Il contratto di donazione.
Il tipo legale e il regime delle prestazioni (*)

Antonino Cataudella (**)

Le prestazioni: disposizioni di diritti

Le prestazioni donative che l'art. 769 contempla sono la disposizione di un diritto o l'assunzione di un obbligo.

La puntualizzazione delle stesse, alla quale ora si procederà, servirà anche a meglio delineare il possibile ambito della donazione.

L'art. 1050 c.c. del 1865 definiva la donazione: «un atto di spontanea liberalità, col quale il donante si spoglia attualmente ed irrevocabilmente della cosa donata in favore del donatario che l'accetta».

La formulazione della norma si attagliava al trasferimento del diritto di proprietà su un bene ma la dottrina appariva orientata a ritenere che l'oggetto della donazione potesse anche essere diverso.

Il dettato dell'art. 769 del c.c. vigente non lascia dubbi sul punto che la donazione possa essere attuata, oltre che col trasferimento della proprietà con il trasferimento o con la costituzione di altri diritti.

Il possesso non è un diritto ma una situazione di fatto giuridicamente tutelata, che si può trasferire solo sostituendo in fatto altri in questa situazione sicché il suo trasferimento gratuito non può costituire oggetto di donazione: si possono donare i frutti del bene che si possiede, e ciò che viene atteggiato come trasferimento del possesso può stare ad indicare, appunto, l'intento di trasferirli.

È dato distinguere tra donazioni traslative e costitutive e, con riguardo alle une ed alle altre, possono sorgere dubbi sull'ambito dei diritti suscettibili di trasferimento e/o di costituzione.

Può costituire oggetto di trasferimento, oltre alla proprietà, anche la quota di comproprietà e, oltre alla proprietà piena, anche la nuda proprietà.

Il trasferimento di quest'ultima può essere attuato, a sua volta, da chi sia nudo proprietario, ed è questa l'ipotesi più semplice, e da chi abbia la proprietà piena.

Nel secondo caso, lo strumento per realizzarlo è dato dalla donazione con riserva di usufrutto, la cui praticabilità trova esplicito riconoscimento nell'art. 796 («È permesso al donante di riservare l'usufrutto dei beni donati a proprio vantaggio ...») e che si atteggia diversamente a seconda che la riserva sia a favore del donante o di terzo.

Nel primo caso, il donante dona solo la nuda proprietà. Nel secondo, dona la nuda proprietà al donatario ed offre l'usufrutto al terzo: qui, perché l'assetto di interessi divisato dal donante si realizzi, non basta la donazione con riserva di usufrutto ma occorre che, con l'accettazione del terzo, si perfezioni anche la donazione dell'usufrutto. Qualora il terzo non accetti, la titolarità dell'usufrutto rimarrà in capo al donante, visto che ha inteso trasferire al donatario solo la nuda proprietà e che il successivo trasferimento al terzo dell'usufrutto supponeva necessariamente la titolarità dello stesso da parte del donante.

Se il donante muoia dopo che il terzo ha rifiutato la donazione dell'usufrutto o, comunque, prima che l'abbia accettata l'offerta si dovrà considerare caducata e l'usufrutto si consoliderà con la nuda proprietà.

L'usufrutto può essere contestualmente riservato dal donante a sé e ad altri.

Può essere riservato a più soggetti successivamente (usufrutto successivo) solo nei limiti segnati dall'art. 796: vale a dire, prima al donante «e dopo di lui a vantaggio di un'altra persona o anche di più persone, ma non successivamente».

La norma sembra contemplare i casi di usufrutto a durata non predeterminata ma corrispondente alla vita dell'usufruttuario.

La donazione di usufrutto a favore di più persone in successione cronologica, per periodi di tempo predeterminati, se non rientra direttamente nel divieto posto dall'art. 796 può peraltro costituire, a seconda di come si atteggi in concreto, un modo per aggirare il divieto, configurando un caso di frode alla legge (art. 1344).

La donazione non può riguardare, per il divieto posto dall'art. 1024 in considerazione della natura personale di tali diritti, il trasferimento dei diritti d'uso e d'abitazione, che per donazione possono solo essere costituiti.

L'art. 980, c. 1° riconosce invece all'usufruttuario il potere di cedere il diritto «per un certo tempo o per tutta la sua durata se la cessione non sia vietata dal titolo costitutivo».

La donazione può avere ad oggetto il trasferimento di una servitù ma, data l'inerenza della servitù al fondo, solo se congiunto al trasferimento della proprietà del fondo.

Non può ammettersi, invece, costituzione di servitù a favore del donante in occasione del trasferimento della proprietà: contrasterebbe col principio «nemini res sua servit». Né mi sembra si possa configurare, nel caso, una deductio servitutis, dato che la servitù non è potere ricompreso tra quelli del proprietario del fondo e, quindi, deducibile nel trasferimento del diritto di proprietà ma si configura, piuttosto, come limite alla piena esplicazione di tal diritto: limite, comunque, insussistente, al momento del trasferimento dello stesso. La donazione con riserva di servitù va quindi costruita configurando il combinarsi di due negozi: l'uno di donazione, avente ad oggetto il trasferimento della proprietà piena, e l'altro col quale il donatario, in attuazione di un modo, costituisce la servitù in favore del donante.

Dubbi possono sorgere sulla conciliabilità di una donazione di servitù a favore o a carico di un edificio da costruire con il divieto di donare beni futuri (art. 771) ma possono avere fondamento solo con riguardo all'ipotesi in cui la servitù prospettata appaia destinata a gravare su un bene che dovrebbe rientrare nel patrimonio del donante: solo in tal caso, infatti, si avrebbe l'aggravio di patrimonio futuro del donante che costituisce la ratio del divieto posto dall'art. 771.

I dubbi avanzati in merito all'ammissibilità di donazioni che abbiano ad oggetto il diritto di enfiteusi e il diritto di superficie appaiono, almeno in parte, superabili.

Essi sono stati motivati, riguardo al diritto di enfiteusi, col rilievo che allo stesso sono collegati gli obblighi del pagamento del canone e del miglioramento del fondo, e riguardo al diritto di superficie, limitatamente ai casi nei quali sia stato pattuito un canone, con il collegamento al diritto dell'obbligo di pagare il canone. Verrebbe meno, in questi casi, la nota dell'arricchimento, che caratterizza la donazione.

I rilievi muovono, ovviamente, dall'assunto che per arricchimento debba intendersi un effettivo incremento patrimoniale della parte alla quale il diritto viene trasferito e si attagliano solo ai casi nei quali gli obblighi collegati al diritto raggiungano un livello tale da escludere tale incremento.

Si è già visto però che il richiamo che l'art. 769 fa all'arricchimento non comporta che la donazione debba essere connotata dall'oggettivo incremento del patrimonio del donatario.

Occorre non perdere di vista che, nei casi in esame, è il diritto che viene donato, e la circostanza che allo stesso siano correlati obblighi non può valere a modificare la natura del contratto, anche se può incidere sui vantaggi concreti che il trasferimento apporta al patrimonio del donatario (fino ad eliminarli o a dar luogo - addirittura - ad un decremento patrimoniale): ciò che si dona è il diritto di superficie o il diritto di enfiteusi, non la posizione complessiva che al diritto è correlata.

