Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 27 giugno 2000, n. 8733

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 23 novembre 1991 il parlamentare Sergio Flamigni conveniva davanti al tribunale di Roma il senatore Francesco Cossiga per sentirlo condannare in proprio e non nella qualità di Presidente della Repubblica al risarcimento dei danni nella misura di 500 milioni di lire (oltre ad una pena pecuniaria di pari importo ed alla pubblicazione della sentenza), per le ingiustificate e gravissime offese recategli dal medesimo ed integranti comportamenti astrattamente riconducibili alle ipotesi dei reati di diffamazione aggravata a mezzo stampa e televisione.

L'onorevole Flamigni, in particolare, faceva riferimento alle considerazioni offensive (tra cui: "Poveretto, dice un sacco di sciocchezze... non per cattiva volontà, ma per poca intelligenza") manifestate dal senatore Cossiga il giorno 11 ottobre 1991 ai giornalisti nel corso di una conferenza stampa tenutasi durante il viaggio aereo che lo riportava a Roma, dopo una visita ufficiale a Piacenza, delle quali considerazioni era stata data ampia diffusione dalla stampa e dalle televisioni nazionali.

Si costituiva il senatore Cossiga ed eccepiva l'improponibilità della domanda in quanto relativa a dichiarazioni rese nella qualità di Presidente della Repubblica e, quindi, coperte dal principio dell'irresponsabilità sancito dall'articolo 90, comma 1, Cost. In linea subordinata chiedeva la reiezione della domanda nel merito, perché le frasi pronunciate erano da valutarsi nell'ambito dell'acceso scontro politico intervenuto con l'onorevole Flamigni, per cui, in caso di accoglimento della richiesta di questi, esso convenuto richiedeva in via riconvenzionale il ristoro dei danni (pari ad un miliardo da devolversi in beneficenza) per il comportamento illecito del Flamigni attuato con le dichiarazioni in sede di Commissione parlamentare sul caso Moro e nel libro "La tela del Ragno - il delitto Moro", ove si era adombrato un collegamento tra il ministero dell'Interno (retto da esso Cossiga), Gelli, la loggia massonica P2 ed i servizi segreti.

Il tribunale di Roma, con sentenza del 14 maggio 1994 accoglieva la domanda e condannava il senatore Cossiga al risarcimento dei danni morali, quantificati in lire 40 milioni, oltre alla pubblicazione della sentenza ex articolo 120 c.p.c. ed alle spese del giudizio.

Riteneva il tribunale che per gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica fuori dall'esercizio delle sue funzioni, quali erano quelli in questione, il Presidente fosse responsabile come ogni cittadino e che nella fattispecie le espressioni usate dal presidente Cossiga erano denigratorie dell'onorevole Flamigni, costituendo diffamazione, e che esse trovavano origine dal suo dissenso personale con l'onorevole Flamigni.

Il senatore Cossiga proponeva appello alla Corte di appello di Roma.

Si costituiva e resisteva l'onorevole Flamigni, che proponeva anche appello incidentale.

La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 16 marzo 1998, in accoglimento dell'appello, dichiarava l'improponibilità della domanda dell'onorevole Flamigni.

Riteneva la Corte di merito che le espressioni usate dal senatore Cossiga avevano senza dubbio una portata volutamente offensiva dell'onore e del decoro dell'appellato, ma che tuttavia le stesse erano riconducibili alla sfera funzionale della carica di Presidente della Repubblica e che quindi si versasse nell'ipotesi dell'immunità prevista dell'articolo 90 Cost.

Riteneva la Corte che il carattere politico della funzione esercitata da tale organo non consentono di distinguere il munus dalla persona fisica e che il potere di formare la volontà dell'istituzione (nel che si sostanzia la pubblica funzione) è lasciato al potere valutativo dell'organo preposto, il quale poteva esprimere proprie valutazioni ed orientamenti, ritenuti, a suo insindacabile giudizio, indispensabili per la funzione di monito e di garante dei valori costituzionali. Riteneva la corte di merito che la figura pubblica assorbe la figura privata.

In ogni caso, secondo la corte di merito, la reazione verbale dell'appellante nei confronti dell'onorevole Flamigni andava considerata come reazione del titolare della Presidenza della Repubblica alla convocazione dell'onorevole Flamigni davanti alla riaperta Commissione parlamentare stragi, il tutto correlato alle posizioni critiche assunte dall'onorevole Flamigni nel saggio pubblicato, e quindi come reazione non privata, ma del titolare della Presidenza della Repubblica contro l'attacco infamante portato sostanzialmente all'istituzione stessa, come fisicamente da lui rappresentata.

Riteneva la Corte che, anche per evitare l'incongruenza di una immunità per il Presidente della Repubblica inferiore a quella dei parlamentari e per l'inammissibilità di un sindacato della condotta del Presidente, si doveva ritenere un'evoluzione in senso garantistico della immunità presidenziale relativa alle esternazioni presidenziali, che coprono anche funzioni non tipizzate, ma in qualche modo riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa, alla realizzazione dell'indirizzo politico istituzionale, ai poteri di stimolo o di persuasione, ai poteri di autotutela delle prerogative dell'istituzione presidenziale. Secondo la Corte le esternazioni, anche se assolutamente anomale nella forma e nel contenuto, dovevano essere apprezzate in modo elastico anche tenendo conto della situazione (ad es. di crisi) degli altri organismi di rilevanza politico-costituzionale, per cui doveva distinguersi tra tempi "normali" e tempi "eccezionali", quando gli attacchi (o ritenuti tali) all'indipendenza dell'organo lo spingevano verso una necessaria difesa.

Riteneva la Corte che il Presidente della Repubblica Cossiga "nel pieno della notoria sua strategia di picconamento delle istituzioni non si poteva non porre come persona del tutto credibile e degna di fede come uomo politico e servitore dello Stato dalle indiscusse ed indiscutibili qualità morali e personali: di qui (dal suo punto di vista) il comprensibile e doveroso annichilimento dei suoi avversari sul piano delle analoghe qualità personali...".

Secondo la Corte l'onorevole Flamigni aveva numerose volte nel suo libro "La tela del ragno" espresso opinioni negative sull'operato di Cossiga, quale ministro dell'Interno ai tempi dell'affare Moro e quindi la reazione del senatore Cossiga, con le espressioni oggetto di causa, non era dettata da motivi privatistici, ma sicuramente politici o pubblici, connessi alla carica in quel momento ricoperta. Le espressioni usate, prima ancora che di una situazione di legittima difesa, costituivano una forma di "autotutela" della carica ricoperta dal senatore Cossiga e quindi sussisteva il collegamento tra frasi obiettivamente offensive e funzione presidenziale in quel momento ricoperta dal senatore Cossiga.

Rilevava la Corte che, per quanto il senatore Cossiga fosso stato intervistato sull'aereo, al ritorno da un viaggio ufficiale, egli era Capo dello stato e che in tale spirito egli fece l'esternazione, per cui sussisteva l'immunità presidenziale per l'episodio predetto e quindi l'improponibilità della domanda risarcitoria.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l'onorevole Flamigni.

Resiste il senatore Cossiga con controricorso, che contiene anche ricorso incidentale; egli ha anche presentato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi a norma dell'articolo 335 c.p.c.

Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione degli articoli 24, 90, 101, comma 2 e 104 comma 1 Cost.; 8 e 10 legge 5 giugno 1999, n. 219, per avere la sentenza impugnata negato la possibilità logica e giuridica di qualsiasi valutazione di responsabilità del Capo dello Stato da parte della magistratura, negando di conseguenza l'autonomia e l'indipendenza della stessa in relazione al caso specifico e quindi la difesa in giudizio dei diritti dichiarati inviolabili dalla Costituzione.

Lamenta il ricorrente la violazione dell'articolo 138 Cost. e 15 disp. prel c.c. per avere la sentenza di appello considerati abrogati dalle pratiche esternatorie e dalla presunta acquiescenza degli altri organi costituzionali, gli articoli 90 Cost. e le altre norme della legge 219/99; nonché la violazione dell'articolo 112 c.p.c. e patente contraddittorietà della motivazione, per avere posto a base dell'accoglimento del primo motivo di appello del senatore Cossiga valutazioni favorevoli nel merito alla riconvenzionale ritenuta assorbita.

