Quali risposte istituzionali
al sovraffollamento delle carceri italiane? (*)
Massimo Siclari (**)
L'odierno incontro di studio offre l'occasione per riflettere su un tema che costituisce un banco di prova importante per le costituzioni liberaldemocratiche come la nostra, ispirata dai principi di eguaglianza e dignità umana. Una Costituzione che, forse, per questo verso, più che per altri, si è rivelata presbite (riprendendo la nota metafora di Calamandrei), avviando un processo del quale molte importanti tappe sono state raggiunte, ma ancora lontano dall'integrale attuazione.
Le notizie che quasi quotidianamente riceviamo sulla realtà carceraria in Italia sono molto preoccupanti: i giornali di questi giorni riferiscono di una popolazione carceraria che sta raggiungendo le 70.000 unità, a fronte di poco più di 40.000 posti nelle carceri; del fatto che circa il 50% delle persone attualmente in stato di detenzione è in attesa di giudizio; di oltre 20 suicidi in carcere dall'inizio dell'anno; della contestuale difficoltà di esercizio dei diritti e di governo delle carceri.
Le risposte che si propongono per porre fine all'attuale emergenza sono, da un lato, l'adozione di misure clemenziali, dall'altro, nell'ambito di un disegno di legge predisposto dal Ministro della Giustizia, la costruzione di nuove carceri e l'incremento del personale penitenziario.
Nessuna delle due proposte, da sola, può contribuire a risolvere il problema.
Senza contare che, per quanto riguarda le prime, peraltro, si può osservare come, nel tempo, si sia registrato un notevole decremento (probabilmente essendosi esaurita la funzione di "supplenza" del trattamento individualizzato svolta prima della riforma penitenziaria). La riforma del procedimento di concessione dell'amnistia e dell'indulto di cui all'art. 79 Cost., che in passato consentiva un frequente ricorso a tali provvedimenti (è stato calcolato che dall'Unità d'Italia al 1992 siano stati varati oltre trecento provvedimenti clemenziali di carattere generale, in media, più di due l'anno: cfr. M. Ainis, Se 50000 leggi vi sembran poche. Nel labirinto delle istituzioni, tra norme assurde e riforme impossibili, Milano, Mondadori, 1999, 7 ss.), ne rende assai difficile, oggi, l'approvazione, anche a causa dell'elevata maggioranza richiesta (2/3 su ciascun articolo e per la votazione finale sull'intera legge). Il solo, contestatissimo, indulto approvato nel 2006 è stato considerato da molti un esperimento fallito, anche se la percentuale di recidiva è stata assai bassa.
D'altro canto, anche i provvedimenti di clemenza individuale sono vertiginosamente diminuiti e si è passati dalle molte migliaia di grazie concesse da ciascun Capo dello Stato, dall'approvazione della Costituzione fino agli anni '70, alle poche decine decretate da Ciampi e Napolitano.
Comunque, l'approvazione di un'amnistia o di un'indulto (o di entrambe le misure) può essere utile solo a ridurre temporaneamente la popolazione carceraria. Ma, come si diceva, da sola non basta e non è inopportuna la proposta di accompagnarla con la costruzione di nuove carceri (che, tra l'altro, andrebbe avviata più per sostituire molte delle attuali fatiscenti strutture carcerarie, che non per aggiungervisi) e l'assunzione di nuove unità di personale (assai carente per quanto riguarda gli educatori: in proposito, v., da ultimo, L. Castellano - D. Stasio, Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, Milano, il Saggiatore, 2009, 81, che rilevano come ce ne siano solo 600 e come, anche in carceri modello, quale quello di Bollate, l'organico non sia al completo). Ma con quali tempi? Certo, se si pensa all'esempio del Carcere di Gela, progettato nel 1959, terminato nel 2007 e non ancora aperto, non sembra che questa sia una prospettiva che lasci ben sperare. E con quali finanziamenti, visto che in tanti, come altrettanti dischi rotti, ripetono che il personale delle pubbliche amministrazioni è troppo e non possiamo permettercelo?