È vero, peraltro, che il diritto di enfiteusi, allorché non venga trasferito ma costituito, non può esserlo con una donazione.

Si tratta di un diritto connotato dall'obbligo di miglioramento del fondo e dall'obbligo di pagare il canone, sicché il contratto che lo costituisce è necessariamente oneroso: propriamente con prestazioni corrispettive.

Se non siano stati imposti questi obblighi non sarà dato configurare la costituzione di un diritto di enfiteusi e la donazione, qualora se ne ravvisino le note essenziali, avrà ad oggetto il trasferimento del diritto di proprietà.

Non può essere assunta ad oggetto di donazione la costituzione di garanzie.

Queste possono, certo, essere costituite senza corrispettivo ma l'atto costitutivo non presenta le note che caratterizzano il contratto di donazione.

La garanzia, quando è offerta dallo stesso debitore, è finalizzata all'ottenimento del credito ed è , pertanto, priva di note di gratuità. Quando, invece, è data da un terzo la mancanza di corrispettivo vale a connotare come gratuito il negozio che la costituisce, che però non presenta le note che caratterizzano la donazione.

Il vantaggio che il debitore consegue con la dazione di garanzia da parte del terzo è di agevolare, o addirittura di rendere possibile, la concessione di un mutuo. Questa, peraltro, non produce un arricchimento del patrimonio del debitore, né nell'immediato, perché comporta il sorgere di un corrispondente debito, né successivamente, nel caso di pagamento del debito da parte del garante, perché ad esso consegue l'obbligo del debitore di adempiere nei confronti del garante. Non si configura quindi, in ogni caso, l'intento comune alle parti dell'accordo di incrementare il patrimonio del beneficato che caratterizza il contratto di donazione.

Va ammessa invece la donazione del grado ipotecario a vantaggio di altro creditore ipotecario.

La donazione può anche riguardare tutti i beni del donante, traducendosi, in tal caso, non in una successione universale ma nella donazione dei singoli beni che compongono il patrimonio del donante.

Le prestazioni: donazioni liberatorie

Si può disporre di un diritto, oltre che trasferendolo o costituendolo in capo ad altri, anche rinunziandovi, perché si ha disposizione di diritti ogniqualvolta il titolare degli stessi se ne privi anche se alla privazione non consegua un «arricchimento» altrui.

L'art. 769 vuole però, perché si configuri una donazione, che la disposizione del diritto sia attuata «a favore» del donatario.

Non può, quindi, rientrare tra le donazioni un atto di disposizione che non comporti l'acquisto del diritto da parte di altri: qual'è la derelizione di cosa mobile, cui consegue il divenire res nullius della cosa abbandonata.

Rientrano invece tra le disposizioni «a favore» di altri soggetti le disposizioni abdicative che producano un «arricchimento», sotto forma di espansione di un diritto o di liberazione da un obbligo.

Quando siffatte disposizioni siano pattuite con un accordo volto a realizzare «l'arricchimento», la formulazione dell'art. 769 non frappone certo ostacolo a configurare l'accordo come donazione: si tratta anzi di formulazione che, come emerge dai lavori preparatori, è stata intenzionalmente adottata per ricomprendere fra le donazioni casi del genere, che si suole denominare «donazioni liberatorie».

I dubbi sull'ammissibilità di donazioni liberatorie sono, piuttosto, nutriti dalla difficoltà di segnare un netto confine fra le stesse e le rinunzie, allorché da questa vicenda consegua, come effetto normale, un «arricchimento» per soggetti determinati. Si pensi alla rinunzia al diritto di proprietà su un bene immobile, alla quale consegue l'acquisizione dello stesso al patrimonio dello Stato; alla rinunzia all'usufrutto, che comporta la trasformazione della nuda proprietà in proprietà piena; alla remissione del debito, che libera il debitore dal vincolo obbligatorio.

La dottrina che afferma la natura indiretta di questi effetti, sottolineando che il solo effetto diretto della rinunzia è la dismissione del diritto da parte del rinunziante, svolge un discorso che non appare atto, in sé, a segnare un netto discrimine tra le due specie di effetti.

Si tratta di intendersi sul senso da assegnare alla qualificazione degli effetti in questione come indiretti.

Se si vuol dire che, logicamente, l'effetto liberatorio del patrimonio altrui segue quello dell'estinzione del diritto nel patrimonio del rinunciante, si fa un'affermazione corretta ma non idonea a porre in luce una differenza sostanziale tra i due effetti.

Se si vuole invece affermare che l'effetto liberatorio non trova la sua causa nella rinunzia bensì nell'effetto dismissorio che della rinunzia è proprio, si forza il quadro della dinamica degli effetti perché anche l'effetto liberatorio consegue alla rinunzia e perciò trova in essa la sua ragione, o una delle sue ragioni, di essere.

Del resto, la stessa dottrina che ha profilato la predetta distinzione tra effetto dismissorio ed effetto liberatorio non la ritiene applicabile alla remissione del debito.

Più agevole, rispetto al tentativo di distinguere donazione liberatoria da rinunzia facendo leva sulla diversità degli effetti, può apparire il richiamo alla diversa struttura dei due negozi giuridici. Struttura che un orientamento dottrinale ritiene che sia, nei vari tipi di rinunzia, necessariamente unilaterale, in contrapposizione alla struttura contrattuale della donazione.

La diversità di struttura offre una linea distintiva netta ma che non si è, peraltro, del tutto certi di poter tracciare, visto che l'assunto della natura necessariamente unilaterale delle rinunzie non è da tutti condiviso, specie riguardo alla remissione del debito.

Sembra, per vero, che alla funzione abdicativa, propria della rinunzia, si attagli una struttura unilaterale.

Il negozio che sia volto a realizzare tale funzione appare infatti indirizzato a regolare gli interessi di una sola parte e, in quanto esercizio di privata autonomia, dev'essere opera esclusiva del soggetto titolare degli interessi: la struttura contrattuale ha ragion d'essere solo quando una pluralità di soggetti intendono dettare regola a loro interessi, potenzialmente confliggenti.

Comunque, la constatazione che la donazione liberatoria ha struttura diversa dalla rinunzia non offre risposta al quesito, che prima ancora si pone, in merito alla stessa ammissibilità di una donazione liberatoria. Ammissibilità che può essere affermata solo se si riesca ad assegnare alla stessa una funzione diversa da quella di una rinuncia: non si riuscirebbe, infatti, a giustificare la duplicazione di strumenti (negoziale e contrattuale) per la realizzazione di identica funzione.

Per individuare la funzione di un negozio giuridico occorre far capo al contenuto dello stesso, piuttosto che agli effetti, e l'«arricchimento» di un soggetto determinato, anche se spesso è un effetto della rinunzia, non caratterizza la funzione della stessa.

Un effetto del genere non incide infatti sulla funzione della fattispecie in quanto, per l'inquadramento nello schema della rinunzia, non occorre che il regolamento dettato dall'autore del negozio sia inteso a produrre l'«arricchimento» ma è sufficiente che sia rivolto a dar luogo alla dismissione.