Infine il ricorrente censura l'impugnata sentenza, a norma dell'articolo 360 n. 5 c.p.c., per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.

Assume il ricorrente che è errata la premessa della sentenza, secondo cui il carattere politico delle funzioni monocratiche dello Stato-apparato non permetterebbe di distinguere il munus della persona fisica e che la figura pubblica assorbe la personalità privata del cittadino e che la titolarità dell'ufficio riconduce al ruolo pubblico anche le esternazioni rese uti civis.

Secondo il ricorrente nel nostro ordinamento, a differenza del precedente ordinamento monarchico, l'irresponsabilità del Capo dello stato non sussiste per gli atti compiuti uti civis, ma solo per quelli che oggettivamente sono connessi alle funzioni presidenziali; tanto risulta anche dagli articoli 9 e 10 legge 219/1989.

Secondo il ricorrente la sentenza impugnata finisce per cancellare ogni distinzione tra attività funzionali ed extrafunzionali ed erroneamente ritiene che le dichiarazioni del Presidente della Repubblica non possono considerarsi come espressione della comune libertà di manifestazione del pensiero, in quanto atti sempre collegabili alla funzione, stante l'assorbimento della personalità privata dalla figura pubblica; ed altrettanto erroneamente ha ritenuto che per effetto della modifica dell'articolo 68 Cost., si sia giunti ad un ampliamento delle immunità nei confronti dei parlamentari.

Il ricorrente, inoltre, censura l'impugnata sentenza nella parte in cui ritiene, sulla premessa che la reazione presidenziale era fondata non su interessi privatistici, ma pubblici, che la magistratura non possa conoscere della violazione di diritti dell'uomo costituzionalmente garantiti; che erroneamente il giudice di appello ha ritenuto che il tribunale avrebbe potuto accogliere la domanda risarcitoria, a seguito dell'eccepita immunità presidenziale, solo dopo aver sollevato conflitto di attribuzione, con esito a sé favorevole; che, in ogni caso, contraddittoriamente la sentenza di appello, pur a seguito di detta premessa, era scesa a valutare la fondatezza, o meno della tesi del senatore Cossiga ed aveva escluso la necessità del conflitto, solo perché riteneva sussistente l'immunità presidenziale.

1.2. Il resistente contesta la lettura della sentenza impugnata, data dal ricorrente e ritiene che il giudice di appello abbia fatto corretta applicazione dei principi di diritto, con congrua motivazione, che ritiene di condividere, salvo quanto costituisce oggetto del ricorso incidentale.

2.1. Osserva preliminarmente questa Corte che non possono accogliersi le due eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevato dal resistente.

Con la prima il resistente assume che sarebbe cessata la materia del contendere in merito al punto statuito in sentenza secondo cui la dichiarazione incriminata fu pronunciata dal senatore Cossiga nella qualità di Presidente della Repubblica, non essendo stato ciò oggetto di contestazione da parte del ricorrente.

Sennonché dal ricorso emerge con sufficiente chiarezza che il ricorrente censura proprio l'assunto che la dichiarazioni rese fossero atti funzionali del Presidente della Repubblica, coperti dall'immunità.

2.2. Con la seconda eccezione il resistente assume che il ricorso sarebbe inammissibile in quanto, pur avendo il ricorrente fatto riferimento ad un gran numero di norme violate, mancherebbero poi specifici motivi di censura.

Osserva questa Corte che l'indicazione, ai sensi, dell'articolo 366, n. 4, c.p.c., delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell'ammissibilità del ricorso per Cassazione, ma come elemento richiesto, al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di indicare i limiti dell'impugnazione, sicché sia l'erronea indicazione delle disposizioni di legge, sia la mancata esposizione e, all'opposto, l'esposizione sovrabbondante ed in parte non pertinente delle stesso, non comporta l'inammissibilità del gravame, ove gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme ed i principi che si assumono violati e rendano possibile la determinazione del quid disputandum (cfr. Cass. 28 settembre 1994, n. 7886).

Ne consegue che nella fattispecie non può ritenersi inammissibile il ricorso, per il solo fatto che, accanto all'indicazione nella rubrica del motivo di norme, assunte violate e in relazione alle quali sono stati esposti specifici motivi di censure, ne risultano indicate anche altre per le quali non vi sono eguali specifici motivi di censura e, che, quindi, appaiono non pertinenti alle doglianze poi sviluppate, poiché da dette doglianze emergono, invece, con chiarezza, le questioni da risolvere, sottoposte a questa Corte.

3.1. Osserva questa Corte che la decisione sulle censure mosse alla sentenza impugnata passa attraverso la soluzione di due problemi: i limiti dell'immunità del Presidente della Repubblica ed il potere di "esternazione" dello stesso.

Quanto al primo, l'articolo 90 della Costituzione statuisce che: "Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle due funzioni, tranne che per alto tradimento ed attentato alla Costituzione".

Il principio dell'irresponsabilità del Capo dello stato è un istituto tipico delle forme di governo parlamentare, il cui significato sta nella volontà del Costituente di tenere l'organo in questione al di fuori del gioco politico e, soprattutto, della funzione di governo. Secondo la comune opinione, l'immunità è posta a garanzia dell'indipendenza della funzione del Presidente della Repubblica.

Come è stato rilevato in dottrina, l'irresponsabilità del Capo dello stato è il logico corollario della particolare posizione che la Costituzione assegna allo stesso, avulsa da qualsiasi coinvolgimento in attività di indirizzo politico-amministrativo.

La Costituzione, infatti, delinea una figura di Presidente della Repubblica (connaturata all'adozione del sistema parlamentare) eminentemente rappresentativa e quale custode e garante della costituzione medesima, al di fuori della funzioni di Governo, ai cui membri, mediante la controfirma degli atti del Presidente della Repubblica, va imputata comunque la piena responsabilità degli atti medesimi; questi rispondono, quindi, non per fatto altrui, ma per fatto proprio, perché in realtà la decisione degli atti presidenziali è loro.

3.2. Vi è, pertanto, una profonda differenza tra lo Stato monarchico (articolo 4 Stat. Alb.), dove l'irresponsabilità del monarca era assoluta (la persona del re era "sacra ed inviolabile"), e, quindi, ratione personae, e lo Stato repubblicano, dove l'irresponsabilità del Presidente della Repubblica è strettamente connessa all'esercizio delle funzioni presidenziali, ed è, quindi, ratione materiae.

Il principio, affermato dall'articolo 90, comma 1, Cost., è infatti che l'immunità del Presidente della Repubblica copra solo gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, rimanendone invece fuori gli atti estranei a dette funzioni.

Il problema si pone sia in relazione alla responsabilità penale, che civile ed amministrativa.

3.3. La questione è stata esaminata dalla dottrina soprattutto con riferimento all'irresponsabilità penale, ma l'immunità presidenziale investe anche la responsabilità civile ed amministrativa.

Infatti, qualunque possa essere il contenuto dell'istituto dell'immunità (che secondo alcuni non è un istituto unitario, ma un complesso di situazioni nelle quali si verifica come risultato ultimo la sottrazione di un soggetto all'applicabilità della sanzione, di volta in volta, civile, penale o amministrativa), sta di fatto che la norma in esame tratta la questione sotto il profilo di una generale non responsabilità del Presidente, senza limitarla al solo ordinamento penale, per cui trattasi di una generale irresponsabilità giuridica (sia pure nei termini e nei limiti di cui all'articolo 90, comma 1, Cost.), che, conseguenzialmente, opera anche in sede civile ed amministrativa, oltre che in quella penale.

3.4. Né il problema è senza rilievo nella fattispecie di responsabilità aquiliana per danno morale, sulla considerazione che, a norma del combinato disposto degli articoli 2059 c.c. e 185 c.p., il presupposto di detto danno è l'esistenza di un reato, per cui, esclusa una responsabilità penale, rimarrebbe esclusa anche una responsabilità civile per il danno non patrimoniale.