Pure l'altra ipotesi avanzata nel disegno di legge Alfano sulle carceri, quella di concessione degli arresti domiciliari per l'ultimo anno di pena da scontare, si scontra con i problemi di scarsità di personale: il titolare degli Interni ha affermato, in questi giorni, «non siamo in grado di controllare le 10000 persone che andrebbero ai domiciliari» (cfr. gli articoli di L. Milella, Carceri, è scontro tra Maroni e Alfano, La repubblica, 6 maggio 2010, p. 23 nonché Un dissenso da un ministro formidabile sull'indulto mascherato, Il foglio, 7 maggio 2010, p. 3). E - anche se si superassero i dissensi all'interno del Consiglio dei ministri - il numero degli interessati non risolverebbe, certo, il problema del sovraffollamento.
Nessuna delle proposte, presa da sola, va bene; tutte assieme potrebbero arrecare benefici in tempi difficilmente prevedibili. Possibile che non vi sia altra strada per affrontare e superare l'"emergenza carceri"?
Sono convinto che si debba invertire l'ordine del discorso e invece di spuntare i rami più fronzuti, andare alle radici.
Le radici sono costituite dalle norme penali, che dovrebbero essere l'extrema ratio cui ricorre un ordinamento come il nostro, «il momento nel quale soltanto nell'impossibilità o nell'insufficienza dei rimedi previsti dagli altri rami è concesso al legislatore ordinario di negativamente incidere, a fini sanzionatori, sui più importanti beni del privato», secondo l'insegnamento della Corte costituzionale (v. sent. 25 maggio 1987, n. 189), e invece vengono invocate e approvate ad ogni piè sospinto. Il diritto penale, sempre secondo le statuizioni della Corte, dovrebbe essere «costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di "rilievo costituzionale" e tali da esser percepite anche in funzione di norme "extrapenali", di civiltà, effettivamente vigenti nell'ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare» (sent. 24 marzo 1988, n. 364). Un primo obiettivo, dunque è quello di recuperare il carattere "residuale" del Codice penale.
D'altro canto, se è vero che circa il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio, occorre riflettere sulla necessità di elaborare, legislativamente, dei criteri più restrittivi in ordine al ricorso alla carcerazione preventiva. Se la pena deve costituire, come si è appena ricordato, l'extrema ratio, la carcerazione preventiva deve essere adottata solo in via eccezionale.
Insomma, se si introdurranno corpose correzioni al diritto penale sostanziale e processuale l'intervento sulle carceri potrà essere effettuato in modo razionale e produttivo.
Quel che preoccupa è il contesto culturale in cui la problematica carceraria è, oggi, affrontata, un contesto caratterizzato non solo da un estremo (e forse anche esagerato) allarme sulla sicurezza, ma anche da un'opinione pubblica abituata a vedere nella sanzione penale la panacea per fronteggiare comportamenti ritenuti devianti.
D'altro canto, va maturando un'interpretazione profondamente divisa sui principi ed i valori ritenuti costituzionali. Ciò, di certo, non sarà di ausilio nell'auspicata opera di revisione della legislazione penale in direzione costituzionalmente orientata.
Sono difficoltà che vanno tenute presenti, esse, tuttavia, non debbono impedire di avviare un processo per migliorare la qualità della carcerazione e rendere la pena effettivo strumento di rieducazione sociale, come previsto dai costituenti, restituendo ai detenuti quella dignità umana che è solo il primo passo di un'efficace strategia rieducativa.
Note
(*) Contributo al Convegno "Diritti dei detenuti e Costituzione", svoltosi presso il Polo didattico dell'Università di Palermo in Trapani, l'8 maggio 2010.
(**) Professore ordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Scienze Politiche dell'Università Roma Tre.