La funzione della rinunzia è tipicamente abdicativa, e tale rimane anche quando alla stessa consegua, sul piano degli effetti, l'«arricchimento» di soggetti determinati.

Non vi è dubbio, all'opposto, che la donazione sia connotata da una funzione attributiva: quindi, diversa da quella propria della rinunzia. Ciò, peraltro, se consente di concludere che la donazione si distingue nettamente dalla rinunzia non solo per la struttura ma anche per la funzione, non consente ancora di dare risposta all'interrogativo sull'ammissibilità di donazioni nelle quali l'arricchimento d'una parte per spirito di liberalità sia realizzato con la rinunzia dell'altra parte ad una diritto.

Si tratta di vedere se anche in tal caso il negozio posto in essere svolga la funzione attributiva che connota la donazione. Ora, quando l'incidenza, in veste di «arricchimento», sulla sfera giuridica di soggetti diversi da quello che dismette il diritto venga assunta dalle parti ad elemento essenziale del contenuto, essa finisce col caratterizzare la funzione del negozio, che diventa attributiva. E se vi è un accordo, riguardo all'arricchimento per spirito di liberalità di una parte attraverso la dismissione di un diritto ad opera dell'altra, non sembrano sussistere decisivi ostacoli a configurarlo come contratto di donazione.

L'esistenza di schemi legali unilaterali di rinunzia non può ritenersi incompatibile, data la diversità di funzione, con la configurazione della donazione liberatoria.

Neppure quando ad essi si ricolleghi, oltre all'effetto dismissorio, un effetto attributivo. Si tratta di nota che riguarda gli effetti del negozio e non il suo contenuto. Comunque, mentre in rinunzie del genere l'effetto attributivo consegue a quello dismissorio, nella donazione liberatoria l'effetto dismissorio appare strumentale, proprio alla luce della funzione che è propria del contratto, alla realizzazione dell'effetto attributivo.

Qualche dubbio può sorgere con riguardo alla remissione del debito, nella quale l'interesse del soggetto che trae vantaggio dalla rinunzia al credito è tenuto direttamente in conto dal legislatore con l'attribuzione allo stesso del potere di rifiuto (art. 1236).

Si potrebbe infatti assumere che l'adozione dello strumento contrattuale, è, nel caso, resa priva di giustificazione dalla presenza di un negozio unilaterale, la remissione del debito appunto, atto a garantire la tutela legale di tutte le parti interessate. La stipula di un contratto può però, in questo caso, trovare la sua ragion d'essere nell'esigenza di tutelare un interesse del rinunciante che solo l'accordo può soddisfare: quello di assicurare definitività ad una assetto di interessi che, utilizzando invece lo strumento della remissione del debito, sarebbe assoggettato ad una situazione di incertezza dipendente dal potere di rifiuto che l'art. 1236 c.c. attribuisce al debitore.

È dato, quindi, concludere che la donazione può realizzarsi anche con la rinunzia ad un diritto.

Le prestazioni: assunzioni di obblighi

L'altro modo di donare, oltre alla disposizione di un diritto, è l'assunzione di un obbligo.

La portata del riferimento, che l'art. 769 fa, all'assunzione di obblighi è alquanto incerta, assumendosi da qualificata dottrina che oggetto di donazione possano essere solo le obbligazioni di dare, non quelle di fare perché in esse al vantaggio senza corrispettivo per il beneficiario non farebbe riscontro un vero e proprio depauperamento nel patrimonio di chi si obbliga, mentre pure per le obbligazioni di dare vi è chi sostiene che possono costituire oggetto di donazione solo quelle che siano mezzo per la costituzione o l'acquisto di un diritto reale di godimento e del diritto di proprietà.

Un contenimento degli obblighi di dare va certamente operato, e non per ragioni che attengano alla natura della donazione quanto, piuttosto, per l'esigenza di segnare i confini tra la donazione ed altri tipi contrattuali.

Così, a fronte della previsione normativa del comodato immobiliare (art. 1813) e mancando ragioni per escludere dall'ambito di quel tipo le cessioni in godimento di lunga durata, non resta spazio per configurare come donazione (e non come comodato) obblighi di far godere una cosa. Così, a fronte della previsione del mutuo gratuito (art. 1815) non è dato configurare come donazione (e non come mutuo) la concessione di un mutuo senza interessi.

L'esclusione degli obblighi di fare dal novero degli obblighi che possono costituire oggetto di donazione introdurrebbe invece una limitazione che il tenore della norma (art. 769) non supporta e della quale sarebbe arduo ravvisare la ratio.

Si è visto che l'arricchimento oggettivo non costituisce nota necessaria della donazione, comunque, l'assunzione di un obbligo di fare comporta anche, normalmente, un arricchimento del patrimonio dell'altra parte, che acquista un credito, sicché, quando essa abbia luogo senza corrispettivo, non è dato negare che ricorrano i requisiti indicati dall'art. 769 per la configurazione di una donazione.

Si sostiene, come si è visto, che a tale conclusione frapporrebbe ostacolo la circostanza che, nel caso, all'arricchimento di una parte non corrisponderebbe il depauperamento dell'altra.

Il depauperamento del patrimonio del donante non è però indicato dall'art. 769 quale nota necessaria per la configurazione della donazione e comunque, a ben vedere, non manca nel caso. Mancherebbe se si volesse vedere nell'obbligazione di fare solo la spendita di attività da parte del donante che l'attuazione della stessa comporta, mentre, per configurarlo, l'accento va piuttosto posto sul mancato utilizzo, per conseguire incrementi patrimoniali, delle energie impegnate per adempiere l'obbligo assunto con la donazione.

L'attività di lavoro alla quale si può avere riguardo è non solo quella svolta in posizione di autonomia ma anche quella subordinata.

L'obbligazione di svolgere senza corrispettivo un'attività a favore dell'altra parte in posizione autonoma non può costituire oggetto di un contratto d'opera, in quanto la presenza di un corrispettivo è nota essenziale per la configurabilità di un contratto del genere.

Non può neppure costituire oggetto di comodato, perché l'inscindibilità delle energie lavorative dalla persona non consente di considerare le stesse come «cose» autonome e perché tutta la disciplina del comodato, dettata con riguardo a cose corporali, conferma che l'art. 1803, c. 1°, quando indica ad oggetto della consegna nel comodato «una cosa mobile o immobile» fa riferimento esclusivo a cose siffatte.

La prestazione gratuita di lavoro autonomo può, quindi, costituire oggetto di donazione.

Le considerazioni svolte possono essere ripetute per la prestazione gratuita di lavoro subordinato, sia per quanto riguarda l'inconciliabilità col comodato sia per quanto attiene all'impossibilità di dedurla ad oggetto di un contratto di lavoro subordinato.

La circostanza che lo schema donativo appaia potenzialmente idoneo a ricomprenderla potrebbe non costituire elemento decisivo per qualificare come donazione il contratto che la contempli se, come taluno assume, la natura ed i fini della normativa dettata per il lavoro subordinato frapponessero ostacolo a siffatto inquadramento.