Infatti, poiché la risarcibilità del danno non patrimoniale non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto come reato della legge penale (Cass. S.U. 6 dicembre 1992, n. 6651, in tema di reato commesso da incapace; Cass. 20 novembre 1990, n. 11195), la sola immunità penale non escluderebbe la responsabilità civile, se non a seguito dell'individuazione di una particolare natura giuridica di detta immunità.

Infatti, pur essendo pacifico che nella fattispecie si tratti di un'immunità sostanziale e non processuale, non sussiste eguale unanimità sulla natura della stessa.

Secondo alcuni, infatti, si tratta di un'incapacità penale, secondo altri di una causa personale di esclusione della pena (dottrina prevalente), ed infine, secondo altri ancora, di una causa di giustificazione riconducibile all'esercizio di un diritto o di un potere-dovere, posto che dal fondo di ogni immunità sostanziale affiora sempre la necessità di garantire il soddisfacimento di un interesse fondamentale per la vita dell'ordinamento, con prevalenza su eventuali contrapposti interessi di minore rilevanza.

Sennonché, se si aderisse alla prima o alla seconda teoria, in presenza della sola immunità penale il fatto rimarrebbe in astratto un reato e l'immunità lascerebbe sussistere l'illiceità penale del fatto e quindi la risarcibilità del danno morale, ed escluderebbe solo l'applicabilità della sanzione penale (non punibilità).

Solo aderendo al terzo orientamento (immunità penale come causa di giustificazione), la ricorrenza di questa escluderebbe il reato e quindi non sarebbe configurabile un danno morale (infatti la dottrina dominante propende per la tesi che le cause di giustificazione ineriscano alla struttura del reato, anche se con diverse sfumature all'interno di questa opzione dogmatica di fondo, e la stessa giurisprudenza civile di questa Corte, in tema di danno morale, condivide detta soluzione - Cass. 6 agosto 1997, n. 7274; Cass 14 febbraio 2000, n. 1643).

Tuttavia, poiché questa Corte ritiene che l'immunità del Presidente della Repubblica, quale delineata dall'articolo 90, comma 1, Cost., investa non solo la sua responsabilità penale, ma anche quella civile ed amministrativa, nel presente giudizio, per quanto attinente ad assunta responsabilità aquiliana per danno morale, non è necessario stabilire la natura dell'immunità penale, per poi trarne le dovute conseguenze in sede civile.

4.1. Ribadito, quindi, che l'immunità del Presidente della Repubblica, quale delineata dall'articolo 90 comma 1 Cost., copre ogni forma di responsabilità giuridica dello stesso per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, ne consegue che gli atti compiuti fuori da detto esercizio non vanno esenti da responsabilità.

Per questi ultimi vi è pertanto piena responsabilità del Presidente. In proposito la Costituzione tace, ma in sede costituente si ritenne pacifica detta responsabilità, per i fatti commessi fuori dall'esercizio delle funzioni, anche se essa non venne disciplinata solo "per ragioni di opportunità e di convenienza" [omissis].

4.2. Ciò è confermato dal diritto positivo (v. legge 25 gennaio 1962, n. 20; legge 10 maggio 1978, n. 170 e legge 5 giugno 1989, n. 219) ed è pacifico non solo in dottrina (salvo il problema, sostenuto da parte minoritaria, dell'improcedibilità durante il settennato, che però è contraddetto dal diritto positivo suddetto), ma anche tra le stesse parti di questo giudizio. Segnatamente l'articolo 80 comma 2, 3 e 4, legge 219/1989 prevede il caso dell'incompetenza del Comitato parlamentare per la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica in casi diversi da quello previsto dall'articolo 90 della Costituzione, con dichiarazione di incompetenza da parte del Comitato e trasmissione degli atti del procedimento all'Autorità giudiziaria.

L'articolo 9 comma 3, legge 219/1989 regolamenta l'ipotesi del conflitto (con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione) tra autorità giudiziaria ordinaria e comitato.

Nessun dubbio, quindi, vi è che possano esistere reati, commessi dal Presidente, di competenza dell'Autorità giudiziaria e che siano quelli commessi fuori dall'esercizio delle funzioni presidenziali.

5.1. Il problema che residua è quello di stabilire quando un atto rientri nelle funzioni del Presidente della Repubblica e quando ne sia fuori.

Secondo un orientamento restrittivo, che si fonda su una lettura congiunta degli articoli 89 e 90 Costituzione, poiché il Presidente è irresponsabile in quanto gli atti da lui emanati si riferiscono ad attribuzioni di altri organi, l'area immune sarebbe solo quella degli atti ufficiali controfirmati.

Secondo questa interpretazione la nozione di atto non può essere differente a seconda che si applichi l'una o l'altra disposizione, come avverrebbe se si sostenesse una nozione restrittiva a proposito dell'articolo 89, al fine di escludere i comportamenti (tra cui le esternazioni) dal novero degli atti per i quali la Costituzione imporrebbe la responsabilità ministeriale ed una nozione ampia a proposito dell'articolo 90, al fine di far rientrare comportamenti (tra cui la esternazioni) nell'ambito dell'irresponsabilità ivi sancita.

5.2. Secondo l'orientamento maggioritario, invece, l'articolo 90 Costituzione avrebbe una propria autonomia rispetto all'articolo 89, per cui l'irresponsabilità coprirebbe tutti gli atti del Presidente della Repubblica, purché compiuti nell'esercizio delle proprie funzioni (salva l'ipotesi di attentato alla Costituzione o di alto tradimento), giusta la lettera della legge.

La ratio stessa dell'irresponsabilità del Presidente, vista come garanzia dell'indipendenza della funzione, giustifica la stretta correlazione solo tra sfera immune e funzioni, alla cui libera esplicazione essa è preordinata.

Alla luce, quindi, di questa fondamentale esigenza di indipendenza del Presidente della Repubblica nell'esercizio delle sue funzioni, l'irresponsabilità dello stesso viene riferita, oltre che agli atti ufficiali controfirmati, ad ogni atto, dichiarazione o comportamento che trovi la sua causa nella funzione o in un fine ad essa inerente.

5.3. Quest'ultima corrente dottrinale, che propende per un ampliamento dell'area coperta da irresponsabilità, sembra da condividere.

L'articolo 90, comma 1, infatti non limita l'irresponsabilità presidenziale ai soli atti controfirmati, ma a quelli "compiuti nell'esercizio delle funzioni" presidenziali.

Peraltro, che degli atti controfirmati fosse responsabile il ministro proponente è già esplicitato nell'articolo 89, comma 1, Costituzione, per cui la lettura riduttiva dell'articolo 90 comma 1 (gli atti ivi indicati sono solo quelli di cui all'articolo 89) avrebbe un'impostazione tautologica.

Va, inoltre, sottolineato che le due norme (articoli 89 e 90) originariamente costituivano un solo articolo (articolo 85 del progetto di Costituzione), ma le stesse, nel testo definitivo, attualmente in vigore, risultano separate, il che ne rimarca l'autonomia.

In ogni caso non va ignorato che l'enucleazione di una categoria diversa di atti presidenziali rispetto a quelli previsti dall'articolo 89 Costituzione - su proposta e controfirmati - (a prescindere dalle critiche che le sono state mosse e dalla corrispondenza alla logica dei Costituenti) è stata convalidata dalla realtà dei rapporti costituzionali, tanto da far dire ad autorevole corrente dottrinale che "essa, seppure falsa in astratto, è stata inverata dai fatti".

6.1. Adottato, quindi, questo contenuto ampio delle funzioni presidenziali e, conseguenzialmente, della relativa irresponsabilità, il problema va esaminato, in questa sede, attesi i fatti controversi, solo in relazione al c.d. potere di esternazione o di messaggi liberi del Presidente.

La dottrina di gran lunga prevalente (confortata dalla prassi) ritiene, infatti, che accanto ai messaggi formali esistano i messaggi presidenziali liberi, nell'ambito dei quali può il Presidente della Repubblica scegliere tra la forma orale o quella scritta.

Da un lato, infatti, non ha avuto seguito una severissima dottrina, che voleva controfirmati tutti i messaggi presidenziali di qualsiasi tipo, discorsi pubblici inclusi, sia pura per la via traversa di un'autorizzazione preventiva espressa dal Governo (mentre è rimasta una pura finzione la teoria della controfirma tacita o in bianco), dall'altro lato all'irrilevanza della controfirma si è aggiunta la radicale mutazione del destinatario (non più o non sempre il Parlamento), cui corrisponde l'estrema varietà delle forme (spesso mezzi di comunicazione di massa).

