non poste in essere -, con tale frase intendo sottolineare, retoricamente, che la deminutio delle attribuzioni presidenziali non è stata compensata in alcun modo, nemmeno con l'eliminazione della controfirma ministeriale sugli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali.

(8) Di questo testo, diverso dall'attuale, dà conto G. Rizza nel suo commento La revisione della forma di governo nella «bozza di Lorenzago», negli Scritti in memoria di Livio Paladin, Jovene, Napoli, 2004, vol. II, p. 1881.

Il testo originario del «nuovo» art. 89, comma 3, Cost. nel d.d.l. cost. è il seguente: «Non sono proposti né controfirmati dal primo ministro o dai ministri i seguenti atti del Presidente della Repubblica: la richiesta di una nuova deliberazione alle Camere ai sensi dell'articolo 74, i messaggi alle Camere, la concessione della grazia, la nomina dei senatori a vita, la nomina dei giudici della corte costituzionale di sua competenza, lo scioglimento del Senato federale della Repubblica, lo scioglimento della Camera dei deputati ai sensi degli articoli 92 e 94, le nomine dei Presidenti delle autorità amministrative indipendenti, la designazione del Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e le altre nomine che la legge eventualmente attribuisca alla sua esclusiva responsabilità».

(9) S. Bonfiglio, Il Senato in Italia. Riforma del bicameralismo e modelli di rappresentanza, Laterza, Roma-Bari, 2006, 65 ha rilevato, con buoni argomenti, che la tripartizione nasconderebbe una «finzione giuridica» dietro la quale si affermerebbe sempre la supremazia della Camera dei deputati. Infatti, come illustrato nella nota successiva, la prevalenza del Senato può, nelle ipotesi previste dall'art. 70, comma 4, nel combinato disposto con l'art. 120, comma 2, venir meno per volontà del Primo Ministro, con l'appoggio della Camera dei deputati.

(10) È stato giustamente rilevato da S. Bonfiglio, Il Senato in Italia, cit., p. 64, che una tipologia di leggi a prevalenza del Senato mal si concilia con lo sganciamento della seconda Camera dal rapporto fiduciario; il che sarebbe comprovato dal fatto che la prevalenza del Senato verrebbe «depotenziata» dal nuovo art. 70, comma 4.

Questa disposizione prevede infatti un meccanismo di sottrazione al Senato della sua competenza «prevalente» tutte le volte in cui il Governo «ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all'esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l'attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per le finalità di cui all'articolo 120, secondo comma» (pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali).

In tal caso, infatti, previa autorizzazione del Presidente della Repubblica che ne verifica i presupposti costituzionali, il Primo Ministro espone le motivazioni che giustificano l'essenzialità dell'approvazione di tale legge ai fini dell'attuazione del suo programma. Nel caso che le modifiche non siano accolte dal Senato entro trenta giorni, il d.d.l. è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva, a maggioranza assoluta, sulle modifiche proposte.

(11) A. D'Atena, La riforma del regionalismo riformato, in Id., Le Regioni dopo il big bang. Il viaggio continua, Giuffrè, Milano, 2005, p. 308.

(12) V. supra la nota 9.

(13) A. D'Atena, La riforma del regionalismo riformato, cit., p. 307.

(14) In questo senso v. ancora S. Bonfiglio, Il Senato in Italia, cit., p. 63.

(15) M. Manetti, Il progetto di riforma del Senato, in A. Bevere (a cura di), La democrazia riformata. Analisi del progetto di revisione costituzionale, ESI, Napoli, 2004, p. 86 s.

(16) Così è a dire delle «norme generali sulla tutela della salute; sicurezza e qualità alimentari» (nuova lett. m-bis) e delle «norme generali sull'istruzione» (vecchia lett. n).

Quanto alla «polizia amministrativa regionale e locale» deve essere tenuto presente che, ai sensi del «nuovo» art. 118, comma 5, spetta alla legge statale disciplinare le relative «forme di coordinamento fra Stato e Regioni».

(17) L. Elia, La Costituzione aggredita, cit., p. 190. Di qui il rilievo, dello stesso Elia, secondo il quale, mentre «con una maggioranza indipendente da condizionamenti leghisti si potrebbe sviluppare una legislazione rispettosa delle norme statali», con un Governo condizionato dalla Lega si potrebbe invece «affermare una legislazione "devoluzionista" in alcune Regioni del Nord senza che ne seguano impugnazioni governative davanti alla Corte costituzionale» (La Costituzione aggredita, cit., p. 159).

(18) L'ordinamento della comunicazione, scriteriatamente assegnato per intero dalla legge cost. n. 3 del 2001 alla competenza regionale concorrente, viene ora limitato alla «comunicazione di interesse regionale, ivi compresa l'emittenza in ambito regionale». Ad essa viene però aggiunta, tra le competenze legislative regionali concorrenti, la «promozione in ambito regionale dello sviluppo delle comunicazioni elettroniche» di incerto significato.

(19) ... secondo il quale «Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

(20) È noto che la stessa proposta di modifica è prevista anche nel programma dell'Unione. Perché la illimitata possibilità di appello al popolo non sia strumentalizzata in senso plebiscitario sarebbe opportuno, a livello di legislazione ordinaria, reintrodurre legislativamente la distinzione, posta malauguratamente nel nulla dalla Corte costituzionale (con l'infausta e contraddittoria sentenza n. 161 del 1995), tra l'irradiazione di spot televisivi, vietata negli ultimi 30 giorni prima della votazione referendaria, e la possibilità di effettuare «propaganda» fino al penultimo giorno (mediante tribune politiche, dibattiti, tavole rotonde, conferenze ecc.).

È infatti inesatto sostenere, come fece la Corte costituzionale, che, in conseguenza della struttura binaria del quesito referendario, sfumerebbe la distinzione tra forme di propaganda e forme di pubblicità. Anzi, proprio perché la risposta al quesito referendario è estremamente semplificata, dovrebbe essere evitato che le forme di pubblicità politica fossero altrettanto semplificate e grezze.

(21) In altre parole, se la previsione della possibilità di appello alla volontà popolare contro delibere approvate con la maggioranza dei due terzi risalga - come in effetti, nella specie, risale - a chi ha fatto del plebiscitarismo e della teledipendenza il principale strumento di lotta politica, è lecito dubitare che una siffatta previsione si ispiri ai principi della sovranità popolare; e debba piuttosto sospettarsi - come appunto si prospetta nel testo - che essa sottenda, invece, l'intento di conservare una chance per bloccare e rendere inefficaci modifiche costituzionali non gradite (anche in caso della loro approvazione dai due terzi dei componenti delle Camere). Una chance che potrebbe realizzarsi soprattutto mediante l'abuso di spot televisivi, ricorrendo cioè ad una forma di comunicazione nella quale la suggestione emotiva prevale sul dibattito razionale.

Data di pubblicazione: 16 giugno 2006.