Non sembra, peraltro, che l'ostacolo possa essere persuasivamente dedotto dalla natura cogente di gran parte delle norme dettate per il contratto di lavoro.

Dalla cogenza delle norme si vuol trarre una corrispondente rigidità del relativo schema tipico ma il procedimento logico non appare condivisibile, perché lo schema contrattuale non si delinea facendo capo alle norme cogenti dettate per il contratto; comunque, la rigidità del tipo non comporta l'inammissibilità dell'inserimento della prestazione di lavoro in un contesto diverso, al fine di realizzare una funzione anche solo parzialmente diversa.

Altri, con riguardo non al contratto bensì al rapporto di lavoro subordinato, ha affermato, alla stregua della normativa che lo disciplina, che lo stesso è necessariamente connotato dall'onerosità.

La normativa ha peraltro riguardo ai casi, di gran lunga più frequenti, nei quali il lavoratore utilizza le sue energie lavorative come mezzo di scambio per ottenere quanto necessario per le sue esigenze di vita. Esigenze che non vengono in considerazione, sicché viene meno la ratio alla quale tale principio si ispira, quando la prestazione lavorativa è indirizzata a fine diverso da quello di conseguire un compenso.

Vero è che, per escludere la possibilità di prestazioni di lavoro subordinato gratuito, occorrerebbe muovere dalla premessa che l'onerosità costituisca nota caratterizzante la subordinazione.

Premessa certamente arbitraria, perché la subordinazione è un modo di atteggiarsi della prestazione di lavoro che non sembra possa essere inciso, e tanto meno escluso, dalla mancanza di onerosità: si è tenuti a lavorare alle dipendenze e sotto le direttive di altri perché si è assunto questo obbligo, rispetto al quale resta esterna, e inidonea a qualificare la subordinazione, la circostanza che la prestazione di lavoro trovi o no un compenso.

Non vi è, quindi, contraddizione di sorta tra l'affermazione che l'onerosità caratterizza il tipo legale del contratto di lavoro subordinato e l'affermazione che la stessa è estranea al concetto di subordinazione.

Si intende che per consentire la configurazione di una donazione questo indirizzo della prestazione deve essere non equivoco e che non basterebbe, a tal fine, la mera omessa indicazione della retribuzione, come del resto comprova l'art. 2099, c. 2° che prevede, nell'ipotesi, l'intervento del giudice.

Prestazioni donative sono quindi, in astratto, ammissibili anche se è d'uopo tener presente che, in concreto, di prestazioni del genere è arduo trovare traccia.

Si è constatato che l'esperienza sociale del lavoro gratuito non conosce «il dono del lavoro ammantato di solennità» e la constatazione porta a concludere che, nei casi di prestazioni gratuite di lavoro subordinato, l'inquadramento della fattispecie concreta nello schema donativo avrebbe come esito normale la nullità del contratto per carenza del requisito della forma pubblica.

L'inquadramento nello schema donativo non consegue necessariamente all'esclusione dell'inquadrabilità negli schemi del contratto di lavoro subordinato e del contratto di comodato. Non si può infatti escludere in astratto, e potrebbe essere accertata in concreto, la riconducibilità di prestazioni di lavoro subordinato gratuite a contratti tipici di altra natura o a contratti atipici.

La ricomprensione degli obblighi di fare tra i possibili oggetti di donazione consente di leggere l'art. 772 - che prevede l'assunzione di obblighi di prestazioni periodiche e dispone che tali obblighi si estinguano «alla morte del donante, salvo che risulti dall'atto una diversa volontà» - come riferito non solo a prestazioni di dare ma anche a prestazioni di fare. La norma, per quanto riguarda le prestazioni di fare, pone alle stesse un limite di tempo (peraltro derogabile), rappresentato dall'incerta durata della vita del donante. Le prestazioni di fare si proiettano nel futuro ma, non costituendo «beni», non rientrano nel divieto di donazione di beni futuri posto dall'art. 771, il limite temporale posto dall'art. 772 allo svolgimento delle stesse si ispira, peraltro, ad una logica prossima a quella che ha ispirato il divieto, in quanto tende ad evitare che il donante vincoli non solo l'attività futura propria ma anche quella degli eredi.

Oltre che assumendo un obbligo di fare si può donare assumendo un obbligo di non fare. Tra i casi nei quali l'assunzione di un obbligo del genere assume i connotati della liberalità si possono menzionare l'obbligo dell'usufruttuario di non utilizzare il bene per un certo tempo e quello del mutuante di non richiedere gli interessi per un certo numero di anni: casi nei quali il vantaggio del nudo proprietario e del mutuatario è palese.

Il tipo legale donazione ed i sottotipi

Nell'ambito dei tipi contrattuali è dato, talvolta, individuare dei sottotipi.

Il sottotipo si caratterizza per la presenza di connotazioni ulteriori rispetto a quelle della fattispecie tipica che, però, non siano tali da introdurre elementi con essa incompatibili ma valgano a specificarla, segnando un ambito più ristretto, e che comportino l'applicazione di una disciplina solo ad essi dedicata.

Il tipo donazione, quale il legislatore lo ha delineato, non è caratterizzato, e lo si è visto, dal motivo che determina il donante al contratto. Dalla disciplina dettata per esso emergono, peraltro, ipotesi di donazioni, che potremmo chiamare «motivate», nelle quali il motivo assume una qualche valenza caratterizzante, e che trovano una disciplina particolare nell'ambito di quella generale dettata per la donazione. Tali: le donazioni rimuneratorie, quelle fatte in riguardo di matrimonio, talune donazioni modali.

La specificazione del motivo che ha mosso in concreto il donante al contratto e la condivisione dello stesso anche da parte del donatario non rilevano ai fini dell'individuazione di una donazione ma quando un motivo specifico emerga dal contratto può valere, in certi limiti segnati dalla legge, a caratterizzare il concreto assetto di interessi, data la posizione prevalente che, nella determinazione di questo assetto, va riconosciuta al donante.

«Rimuneratorie» sono le liberalità fatte «per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale rimunerazione», che l'art. 770, c. 1° menziona per affermarne la natura di donazioni. Nel novero, com'è evidente, rientrano motivazioni diverse: tutte tali, peraltro, da portare ad escludere l'intento mero di beneficare il donatario e, nel contempo, quello di adempiere un obbligo giuridico o morale o sociale.

Le particolarità di disciplina che ad esse sono collegate riguardano: a) la garanzia per evizione, nel limite segnato dall'entità delle prestazioni ricevute dal donante (art. 797, n. 3), con formula che sembra, peraltro, propriamente riferibile sola alle donazioni fatte per speciale rimunerazione; b) l'irrevocabilità della donazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 805); c) l'esclusione dell'obbligo di prestare gli alimenti al donante (art. 437).