In tal senso la più parte dei commentatori è incline a parlare più di facoltà di esternazione del Presidente che di potere di esternazione, collocandosi ad un livello che in sé non può dirsi decisionale ed a far leva, per giustificare l'uso della facoltà di esternazione, sulla qualifica di rappresentante dell'unità nazionale, conferita al Presidente dal comma 1 dell'articolo 87 Cost.

6.2. È infatti giustamente rimasta minoritaria la lettura di chi ravvisava e ravvisa in quel passo della Costituzione una formula semplicemente riassuntiva, che non aggiungerebbe nulla alla qualifica di Capo dello stato e non varrebbe comunque a fondare i "poteri personali del Presidente", ma starebbe solo a confermare l'unità e la continuità dell'apparato statale, già proclamate dall'articolo 5 Costituzione.

Per contro è da tempo prevalente l'opinione che il Capo dello stato impersoni "ciò che vi è di permanente, di superiore, di indiscusso, di comune a tutti nella vita nazionale": con la conseguenza che egli sarebbe l'interprete "degli interessi superiori della Nazione", come pure dei "fini costituzionali permanenti", ovvero "garante della Costituzione" o "organo di equilibrio costituzionale", così distaccandosi dai contingenti indirizzi politici governativi.

Ed è appunto nel comma primo dell'articolo 87 che viene perciò radicato il diritto del Presidente a "parlare in nome del Paese", anche al di là delle puntuali competenze affidategli dalla Costituzione, quale concepita dai Costituenti.

6.3. Il punto merita di essere condiviso in nome del diritto vivente.

Quest'ultima impostazione possiede, fra l'altro, il sicuro pregio di cogliere certe caratteristiche essenziali dell'attività pubblica-rappresentativa nel mondo contemporaneo, tenendo conto dell'enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione, inimmaginabili ai padri Costituenti.

Certo accade a questa stregua che la rappresentanza stessa si trasformi in "rappresentazione" dei bisogni e dei valori, generalmente condivisi della società civile, ma, come è stato autorevolmente osservato, "non potrebbe essere diversamente, a pena di impersonare il nulla, in luogo della Nazione nella sua unità".

Né vale obiettare che il diritto in questione è già proprio di ogni membro del Parlamento, in base al disposto dell'articolo 67 Costituzione. Infatti altro è rappresentare la Nazione, in quanto esenti da qualsiasi mandato imperativo, come si verifica nel caso di parlamentari, altro è invece rappresentare l'"unità" nazionale, sulla quale è invece imperniata la norma di cui all'articolo 87, comma 1, Cost.

Sennonché ciò che viene messo in risalto dalla più avvertita dottrina (anche quella che riconosce al Presidente della Repubblica una funzione di indirizzo politico costituzionale) è che il Presidente della Repubblica è pur sempre privo di "poteri attivi", collocandosi il c.d. potere di esternazione tra i poteri di stimolo o di impulso all'attuazione della Costituzione.

6.4. Inoltre, per quanto con riferimento a detta ampia accezione delle funzioni presidenziali, tratta dal 1° comma dell'articolo 87 Cost. (oltre, ovviamente, quelle di cui alle successive norme), occorre pur sempre, perché si abbia esercizio di dette funzioni, che l'attività espletata rientri tra quelle sopra elencate, non potendo parlarsi di una generica funzione presidenziale, al di fuori delle suddette ipotesi.

Infatti, la Corte costituzionale, per quanto trattando della diversa funzione del parlamentare, ha affermato il principio che: "Nel linguaggio e nel sistema della Costituzione, le "funzioni" riferite agli organi non indicano generiche finalità, ma riguardano ambiti e modi giuridicamente definiti: e questo vale anche per la funzione parlamentare, ancorché essa si connoti per il suo carattere non "specializzato"" (Corte costituzionale 17 gennaio 2000, n. 10).

7.1. Comunque si inquadri detto potere di esternazione del Presidente della Repubblica, sta di fatto che non è esso stesso una "funzione", ma è solo un mezzo, cioè uno dei possibili strumenti con cui il Presidente provvede all'esercizio di alcune funzioni presidenziali.

Non esiste, cioè, un potere di esternazione del Presidente della Repubblica, che sia l'equivalente del diritto di libertà di manifestazione del pensiero per il singolo cittadino a norma dell'articolo 21 Cost., il quale, proprio perché trattasi di un diritto, ha una propria autonomia ontologica. Questo articolo riguarda la libertà di manifestazione del pensiero delle persone private, non dei pubblici funzionari, in quanto tali.

Sotto questo profilo la posizione del Presidente della Repubblica non è diversa da quella propria di qualunque altro soggetto investito di cariche pubbliche.

Diversamente dai privati, i titolari di organi dello Stato si muovono nell'ottica del principio di "competenza".

I poteri che, conseguenzialmente, sono ad essi attribuiti, devono sempre essere funzionalmente esercitati per il perseguimento delle specifiche finalità costituzionalmente o legislativamente predeterminate e, comunque, nell'interesse generale.

In tanto è ammissibile un potere (o una facoltà) di esternazione del Presidente della Repubblica, in quanto esso sia strumentalmente diretto alla realizzazione di un compito presidenziale, pur nell'ampia accezione suddetta.

Dunque non è una posizione giuridica autosufficiente, come il diritto di libertà di manifestazione del pensiero per il singolo cittadino, autonomamente fondata ed indirizzabile a fini liberi (ed anche senza fini, in quanto trattandosi di un diritto è autoreferente), ma come potere, che ha carattere funzionale (o strumentale) all'esercizio delle funzioni tipiche presidenziali.

A ben vedere non si tratta neppure di un potere in senso stretto [omissis].

7.2. In quest'ottica si inquadrano anche le cosiddette "esternazioni accessorie".

L'ipotesi più ovvia è costituita dalle pubbliche dichiarazioni rivolte a chiarire il significato e le ragioni dei propri atti. Questo potere di chiarimento (se non proprio di motivazione, che farebbe pensare ad un dovere giuridicamente rilevante) è da ritenersi implicito nell'esercizio di funzioni che si svolgono in pubblico, come è proprio della democrazia.

Si può ritenere che questo "potere di chiarimento" sia collegato alla "responsabilità politica diffusa", alla quale tutti gli organi costituzionali, secondo una nota dottrina, soggiacciono.

Sotto questo aspetto si spiega che, in dottrina, molti autori abbiano insistito sul carattere necessariamente "funzionale" dei messaggi informali e delle esternazioni: nel senso che dette manifestazioni di pensiero dovrebbero comunque risultare collegate a specifiche funzioni esplicate o esplicabili dal Presidente della Repubblica in base al precetto costituzionale.

8.1. È quindi la qualità oggettivamente costituzionale della funzione esplicata che trasferisce sullo strumento usato (cioè sull'esternazione) la caratteristica di esternazione resa nell'ambito del potere presidenziale e quindi di esternazione funzionale.

Ciò non esclude che la persona fisica che ricopra la carica di Presidente della Repubblica, come ogni altro cittadino, goda del diritto di libertà di manifestazione del proprio pensiero.

Non vi sono certamente ragioni giuridiche per negare anche a detta persona fisica i diritti di cui all'articolo 21 Costituzione.

Non è infatti pensabile che le dichiarazioni rese dal Presidente in carica durante tutto l'arco della giornata ed in qualsiasi occasione siano di per sé tutte ascrivibili all'esercizio delle funzioni o collegabili con esse direttamente o indirettamente.

In tal modo opinando, l'irresponsabilità tornerebbe ad essere connessa non alla carica ma alla persona fisica (alla stregua dell'istituzione regia).

8.2. Né per superare detta concezione strettamente oggettiva del c.d. potere presidenziale di esternazione è sufficiente ritenere che qualunque espressione di pensiero di un organo costituzionale assume una "rilevanza politica" ovvero anche, come è stato detto, che "venendo da tale fonte, i messaggi sono ben altro che parole" ovvero che "una parola del presidente pesa sulla bilancia più di mille parole di ognuno di noi", con la conseguenza, seguita dalla sentenza impugnata, che la figura pubblica assorbe la personalità privata del cittadino/funzionario, assoggettando alle dichiarazioni connesse al ruolo pubblico, anche le esternazioni dichiaratamente espresse uti civis.

Tali assunti possono avere una qualche rilevanza per la c.d. responsabilità politica diffusa del Presidente della Repubblica (per chi aderisce a questa tesi), ma in questa sede si discute solo dei limiti della sua (ir)responsabilità giuridica, ed essa non può essere tratta che dal dato normativo, comportando un'esenzione dalla giurisdizione e, quindi, un'eccezione al sistema.

Risolto il problema nei termini che il messaggio informale o l'esternazione resi dalla persona fisica che ricopre la carica di Presidente della Repubblica, in tanto costituiscono manifestazione del c.d. potere presidenziale di esternazione, in quanto siano strumentali o accessori ad una funzione presidenziale, e quindi siano ad esso funzionalizzati, sia pure nei termini ampi sopra detti, rimane da esaminare il rapporto tra immunità presidenziale ed illeciti commessi con l'esternazione stessa.

9.1. In assenza di precedenti giurisprudenziali da parte della Corte costituzionale o della Suprema corte su questa specifica questione, pare opportuno al Collegio valorizzare in questa fattispecie i principi fissati dalla Corte costituzionale in tema di prerogative di cui all'articolo 68, comma 1 Cost., nei limiti in cui essi sono compatibili.

Il giudice delle leggi ha più volte affermato che la prerogativa di cui all'articolo 68, comma 1, Costituzione non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma solo quelle legate da "nesso funzionale" con le attività svolte "nella qualità" di membro delle Camere (sent. 375/1997, 289/1998, 329 e 417/1999; 24 marzo 2000, n.82; 15 febbraio 2000, n. 58; 15 febbraio 2000 n. 56).

Appare costante nella giurisprudenza costituzionale il criterio della necessità di un collegamento funzionale tra la manifestazione dell'opinione e la funzione parlamentare stessa, affinché l'immunità non si trasformi da esenzione di responsabilità, legata alla funzione, in privilegio personale.

La stessa Corte osserva che "non è possibile ricondurre nella sfera della funzione parlamentare l'intera attività politica dei membri delle camere, perché tale interpretazione allargata finirebbe per vanificare il requisito stesso del nesso funzionale trasformando la prerogativa in un privilegio personale" (Corte costituzionale 14 luglio 1999, n. 329).

Nel definire più specificatamente il nesso funzionale, con successive recenti sentenze (Corte costituzionale 17 gennaio 2000 n. 10 ed 11, ma i principi sono stati ribaditi anche dalle successive sentenze, 56, 58 ed 82/2000) è stato affermato che "la linea di confine tra la tutela dell'autonomia e della libertà delle Camere, e, a tal fine, della libertà di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall'espressioni di opinioni, dall'altro, è fissata dalla costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della prerogativa. Senza questa delimitazione l'applicazione della prerogativa la trasformerebbe in un privilegio personale (cfr. sentenza 375/1997), finendo per conferire ai parlamentari una sorta di statuto personale di favore, quanto all'ambito ed ai limiti della loro libertà di manifestazione del pensiero... Né si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una definizione della "funzione" del parlamentare così generica da ricomprendervi l'attività politica che egli svolga in qualsiasi sede, e nella quale la sua qualità di membro delle camere sia irrilevante".

9.3. Riportando i suddetti principi, nei limiti del compatibile, in tema di responsabilità presidenziale, deve affermarsi che il solo fatto che l'esternazione provenga dal Presidente della Repubblica non è di per sé sufficiente a farla ritenere coperta dall'immunità presidenziale, in assenza di una specifica funzione presidenziale, cui detta esternazione sia finalizzata.

Va subito specificato che il fatto che l'esternazione contenga una diffamazione di per sé non è elemento sufficiente a porre la stessa fuori dalla funzione presidenziale.

Se ciò fosse, l'immunità non opererebbe mai, in quanto la sola presenza dell'illecito reciderebbe il carattere funzionale dell'atto, mentre l'operatività dell'immunità presuppone proprio l'esistenza dell'illecito.

Contemporaneamente non si può estendere l'immunità oltre la funzione.

Conseguentemente appare inaccettabile la tesi, ormai datata, secondo cui basterebbe un mero rapporto di contestualità cronologica e cioè il semplice fatto che l'atto o il comportamento illecito sia posto in essere mentre il Presidente è temporalmente nell'esercizio delle sue funzioni o in occasione delle medesime.

In questo caso, infatti, l'irresponsabilità è scollegata dalla funzione e da eventuali specifiche esigenze della medesima e finisce per costituire un privilegio, mandando esenti da responsabilità non illeciti consumati nell'esercizio della funzioni, ma atti arbitrari concomitanti.

9.4. Tra queste suddette due soluzioni estreme, si pone quella che il Collegio ritiene esatta: e cioè quella di estendere l'immunità a tutti e soltanto gli atti o comportamenti (nella specie all'esternazioni) che si inseriscano nell'esercizio della funzioni di ufficio, nel senso cioè che ne costituiscono un'estrinsecazione modale.

Nei limiti in cui serve a garanzia di indipendenza della funzione, va quindi affermata un'irresponsabilità del Presidente strettamente congiunta allo svolgimento della sua attività purché sia funzionale alla stessa.

Detta irresponsabilità riguarda gli illeciti (nella specie consumati con l'esternazione) commessi non certo in occasione, per mezzo o nel tempo della funzione, ma solo a causa della medesima e per un fine ad essa inerente. I limiti quindi sono quelli relativi alle stesse attribuzioni del Capo dello stato, allo spazio ed alle ragioni di intervento a lui consentiti dal sistema costituzionale, come si è venuto adeguando sulla base del diritto vivente.

10.1. Sulla base di questi principi, ritiene questa Corte che il ricorso principale sia fondato e che la sentenza impugnata, che non si è ispirata ai suddetti principi, sia errata in diritto.

La sentenza inizia l'esame del caso concreto, impostando il problema in termini di "libertà di opinione dei titolari degli organi monocratici dello Stato" (pag. 20).

Già questa impostazione è errata.

Qui non si discute se i titolari di organi pubblici, tra cui anche quelli di rilevanza costituzionale, si muovano in un'ottica di libertà, allorché esercitano le proprie funzioni ovvero di doverosità (problema tuttora controverso tra i costituzionalisti).

Inoltre, come si è visto, il potere (o la facoltà) di esternazione del Presidente della Repubblica non è assimilabile, né sotto il profilo strutturale né sotto quello funzionale, al diritto di libera manifestazione del pensiero del privato cittadino.

Il problema consiste in quali siano i limiti di detto potere di esternazione (con la relativa immunità), allorché esso confligge con altri valori costituzionalmente garantiti (risolto da questa Corte nel termini sopra detti).

10.2. Anche la premessa su cui si fonda tutta la sentenza è errata: e cioè che, dato il carattere politico della funzione di tale organo, non sia possibile distinguere la persona fisica dal munus, per farne discendere la soggezione a diverse forme di responsabilità.

Non è vero, infatti, che la persona fisica si dissolva nell'organo che rappresenta.

Essa è e rimane centro di imputazione di differenti situazioni giuridiche (diritti, doveri, responsabilità ecc.) che, poiché non si trasferiscono all'organo, e contemporaneamente non scompaiono nel nulla, né vanno in "quiescenza" durante il settennato, evidentemente rimangono in capo alla persona fisica, che continua come tale ad esistere anche giuridicamente.

Come risulta più chiaro nel corso della sentenza impugnata, vengono assimilate le figure di organo, titolare dell'organo e persona fisica, cui è conferita la titolarità dell'organo. Secondo la più accreditata dottrina, l'organo, invece, si compone dell'elemento assegnazione della funzione e dell'elemento assegnazione di prestazioni reali e personali, tra cui quella della persona fisica titolare dell'organo (ove si tratti di organo monocratico).