Le particolarità della disciplina delle donazioni fatte in riguardo di matrimonio hanno tratto: a) alla nullità della donazione nell'ipotesi di annullamento del matrimonio (art. 785, c. 2°) o di pronuncia di dispensa nel matrimonio «rato e non consumato», dato che anche detta dispensa produce l'annullamento del vincolo; b) alla salvezza dei diritti acquistati da terzi in buona fede tra il giorno del matrimonio e quello del passaggio in giudicato della sentenza che ne pronuncia la nullità (art. 785, c. 2°); c) alla spettanza al coniuge in buona fede dei frutti percepiti anteriormente alla domanda di annullamento del matrimonio; d) all'irrevocabilità della donazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 805); e) all'esclusione dell'obbligo di prestare gli alimenti al donante (art. 437); f) alla subordinazione dell'efficacia alla condicio juris sospensiva ma con effetto ex nunc della celebrazione del matrimonio (art. 785, c. 1°).

Entrambe le figure, quindi, sono caratterizzate dalla presenza di motivi ai quali viene riconosciuta giuridica rilevanza ma non per questo esulano dallo schema della donazione, che dai motivi prescinde e, quindi, appare atto a ricomprendere tutte le liberalità donative comunque motivate.

Ad entrambe sono collegate regole specifiche.

È dato quindi concludere che sussistono i presupposti per qualificarle come sottotipi della donazione.

Una dottrina autorevole ha sostenuto che la donazione modale configura un tipo legale distinto dalla donazione.

Per argomentare questa conclusione ha fatto leva sulla constatazione che nella donazione modale possono mancare sia l'arricchimento oggettivo del donatario sia lo spirito di liberalità del donante.

Rilievo esatto, che però non sembra atto a giustificare la conclusione alla quale si vorrebbe pervenire: e ciò per più ragioni.

In primo luogo, perché queste mancanze non connotano la fattispecie donazione modale, in quanto non corrispondono al normale atteggiarsi delle modalità, riguardando il caso limite nel quale il valore dell'onere superi quello della donazione (art. 793) e quello, tutt'altro che frequente, che l'onere abbia costituito il solo motivo determinante della donazione (cfr. - con riguardo all'onere illecito o impossibile - l'art. 794).

In secondo luogo perché, lo si è già visto, l'arricchimento oggettivo non costituisce nota essenziale della donazione e perché lo spirito di liberalità va inteso come volontà del donante, condivisa dal donatario e in nessun modo vincolata, di porre in essere un'attribuzione senza corrispettivo a favore del donatario per il soddisfacimento di propri interessi non patrimoniali, e non va, perciò, confuso con i motivi, anche se determinanti, che hanno indotto il donante a concludere la donazione (tale è quello contemplato dall'art. 794).

Da ultimo, ma non per ultimo, perché il legislatore considera, indiscutibilmente, la donazione modale come una specie del genere donazione. Le norme sulla donazione modale sono infatti inserite nel titolo «delle donazioni»; gli artt. 793, 794 e 797, n. 3, c.c. parlano di: «donazione ... gravata da un onere», di onere che «rende ... nulla la donazione», di «donazione che impone oneri al donatario».

A questa collocazione sarebbe riduttivo attribuire valenza meramente classificatoria perché dalla stessa è arduo non evincere il precetto positivo dell'applicabilità alla donazione modale, se non derogata, della disciplina della donazione.

In positivo, la dottrina che si esamina vede connotata la donazione modale da una connessione funzionale tra prestazione del donante e prestazione modale.

Tale connotazione non può però ritenersi una costante della donazione alla quale sia apposto un onere perché, nella gran parte dei casi, non è dato individuare un nesso funzionale del genere: comporta, quindi, una delimitazione assai incisiva dell'ambito delle donazioni modali.

Vi è di più. L'autonomia che si vorrebbe garantire, facendo leva sul collegamento funzionale tra le prestazioni del donante e del donatario, alla donazione modale in tal modo delimitata, ne farebbe un contratto con prestazioni corrispettive. Siffatto inquadramento renderebbe, peraltro, necessario espungere dal novero delle donazioni modali quelle nelle quali l'onere fosse imposto nell'interesse dello stesso donatario, in quanto, non incidendo positivamente la prestazione del donatario sulla sfera patrimoniale del donante o di terzi, non sarebbe dato configurare un nesso di corrispettività tra la prestazione del donante e quella del donatario.

Una dottrina più recente ha ripreso la tesi criticata, apportandovi, peraltro, un'incisiva correzione.

Ha infatti limitato l'assegnazione di autonoma funzione alla donazione modale ai soli casi nei quali il collegamento tra la prestazione del donante e quella del donatario si atteggi in modo da alterare la causa tipica della donazione: cosa che avverrebbe allorquando l'attribuzione gratuita risultasse, nell'intento del donante, meramente strumentale all'adempimento dell'onere.

In tal modo, peraltro, si attribuisce all'intento di una sola delle parti, il donante, quell'idoneità a caratterizzare il tipo che dovrebbe essere riservata, anche nelle donazioni, al comune intento dei contraenti. Se a quest'ultimo si volesse far capo, la constatazione che le parti abbiano inteso collegare le prestazioni con un nesso di scambio imporrebbe la conclusione, a prescindere dalla qualificazione da esse data al contratto, che le stesse abbiano posto in essere un assetto di interessi connotato dalla corrispettività. La conseguenza che ne discenderebbe sarebbe quella che la fattispecie non configurerebbe una donazione e andrebbe inquadrata in un diverso tipo legale (ad es. la compravendita).

L'enucleazione di un nuovo tipo legale (donazione modale) caratterizzato dalla corrispettività non appare, del resto, conciliabile con la normativa specifica che disciplina la donazione modale.

All'inadempimento dell'onere, infatti, non consegue sempre la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto, che è data solo se prevista nell'atto (art. 793, c. 4°). All'illiceità o impossibilità dell'onere non consegue l'inefficacia del contratto, dovendo l'onere essere considerato non apposto, salvo che lo stesso abbia costituito per il donante il solo motivo determinante al contratto.

Altra dottrina propone una scissione tra donazione e modo, configurandoli come contratti distinti, pur se collegati: proposta che, se può valere a superare taluni problemi costruttivi, ne pone forse di maggiori e che comunque confligge con la collocazione del modo nell'ambito della disciplina dettata per la donazione e con l'inscindibile unitarietà dell'assetto di interessi che la donazione modale è volta a conseguire.

Donazione e gratuità

A mio avviso i contratti a prestazioni corrispettive sono una specie dei contratti onerosi.

Questo inquadramento è stato contestato da una dottrina sulla scorta di argomentazioni delle quali si dà appresso sintetico conto.

Si osserva, anzitutto, che l'onerosità, contrapposta alla gratuità, diversamente dalla corrispettività, contrapposta alla non corrispettività, è riferibile anche agli atti giuridici ma la circostanza, innegabile, che il concetto ha un ambito di applicazione più ampio rispetto a quello della corrispettività non toglie che sia riferibile anche ai contratti.

Si aggiunge che l'onerosità non presuppone la corrispettività ma il rilievo, che sarebbe pertinente contro la tesi che, in ipotesi, vedesse nei contratti onerosi una specie dei contratti con prestazioni corrispettive, non può avere ingresso contro l'assunto, opposto, che vede nei contratti con prestazioni corrispettive una specie dei contratti onerosi.

Si adduce ancora che l'onerosità attiene alla qualità dell'acquisto e non alla qualità dell'atto, nel senso che può anche prescindere da una prestazione dedotta in contratto ed è, quindi, nota che può essere riferita ad un negozio unilaterale. Con ciò, peraltro, si afferma l'utilizzabilità del concetto di onerosità oltre l'ambito dei contratti ma certo non si esclude l'utilizzabilità del concetto in questo ambito.

Si osserva, inoltre, che l'onerosità, a differenza della corrispettività che costituisce un elemento essenziale per la qualificazione del contratto, non ha, normalmente, tale attitudine. Ciò non toglie, peraltro, che la corrispettività abbia anche le note, più attenuate, proprie dell'onerosità. Il rilievo potrebbe avere, quindi, valenza critica contro l'assunto di chi pretendesse, in ipotesi, di far rientrare l'onerosità nell'ambito della corrispettività ma non l'ha contro l'assunto opposto, che vede nella corrispettività una specificazione dell'onerosità, proprio perché la specificazione rispetto ad una categoria più ampia comporta, appunto, l'aggiunta di elementi caratterizzanti che non sono richiesti per l'inquadramento nella categoria di più vasto ambito.

Si assume, infine, che proprio dalla non corretta collocazione dei contratti con prestazioni corrispettive nell'ambito dei contratti onerosi si sarebbe tratta l'erronea deduzione che l'equivalenza tra prestazioni, così come può mancare nei primi può mancare nei secondi. Il rilievo muove, peraltro, dall'individuazione della nota minima caratterizzante l'onerosità in termini diversi da quelli nei quali l'abbiamo, in altra sede, prospettata rappresentati dalla presenza di una prestazione anche a carico dell'altra parte, a prescindere da qualsivoglia commisurazione tra le prestazioni delle parti.

Mi sembra, in conclusione, che le censure mosse all'inquadramento dei contratti con prestazioni corrispettive nell'ambito dei contratti onerosi non colgano nel segno.

Il discorso, finora svolto sulla linea del raffronto tra corrispettività ed onerosità, se spostato in chiave di contrapposizione tra corrispettività e non corrispettività porta a ritenere che la non corrispettività cominci là dove finisce la corrispettività, abbracciando i casi nei quali il contratto comporti prestazioni per una sola delle parti oppure prestazioni per entrambe che peraltro non siano tra loro legate da un nesso di corrispettività, nel senso che l'una non trovi la sua ragion d'essere nell'altra.

Se condotto in chiave di onerosità e gratuità induce, alla stessa stregua, a ritenere che la gratuità cominci là dove finisce l'onerosità e, quindi, sia ravvisabile, muovendo dall'idea che l'onerosità stia ad indicare presenza di sacrifici, allorché dal contratto non conseguano sacrifici di sorta, quale che ne sia l'entità, per una delle parti: cosa che accade quando il contratto pone prestazioni a carico esclusivo di una delle parti.

Dal quadro così delineato discende che il rapporto non corrispettività - gratuità si prospetta in maniera inversa rispetto a quello, già delineato tra corrispettività ed onerosità.

In tale rapporto la nozione di più vasta portata è quella della non corrispettività, perché abbraccia sia le fattispecie nelle quali le prestazioni siano a carico di una sola delle parti sia quelle nelle quali, pur essendovi prestazioni a carico di entrambi le parti, le stesse non siano avvinte da un nesso di corrispettività, mentre la gratuità, che si prospetta solo quando, essendo le prestazioni a carico di una sola delle parti, l'altra non sia chiamata a sacrifici di sorta, ha un ambito di operatività meno ampio e, quindi, si colloca come species nell'ambito del genus non corrispettività.

La donazione è un contratto non a prestazioni corrispettive ma non sempre si prospetta come contratto gratuito, dato che, quando sia modale, la presenza di una prestazione a carico del donatario osta a tale qualificazione.

Donazione e liberalità. Donazioni indirette

La donazione, oltre che nell'ambito dei contratti gratuiti, rientra nel novero delle liberalità.

L'inserimento della donazione tra le liberalità è proclamato, infatti, dal c. 1° dell'art. 809: «Le liberalità, anche se risultano da atti diversi da quelli previsti dall'art. 769, sono soggette alle stesse norme che regolano ...».

Per intendere la collocazione della donazione, si prospetta l'esigenza di intendere, in primo luogo, i rapporti tra non corrispettività, gratuità e liberalità, e poi le note che individuano la donazione rispetto alle altre liberalità.

Si è già puntualizzato che, se il discorso viene condotto con riguardo ai contratti, come dev'essere visto che la donazione è un contratto, la non corrispettività è concetto più ampio della gratuità (così come l'abbiamo intesa) perché ricomprende anche contratti con prestazioni a carico di entrambe le parti.

Nota comune a non corrispettività e gratuità è l'attitudine del contratto, nel programma negoziale, a determinare l'arricchimento di una delle parti: o perché il contratto pone prestazioni a carico di una sola parte (contratto gratuito) o perché, pur contemplando prestazioni per entrambe le parti, le stesse non sono collegate da un nesso di scambio e quelle di una delle parti risultano, nella concorde visione dei contraenti, prevalenti (contratto a prestazioni non corrispettive).

L'art. 809, c. 1° fa generico riferimento alle liberalità diverse dalla donazione con formula che sarebbe atta ad abbracciare anche la fattispecie dei contratti con funzione non corrispettiva.

Gli effetti che la norma riconduce a tali liberalità sono, peraltro, di natura tale da rendere arduo ipotizzarne l'applicazione ai contratti il cui tipo è connotato dalla non corrispettività delle prestazioni. Ciò basta ad escludere che il legislatore abbia potuto avere riguardo, nel dettare la norma, a questi contratti.

Se, sotto il cennato riguardo, l'ambito di applicazione della norma va ristretto rispetto alle potenzialità della sua formulazione, non par dubbio che questo ambito, sia per la formulazione della norma («atti» e non «contratti») sia per la ratio che la ispira, si estenda, al di là dei contratti, anche ai negozi unilaterali.

Per quanto riguarda i negozi unilaterali la distinzione della donazione rispetto agli stessi discende già dalla struttura, contrattuale, della prima.

Riguardo, invece, ai contratti la norma, espunti per la ragione sopra fatta valere quelli non a prestazioni corrispettive, non può che avere riguardo a contratti con prestazioni corrispettive, sicché, sotto il profilo della funzione, la distinzione tra la donazione e i contratti ricompresi nella previsione dell'art. 809, c. 1° appare netta, avendo la prima funzione non corrispettiva.

Resta da chiedersi, constatato ciò che divide, quale sia l'elemento di affinità tra la donazione e le liberalità contemplate dall'art. 809, c. 1° che giustifica l'applicazione alle seconde di talune delle disposizioni dettate per la prima.

Il tenore del richiamo induce ad individuare siffatto elemento nell'intento liberale. Va però puntualizzato che nelle liberalità non donative l'intento in questione non può assumere la stessa valenza che nella donazione: che ha funzione tipicamente (anche se non meramente) non corrispettiva. Nei contratti in questione la funzione è corrispettiva, sicché la sua proiezione soggettiva non può che essere rappresentata, all'opposto, che dall'intento di operare uno scambio tra prestazioni.