I due elementi sono scindibili sotto il profilo strutturale, ma non sotto quello funzionale, nel senso che l'organo non può esistere senza titolare, e che il titolare dell'organo non può esistere senza l'organo, mentre la persona fisica esiste anche senza la titolarità dell'organo.

10.3. Diversa questione è quella rilevata dalla sentenza successivamente, secondo cui la persona fisica, attraverso la quale l'organo della Presidenza della Repubblica opera, "si immedesima in esso al che non è dato distinguere la volontà dell'uno che non sia la volontà dell'altro, allorché essa attui o eserciti le funzioni proprie dell'istituzione e quelle strumentali all'attuazione ed alla conservazione delle medesime.

Anzitutto, qui, correttamente la sentenza limita detta immedesimazione al momento dell'esercizio delle funzioni, e solo in questo momento si può convenire che non sia possibile scindere le due volontà. Ma ciò dipende dal fatto che, trattandosi di un organo monocratico, il momento formativo della volontà è tutto all'interno della sola persona fisica e non sottoposto ad un procedimento esterno particolare, come nel caso in cui il titolare dell'organo sia un collegio.

L'affermazione contenuta in sentenza secondo cui "la pubblica figura assorbe la personalità privata del cittadino/funzionario", non è condivisibile nella sua assolutezza, ma solo sulla base e nei limiti di una necessaria premessa: e cioè che si versi in ipotesi di esercizio delle funzioni dell'organo.

Sennonché il giudice di appello, fondandosi sul suddetto principio e su quello della continuità del munus, ritiene che il carattere permanente della funzione pubblica permetta ad insindacabile giudizio del soggetto che ricopra tali funzioni, l'esercizio della stesso ed all'uopo richiama una sentenza di questa Corte (II Sez. pen.) del 17 giugno 1960, Garruti, per poi trarne l'errata conseguenza che "la titolarità dell'ufficio riconduce al ruolo pubblico ed alla relativa disciplina funzionale anche le esternazioni dichiaratamente espresse uti civis e che non è concepibile che il funzionario abbandoni la veste pubblica e manifesti il suo pensiero in regime di piena libertà come qualunque cittadino".

10.4. Va all'uopo osservato, anzitutto, che la dottrina e la giurisprudenza hanno da moltissimo tempo abbandonato il principio che la figura del pubblico ufficiale sia da individuare sulla base di connotazione soggettiva, dovendo invece rilevarsi solo sulla base oggettiva della funzione effettivamente esercitata (principi che, pur costituendo già patrimonio acquisito dell'ordinamento, anche in sede penale, hanno poi trovato un riscontro, nell'articolo 17 della legge 26 aprile 1990 n. 86, che nel modificare l'articolo 357 c.p. ha stabilito che "sono pubblici ufficiali coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa giudiziaria o amministrativa", norma che in effetti è stata ricognitiva dell'esistente).

Il concetto di funzione non si identifica nell'astratta possibilità di agire in vista di un fine o per un effetto - nel che si ravvisa per altro verso esattamente l'attività - quanto piuttosto si identifica nel concreto svolgersi di tale attività, in vista della realizzazione di un fine. La funzione, cioè, è il farsi o il concretarsi del potere nell'atto singolo, ossia il momento dell'agire.

Da ciò deriva che il carattere permanente della funzione pubblica non ha il significato di un continuo esercizio in concreto di essa, bensì implica solo che coloro che ne sono investiti possono in qualunque momento intervenire per esercitare le proprie funzioni, ove ne ricorrano le circostanze (Cass. pen., Sez. I, 9 dicembre 1993, 11298, Siller).

10.5. La Corte di merito a tal proposito, fa riferimento ad un'insindacabilità del giudizio del funzionario, in merito all'intervento, senza che tale potere valutativo sia condizionato alla diversa opinione o volontà di coloro che vi sono soggetti.

Sennonché è vero che l'opinione di chi è assoggettato ad un pubblico potere non può condizionare la formazione di volontà di questi ma non è vero che non sia sindacabile la valutazione se esistevano o meno le circostanze per l'esercizio della funzione.

A parte, come detto, la questione se i pubblici poteri possano agire in un'ottica di libertà e non invece di doverosità, al funzionario non è rimessa la valutazione dei limiti legali in astratto della sua funzione, ma solo se in concreto ricorrano la circostanze perché egli eserciti la funzione.

Infatti questa valutazione in concreto delle circostanze legittimanti l'esercizio della funzione, è sindacabile, salvo gli effetti della putatività in favore del funzionario che avesse ritenuto esistenti circostanze fattuali, che in effetti non vi erano, ma non in favore del soggetto che avesse ritenuto esistenti poteri di azione, che in effetti non aveva, poiché, in questo caso, avendo oltrepassato i limiti astratti della funzione, si è fuori della putatività fattuale ed ogni errore si risolve in errore di diritto, come tale generalmente irrilevante (cfr. articolo 47, ultimo comma, c.p., ed i principi in tema di errore su norma extrapenale, integratrice del precetto penale).

11. Né ha consistenza l'osservazione della sentenza impugnata a sostegno dell'inscindibilità dell'operato della persona fisica da quello del Presidente della Repubblica, fondata sul rilievo che attraverso questa via si giungerebbe ad un inammissibile sindacato sulla condotta del Presidente della Repubblica, prospettando come extrafunzionale una condotta obiettivamente funzionale.

Infatti come rilevato nella fattispecie dai giudici di merito ed in analogia a quanto previsto per le immunità parlamentari (concernenti appunto le attività "funzionali" dei parlamentari collidenti con le attribuzioni dell'Autorità giudiziaria ordinaria), tenuto conto della posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, è configurabile la sussistenza di un potere valutativo da parte di detto organo costituzionale circa l'operatività dell'irresponsabilità, salvo il potere dell'Autorità giudiziaria di sollevare conflitto di attribuzione per menomazione innanzi alla corte Costituzionale, alla luce dei principi in senso ampliativo dell'ambito di attivabilità di tale tipo di conflitto (cfr. Corte costituzionale 18 luglio 1998, n. 289; Corte costituzionale 10, 11, 56, 58, 82/2000).

Occorre, però che detta valutazione, idonea a fondare il conflitto, costituisca pur sempre un atto valutativo emesso e proveniente nelle forme di legge dal Presidente della Repubblica, quale organo costituzionale, non essendo sufficiente, come invece erroneamente ritenuto, un'eccezione in tal senso effettuata nella comparsa di risposta difensiva. Questa, infatti, rimane pur sempre anzitutto un atto processuale e non un atto formale di diritto costituzionale, del Presidente della Repubblica.

12.1. È, invece, esatto, per i motivi sopra detti, l'assunto contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui si è avuto un superamento della responsabilità presidenziale quale configurata dal Costituente (e cioè limitata agli atti di cui all'articolo 89 Costituzione), essendo essa allargata a tutti gli atti compiuti dal presidente nell'esercizio della sue funzioni (lettura autonoma dell'articolo 90, 1° comma Costituzione).

Sennonché, come sopra detto, l'irresponsabilità è collegata pur sempre ad atti funzionali e non a quelli extrafunzionali.

È anche esatto che il Presidente, come, ogni altro titolare di organo pubblico, valuta se in concreto ricorrano le circostanze per l'esercizio delle funzioni, cioè valuta la situazione fattuale-giuridica; può anche ritenersi esatto (seguendo la tesi dell'azione degli organi costituzionali in ottica di libertà) che egli possa anche decidere se, come e quando intervenire.

Ciò che non è esatto è che il Presidente possa decidere in astratto quali siano le sue funzioni.

Esse sono inevitabilmente ed esclusivamente quelle previste dalle norme costituzionali, sia pure integrate dalle prassi applicative, che, allorché sono in armonia con il sistema costituzionale, contribuiscono ad integrare le norme costituzionali scritte ed a definire la posizione degli organi costituzionali alla stregua di principi e regole non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi, vale a dire nella forma di vere e proprie consuetudini costituzionali (Corte costituzionale 19 gennaio 1996, n. 7).

È certamente da condividere, per i motivi sopra detti, anche un'interpretazione estensiva di dette funzioni, segnatamente per effetto di un'interpretazione estensiva dell'articolo 97, comma 1, Costituzione, ma occorre pur, sempre che dette funzioni trovino riscontro nella norma costituzionale.