In essi, pertanto, l'intento di liberalità non può che degradare a motivo dell'agire: motivo al quale il legislatore ha, nel caso, attribuito eccezionalmente rilevanza per l'applicabilità di talune norme dettate per la donazione.

L'intento liberale presenta comunque, anche nelle liberalità diverse dalla donazione, sia pure degradato a motivo, le stesse connotazioni che abbiamo visto essergli proprie nella donazione: tra queste l'esigenza che sia perseguito un interesse non patrimoniale, con conseguente espunzione, dal novero delle fattispecie rientranti nella previsione dell'art. 809, c. 1°, c.c., di quelle nelle quali chi mira ad avvantaggiare l'altra parte è mosso dall'intento di soddisfare un proprio interesse patrimoniale.

Se l'intento liberale assume, nelle liberalità non donative, connotazioni diverse da quelle proprie dello «spirito di liberalità» non si deve trascurare che un'altra nota che, a tenore dell'art. 769, dovrebbe caratterizzare la donazione è l'arricchimento del donatario. Questa nota dovrebbe essere presente anche nelle liberalità non donative, visto il richiamo che l'art. 809, c. 1° fa all'art. 769, ma pur'essa si prospetta in maniera diversa.

Nella donazione, costituendo l'arricchimento una componente della funzione del contratto, deve ritenersi sufficiente che lo stesso si prospetti nel programma negoziale, a prescindere dal suo concreto realizzarsi.

Nelle liberalità contrattuali non donative, invece, costituisce un effetto del contratto, il cui realizzarsi è necessario perché l'art. 809, c. 1° possa trovare applicazione. Effetto voluto ma a livello di motivo dell'agire reso rilevante dalla norma: non atto, quindi, a caratterizzare la funzione del contratto, che è invece connotata dalla corrispettività.

Quanto al quesito se l'intento di arricchire una delle parti, spontaneamente nutrito dall'altra, debba, nel caso, essere comune ai contraenti ritengo che, essendo l'atto di provenienza bilaterale, la rilevanza del motivo sia necessariamente legata alla comunanza dell'intento. A ragionare diversamente si finirebbero con l'applicare norme limitative dei vantaggi discendenti dall'atto per il semplice realizzarsi dei vantaggi stessi, solo perché perseguiti dall'altra parte, senza tener conto che il vantaggio non era coessenziale alla funzione del contratto e non aveva neppure costituito l'oggetto di una motivazione condivisa.

Altro è chiedersi se per la condivisione del motivo debba richiedersi un'esplicita intesa tra i contraenti o basti la mera conoscenza dell'avvantaggiato che il vantaggio che riceverà dal contratto è motivo dell'agire dell'altra parte: direi che basti.

Tutte le liberalità, sono caratterizzate dalla circostanza che il loro autore, con l'attuarle, mira a soddisfare un proprio interesse non patrimoniale.

Per quanto riguarda la donazione, la distinzione dalle liberalità non contrattuali si fonda già sulla struttura contrattuale della donazione. Rispetto ai contratti che hanno una funzione liberale va affermata e delineata sulla scorta della diversità delle prestazioni con le quali la liberalità si realizza. Riguardo ai contratti non a prestazioni corrispettive che non realizzino una funzione di liberalità può affermarsi facendo leva sulla mancanza, nella donazione, di un interesse patrimoniale di chi dispone o si obbliga.

Tra le liberalità alle quali l'art. 809 ha riguardo rientra una pluralità indeterminata di fattispecie nelle quali, con atti diversi dalle donazioni ed aventi una loro autonoma funzione, si realizza, spontaneamente e per un interesse non patrimoniale di chi lo pone in essere, un vantaggio patrimoniale per un soggetto.

La nota comune con la donazione, quando si tratti di contratti, è rappresentata dalla finalità, che le parti perseguono, di avvantaggiare patrimonialmente una di esse per soddisfare un interesse non patrimoniale dell'altra. Dato, peraltro, che il vantaggio patrimoniale di una delle parti non rientra nella funzione propria del contratto posto in essere, questo intento, seppure comune, non può essere elevato a profilo soggettivo della causa del contratto ma costituisce motivo, reso normativamente rilevante dall'art. 809, mentre la funzione, connotata dalla corrispettività, nettamente si contrappone a quella della donazione, connotata dalla non corrispettività.

Si suole, con riguardo alle varie fattispecie rientranti nella previsione dall'art. 809, parlare di donazioni indirette, ravvisando nelle stesse una specie dei negozi indiretti.

Così operando, si fa ricorso ad un concetto, quello di negozio indiretto, assai discusso ma, ad avviso di che scrive, meritevole di utilizzazione, nei limiti in cui non costituisca strumento per attribuire rilevanza a motivi che sono rimasti estranei al negozio ma riguardi solo le ipotesi nelle quali sia perseguito un fine ulteriore, che risulti compatibile col tipo contrattuale in quanto non incida sulla realizzazione del corrispondente assetto d'interessi ma sia volto al conseguimento di risultati ulteriori.

Comunque, anche chi ritiene di fare ricorso alla categoria delle donazioni indirette esclude necessariamente che l'intento liberale caratterizzi la funzione del contratto, dato che il negozio indiretto è, appunto, connotato dall'impiego del negozio adottato per uno scopo ulteriore rispetto a quello suo tipico.

Donazione mista

Si suole adoperare il termine donazione mista (negotium mixtum cum donatione) per designare una fattispecie,necessariamente unitaria se le parti non abbiano operato puntuali distinzioni, nella quale si combinino i caratteri propri della donazione e di un contratto con prestazioni corrispettive.

Se infatti è vero che la fattispecie di donazione mista di gran lunga più frequente è quella nella quale la combinazione ha luogo con la compravendita, nelle due forme della vendita a prezzo più basso e della compera a prezzo più elevato, si deve riconoscere che la mistione si può avere anche con altri contratti con prestazione corrispettive il cui oggetto sia atto a costituire oggetto di donazione.

Perché la mistione si configuri occorrerà che la fattispecie presenti gli elementi che caratterizzano la donazione, in uno con elementi propri di un contratto a prestazioni corrispettive. Restano fuori le combinazioni tra donazione e negozi unilaterali, che non sono atte a dar luogo ad un unico contratto misto ma prospettano, semmai, un collegamento negoziale: così, nel caso che sia corrisposta, oltre al compenso dovuto, anche una somma ulteriore, a titolo di speciale rimunerazione, si configura un collegamento tra atto o negozio di adempimento e donazione.

È indispensabile, per la configurabilità di una donazione mista, che l'accordo sulla realizzazione di una liberalità sia entrato a far parte della struttura (propriamente del contenuto) del contratto con prestazioni corrispettive nel quale si inserisce, in modo da modificarne la funzione.

La presenza di un accordo così caratterizzato vale a distinguere la donazione mista dalla donazione indiretta, ove pure c'è accordo tra le parti sul perseguimento di uno scopo ulteriore rispetto alla realizzazione della funzione del contratto posto in essere ma l'accordo, pur integrando l'assetto di interessi perseguito, resta esterno al contenuto del contratto perché, se così non fosse, il risultato sarebbe direttamente realizzato dal contratto e la fattispecie non rientrerebbe nello schema del negozio indiretto.

Occorre altresì, per la configurabilità di una donazione mista, che l'accordo sulla liberalità si armonizzi con un intento oneroso, dando così vita ad un intento unitario, volto a realizzare un assetto di interessi composito, gratuito e, nel contempo, oneroso.

Se così non fosse, e l'intento liberale risultasse incompatibile con l'intento oneroso, la copresenza di due finalità inconciliabili finirebbe col prospettare due assetti di interessi incompatibili e, quindi, col paralizzare l'operatività del contratto.

A conclusione diversa si dovrebbe pervenire qualora l'accordo sulla liberalità, pur incompatibile con quello sull'onerosità, trovasse espressione fuori del contenuto del contratto, in una separata intesa. In tal caso suonerebbe come controdichiarazione e la fattispecie porrebbe in essere una simulazione relativa, sottostando alla conseguente disciplina.

Nella donazione mista, a differenza di quanto accade per la gran parte dei contratti misti e a somiglianza del comodato oneroso, la mistione non ha luogo tra prestazioni bensì tra onerosità e gratuità. Più puntualmente, essa si realizza tra causa della donazione (causa donandi) e causa del contratto con essa commista.

Un dubbio sulla stessa configurabilità di mistioni del genere potrebbe essere avanzato se si muovesse dall'assunto che gratuità ed onerosità costituiscano concetti contrapposti, come tali non suscettibili di combinazione nella stessa fattispecie.

Ma si tratterebbe di assunto arbitrario, potendosi bene ipotizzare, accanto a gratuità ed onerosità integrali, anche gratuità ed onerosità parziali.

Ciò che non sembra possibile, piuttosto, è individuare la misura in cui il concreto contratto è gratuito o è oneroso. Se i contraenti stessi non l'abbiano indicata, un accertamento del genere non appare praticabile perché la valutazione della presenza o della mancanza di un nesso di scambio tra le prestazioni è lasciata all'apprezzamento dei contraenti, che non può essere rimpiazzato da criteri oggettivi di stima.

L'impraticabilità di una partizione della prestazione in una parte gratuita ed un'altra onerosa fa sì che la fattispecie risulti interamente sussumibile in due schemi contrattuali tipici: com'è caratteristica propria dei contratti misti.

Nella donazione mista, infatti, la circostanza che il contratto preveda prestazioni a carico e a vantaggio di ciascuna delle parti non preclude l'inquadrabilità dello stesso nello schema donativo, che ricomprende anche la donazione modale.

Il contratto con prestazioni corrispettive, d'altro lato, è caratterizzato dalla circostanza che ciascuna delle prestazioni trova la sua ragion d'essere nell'altra, e non par dubbio, per quanto riguarda il contraente che nella donazione mista riceve più di quanto non dia, che l'esclusiva ragione della sua prestazione vada ravvisata nella prestazione dell'altro contraente. Pure nella donazione modale, peraltro, l'adempimento del modo trova, per il donatario, la sua esclusiva giustificazione nella prestazione del donante.

Il contraente poi, che, per concorde valutazione delle parti, si accolla la prestazione maggiormente onerosa mira certamente a conseguire due finalità distinte: ottenere la prestazione della controparte ed avvantaggiare la stessa. Ora, la finalità di avvantaggiare l'altra parte sarebbe inconciliabile con la possibilità di considerare corrispettiva la prestazione di questa solo se la corrispettività esigesse l'equivalenza, sia pure soggettiva, tra le prestazioni: il che non è. Occorre, per affermare l'esistenza del nesso di corrispettività tra due prestazioni, che l'una trovi la sua ragione determinante nell'altra. Ragione determinante non vuol dire ragione esclusiva e, nel caso di chi alieni un bene ad un prezzo inferiore al fine di avvantaggiare l'altra parte, non par dubbio, comunque, che questi, senza il pagamento del prezzo, non avrebbe attuato la propria prestazione. La prestazione, considerata nella sua inscindibile unitarietà, trova inoltre, per la parte che la attua, un'altra ragione determinante, anche se non esclusiva, nell'intento di avvantaggiare l'altra parte. Per fare un esempio, nel caso che A ceda a B per Euro 500.000 un appartamento che, per apprezzamento comune, vale il doppio, e ciò nell'intento di avvantaggiare B, sia la controprestazione di B che l'intento di A di avvantaggiare quest'ultimo costituiscono ragioni determinanti per la prestazione di A: questi, infatti, non avrebbe ceduto il bene a B senza il corrispettivo di Euro 500.000 e non lo avrebbe ceduto a quel prezzo se non avesse avuto anche lo scopo di avvantaggiare B.

La duplice sussumibilità della donazione mista nello schema della donazione ed in quello del contratto oneroso col quale la donazione è commista comporta la potenziale applicabilità della normativa di entrambi i contratti e l'esigenza di risolvere i conflitti che possano insorgere nell'ipotesi che norme dell'una risultino incompatibili con norme dell'altro, così come avviene per tutti i contratti misti.

Il predetto concorso di norme prospetta, quindi, anche con riguardo alla donazione mista, problemi applicativi, che saranno affrontati nel prosieguo della trattazione, sulla scorta dei criteri di risoluzione dei conflitti tra norme utilizzabili per i contratti misti, potendosi, sin da ora, affermare che alla donazione mista sono potenzialmente applicabili tutte le norme dettate per la donazione e che tale potenzialità trova limiti solo nelle ipotesi in cui si prospetti un conflitto con norme dettate per contratti con prestazioni corrispettive, la cui risoluzione porti a far prevalere queste ultime.

All'individuazione dei criteri utili alla soluzione dei conflitti di norme si è indirizzata, specialmente, la dottrina penalistica. I vari criteri dalla stessa proposti non si attagliano, peraltro, ai conflitti di norme che si prospettano nei contratti misti, ad eccezione del principio gerarchico, che può essere richiamato non solo nell'ipotesi di conflitto tra norme costituzionali e norme ordinarie ma, nell'ambito delle stesse norme ordinarie, allorché il conflitto si prospetti tra norme cogenti e norme dispositive, data la natura superiore dell'interesse tutelato dalle prime.

Riguardo, poi, a conflitti che si prospettino nell'ambito di norme cogenti e anche nell'ambito di norme dispositive il principio gerarchico porta ad una graduazione di prevalenza delle norme speciali su quelle generali. Nell'ambito delle norme cogenti, quelle che realizzino principi di ordine pubblico o principi costituzionali sono naturalmente sovraordinate alle altre. Se, infine, mancassero i presupposti per fare appello al principio gerarchico, il criterio di soluzione dovrebbe essere cercato soppesando gli interessi tutelati dalle norme in conflitto.

Note

(*) Per cortese autorizzazione dell'editore, omesse le note di riferimento bibliografico e giurisprudenziale, si pubblicano pagine che sono parte di capitolo della monografia «La donazione», compresa nel «Trattato di diritto privato» diretto da Mario Bessone, in corso di pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli.

(**) Professore ordinario di diritto civile nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università "La Sapienza" di Roma.

Data di pubblicazione: 6 marzo 2006.

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