12.2. Se per dette funzioni non vi è una base normativa (sia pura integrata dalle prassi applicative), non può ritenersi fondata l'equazione che, per il solo fatto che l'atto provenga dalla persone fisica cui è affidata la titolarità dell'organo, esso è atto autoreferente come funzionale del Presidente della Repubblica.

Questa concezione soggettiva (e non oggettiva) della funzione non trova riscontro nella norma costituzionale né più in generale nell'ordinamento.

Infatti anzitutto già la norma costituzionale (articolo 90, comma 1) limitando l'irresponsabilità del Presidente della Repubblica ai soli atti compiuti nell'esercizio della funzioni, lascia chiaramente intendere che vi sono atti dello stesso (rectius della persona fisica che ne ha la titolarità dell'organo) che non rientrano nelle funzioni presidenziali.

Inoltre proprio dagli articoli 8 e 9 legge 219/1989, emerge che vi sono atti che, non rientrando nelle funzioni del Presidente della Repubblica, vanno ascritti alla persona fisica, che ha la titolarità dell'organo.

Ne consegue che erroneamente la sentenza impugnata ritiene che per il solo fatto della continuità del munus del Presidente della Repubblica, ogni manifestazione di pensiero della persona fisica sia anche manifestazione di pensiero del titolare dell'organo e quindi sia esercizio di funzioni, beneficiando dell'immunità di cui all'articolo 90, comma 1, Costituzione.

13.1. Anzitutto, come sopra si è detto, l'esternazione costituisce solo uno strumento per l'esercizio delle funzioni presidenziali e non essa stessa una funzione presidenziale.

Si può ammettere che la prassi ha legittimato un potere di esternazione del Presidente della Repubblica, ma detta esternazione deve sempre essere finalizzata ad un'attività funzionale del Presidente, sia pure negli ampi spazi suddetti.

13.2. Né è vero che possa configurarsi un atteggiamento elastico delle immunità, distinguendo tra tempi "normali" e tempi "eccezionali", che consentirebbero all'occasione di "deviare dai limiti ordinari", come sostiene la sentenza impugnata.

Ciò potrà essere rilevante in tema di responsabilità politica diffusa, per chi ritiene sussistente detta responsabilità per il Presidente della Repubblica, ma in questa sede si discute solo della responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica, che va esaminata sulla base dell'esatta interpretazione della legge, non influenzabile da valutazione se i tempi siano "normali" o "eccezionali".

L'eccezionalità dei tempi potrà essere presa in considerazione dal legislatore per una legislazione c.d. di "emergenza" (ed anche questo non è pacifico), ma non dall'interprete, a qualsiasi livello, della norma.

Fermo il discrimine tra atti funzionali e quelli non funzionali, nei termini sopra detti, diversa questione è che l'esercizio delle funzioni può essere adeguato alle circostanze concrete.

13.3. Egualmente è errato l'assunto dell'impugnata sentenza secondo cui un'interpretazione diversa da quella ivi proposta sarebbe incongrua poiché comporterebbe che l'immunità del Presidente della Repubblica sarebbe rimasta del tutto immutabile ed inferiore rispetto a quella dei parlamentari, pur aventi un rango costituzionale non sovraordinato rispetto al primo, in quanto per questi ultimi dall'immediatezza dell'azione penale si sarebbe passati alla necessaria pregiudiziale deliberazione della Camera competente sulla funzionalità o meno della condotta.

Come è noto, invece, la Corte costituzionale ha affermato espressamente che il comma 1° dell'articolo 68 non attribuisce alla Camere un potere di tipo autorizzativo il cui esercizio condizioni l'esplicazione della funzione giurisdizionale e che in tema di responsabilità dei membri del Parlamento non esiste una "pregiudizialità parlamentare", che impedisca all'Autorità giudiziaria di procedere senza la determinazione della camera interessata.

La determinazione della Camera, semmai, può intervenire solo al fine di opporre al giudice procedente, la copertura di cui all'articolo 68, comma 1, Costituzione ed avverso tale determinazione è ammesso il sindacato del giudice costituzionale, adito in sedo di conflitto di attribuzione per menomazione dal giudice procedente (Corte costituzionale 265/97; ordd. 177, 178, 179/1988).

14.1. Sennonché la sentenza impugnata, pur avendo erroneamente ritenuto nella prima parte che la figura pubblica assorbe la personalità privata del cittadino-funzionario, per cui ogni manifestazione di pensiero di quest'ultimo ed è per ciò solo manifestazione di pensiero del Presidente, ed avendo, per tale via, ritenuto l'operatività dell'immunità presidenziale, nella seconda parte individua un collegamento funzionale tra le esternazioni del presidente Cossiga ed una forma di "autotutela" della carica.

Ritiene testualmente la sentenza impugnata che "la reazione offensiva tesa a demolire la credibilità dell'avversario medesimo mediante la denigrazione delle capacità professionali, di giudizio e di obiettività, della persona fisica Flamigni, prima ancora di una legittima difesa, scriminante in quanto tale la persona fisica del Presidente titolare dell'organo, va valutata principalmente come una forma di "autotutela" della carica ricoperta dal senatore Cossiga in quel momento, ovvero un tentativo di affermare per tale via la perdurante legittimità e la piena funzionalità dell'alto Ufficio rispetto alla comunità nazionale".

In relazione all'episodio per cui è causa, la sentenza individua la causale della reazione offensiva del senatore Cossiga nel comportamento dell'onorevole Flamigni "avversario ritenuto come intenzionato ad attaccare, in occasione della riapertura del delitto Moro davanti alla Commissione stragi, le qualità morali e di affidabilità della persona fisica-Presidente anche (se non solo) al fine di mettere in discussione la legittimità a ricoprire la carica più elevata dello stato...".

14.2. Questa causale in astratto può inquadrarsi in un'esternazione finalizzata ad un'autodifesa da quello che la sentenza impugnata qualifica come "attacco comunque infamante" portato alla "persona fisica - Presidente".

14.3. Sennonché questa impostazione non è esaustiva della questione, ma comporta la soluzione di altro problema a monte, consistente nel ricercare nell'ordinamento le forme di tutela dell'integrità delle competenze presidenziali consone alle caratteristiche di indipendenza, di irresponsabilità e, di particolarissima posizione, di detto organo costituzionale e di attivare, più in generale, le forme di difesa dello stesso, previste dall'ordinamento.

In altri termini, lì dove l'ordinamento già assegna, in relazione a specifiche ipotesi, ad altri organi istituzionali la difesa del Presidente della Repubblica, questa funzione va esercitata da quegli organi, rientrando nelle competenze funzionali degli stessi.

Non si può escludere, tuttavia, anche una forma di "autodifesa" del Presidente della Repubblica, ma essa, come tutte le forme di autodifesa prevista dall'ordinamento, ha un carattere residuale, e riguarda o la particolare ipotesi in cui la difesa del Presidente della Repubblica non rientri nei compiti funzionali di altro organo istituzionale ovvero i casi, in cui esigenze oggettive impongano di rispondere con immediatezza ed urgenza ad attacchi diretti all'organo presidenziale, per riaffermare le sue competenze ovvero per respingere offese attuali al decoro ed al prestigio dell'istituzione.

Segnatamente, per quanto attiene alle offese all'onore ed al prestigio del Presidente della Repubblica, integrando esse un reato (articolo 278 c.p.), gli organi, in senso ampio, preposti alla difesa dell'istituzione, sono quelli giurisdizionali ed il ministro della Giustizia, la cui autorizzazione è condizione di procedibilità dell'azione penale (articolo 313 c.p. e 343 c.p.p.). rimanendo salva l'autodifesa presidenziale nell'ipotesi residuale in cui le oggettive circostanze concrete impongano l'immediatezza nel respingere gli attacchi offensivi.

La sentenza impugnata, che ha invece ritenuto operativa sempre ed in ogni caso una funzione di "autotutela" presidenziale e non nei termini suddetti è errata in diritto.

14.4. L'altro fondamentale problema, ai fini dell'immunità presidenziale, attiene a chi sia il soggetto "tutelato" dalla difesa posta in essere direttamente dal Presidente della Repubblica, una volta ritenuto che persona fisica ed organo non si identificano (contrariamente a quanto assunto dalla sentenza impugnata).

A tal fine va osservato che l'autotutela che il Presidente della Repubblica può compiere, quale funzione propria della Presidenza, attiene appunto all'organo e non alla persona fisica.

Pertanto se l'attacco è portato non al titolare della Presidenza della Repubblica, in quanto tale, ma alla persona fisica, ovvero alla stessa in quanto in precedenza titolare di altro organo, non può ritenersi che rientri tra le funzioni presidenziali, anche quella della difesa di individuali diverse posizioni.

Queste individuali, specifiche e separate posizioni potranno essere tutelate dal singolo interessato, ma non quale Presidente della Repubblica, e quindi con il beneficio dell'immunità di cui all'articolo 90, comma 1, Costituzione, poiché, in quest'ultimo caso, le prerogative presidenziali sarebbero utilizzate non per l'autotutela dell'organo costituzionale, ma di un soggetto fisico ben individuato, ovvero di un altro organo.

14.5. Non si può escludere, in linea di principio, che l'attacco portato alla persona fisica, titolare dell'organo della Presidenza della Repubblica voglia in effetti surrettiziamente investire lo stesso Presidente della Repubblica in quanto tale, e cioè quale organo costituzionale, nel qual caso ben si rientrerebbe in un'ipotesi di autotutela da parte di questo, essendo l'obiettivo ultimo dell'azione dannosa.

Sennonché questo paesaggio non è automatico.

La sentenza impugnata non ha colto questo punto (e non poteva coglierlo, data la sua opzione dogmatica di fondo della piena identificazione tra persona fisica, titolare dell'organo ed organo monocratico) ed ha erroneamente ritenuto che la tutela della persona fisica del senatore Cossiga e quella del Presidente della Repubblica coincidessero, con la conseguenza che per le esternazioni in questione, per quanto obiettivamente offensive, nei confronti dell'onorevole Flamigni, sussistesse l'irresponsabilità presidenziale di cui al cit. articolo 90 , comma 1 Cost.

È vero che la sentenza impugnata a pag. 24 e 25 osserva che: "la reazione verbale dell'appellante in occasione dell'incontro con i giornalisti... in nessun caso si sarebbe potuta considerare come dettata da motivi meramente privati, sebbene come reazione... del titolare dell'istituzione più elevata della Repubblica all'attacco comunque infamante (attinente alla questione Moro) portato all'istituzione stessa, così come fisicamente da lui rappresentata". Ma ciò non è risolutivo.

Infatti la sentenza impugnata individua un unico "attacco infamante portato all'istituzione ed alla persona fisica che la rappresentava" (il che è coerente con l'impostazione data), mentre avrebbe dovuto accertare se detta azione dell'onorevole Flamigni era relativa alla persona del senatore Cossiga ovvero al Presidente della Repubblica, quale organo costituzionale, ovvero se, pur essendo relativa a fatti che investivano il senatore Cossiga, tuttavia si trasferiva sul Presidente della Repubblica, ma ciò non in termini di puro automatismo, ma perché era quest'ultimo l'obiettivo ultimo dell'"attacco infamante".

14.6. Il fatto poi che la sentenza ritenga che la reazione dell'allora presidente Cossiga non fosse stata determinata da motivi personali ma dall'intento di tutela dell'istituzione presidenziale, non è da solo sufficiente a far ritenere sussistente l'immunità presidenziale, potendo svolgere la sua rilevanza solo sotto il profilo della putatività della stessa, una volta risolte le questioni attinenti alla natura giuridica di detto istituto, come sopra detto.

15. Inoltre ed indipendentemente dalle tematiche connesse all'"autotutela", la sentenza impugnata non ha valutato se le esternazioni effettuate dal senatore Cossiga, nell'occasione predetta, fossero funzionalmente correlate alla difesa del decoro e del prestigio della Presidenza della Repubblica.

Infatti, avendo il giudice di appello ritenuta l'offensività dell'esternazione, per poter ritenere sussistente l'irresponsabilità presidenziale, detto giudice avrebbe dovuto accertare che trattavasi di illecito commesso non certo in occasione, per mezzo o nel tempo della funzione di "autotutela" della Presidenza della Repubblica, ma solo a causa della medesima e per un fine ad essa inerente e che quindi si trattava di un'estrinsecazione modale di tale funzione.

Il ricorso principale va, pertanto, accolto.

16. Con il ricorso incidentale condizionato il ricorrente incidentale lamenta che la sentenza impugnata con motivazione contraddittoria, pur ritenendo le dichiarazioni di esso ricorrente incidentale di portata offensiva e di significato volutamente denigratorio e che esse furono pronunziate per resistere ad attacchi alla persona fisica titolare dell'alta carica, non ha valutato che le stesse furono pronunziate nell'ambito di una doverosa critica politica.

17.1. Il ricorso incidentale è fondato, nei termini che seguono.

Poiché con il motivo si assume che, prima ancora di esaminare se alla fattispecie fosse applicabile l'articolo 90 Cost., la Corte ha qualificato il fatto come offensivo, senza esaminare se, invece, si vertesse in ipotesi di esercizio del diritto di critica politica, come tale escludente l'antigiuridicità del fatto, ne consegue che, benché la censura sembri prospettata come vizio motivazionale, in effetti impinge anche nella doglianza di violazione (mancata applicazione) di norma di legge (articolo 51 c.p., sull'esimente dell'esercizio di un diritto, nella specie quello di critica politica), nell'ambito della quale norma il caso doveva essere sussunto.

La Corte di merito ha ritenuto obiettivamente offensive le seguenti espressioni del senatore Cossiga, relative all'onorevole Flamigni: "...Poveretto, diceva un sacco di sciocchezza.... e sciocchezze non le diceva per cattiva volontà, ma per povertà di intelligenza".

Giova premettere che la valutazione del carattere diffamatorio o non di uno scritto o di altra manifestazione del pensiero si pone, per il giudice che deve adottarla, come valutazione di un fatto: falsificazione o manipolazione della considerazione che la qualità di una persona determinata hanno in un certo contesto sociale.

Nel compiere questa valutazione il giudice ha l'obbligo di dare una ragione sufficiente al suo convincimento; egli è libero di scegliere il convincimento che ritiene più, giusto, ma deve fondarlo rispettando i canoni metodologici che l'ordinamento pone in maniera espressa o implicita.

Il canone metodologico da adottare in questa sede è quello descritto dall'articolo 360 n. 5 c.p.c., secondo il quale la decisione impugnata deve essere motivata su tutti i punti decisivi della controversia.

Ciò, comporta che la violazione di questi canoni è l'unico motivo posto a fondamento del sindacato di legittimità, e che è esclusa ogni rivalutazione del fatto; una rivalutazione, cioè, del convincimento che su questo si è formato nella coscienza di chi l'ha formulato.

Quello che deve essere valutato non è il fatto dell'avvenuta alterazione dell'opinione sociale sull'onore di una determinata persona, ma il metodo seguito dal giudice del merito, ovvero le regole sul metodo del giudizio di fatto che è stato concretamente formulato per giungere alla soluzione criticata (Cass. 7 ottobre 1997, n. 9743).

Trattasi di valutazioni in fatto, che sono immuni da censure rilevabili in questa sede di legittimità, risultando adeguatamente motivate, non potendo questa Corte costituire la sua valutazione a quella del giudice di merito.

Nella fattispecie il giudice di merito ha ritenuto che "le suddette espressioni, hanno senza dubbio un'obiettiva portata offensiva dell'onore e del decoro dell'appellato Flamigni, essendo evidente in esse (nel contesto in cui furono pronunciate), il significato volutamente denigratorio della dignità e della reputazione, personale, familiare, sociale e professionale politica di quest'ultimo".

L'articolo 360 n. 5 c.p.c. non conferisce a questa Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatti dal giudice di merito, al quale soltanto spetta il ricostruire e valutare il fatto ed individuare le fonti del proprio convincimento.

17.2. Sennonché, una volta ritenuto che la persona fisica che ricopre la carica di Presidente della Repubblica non si identifica con lo stesso e che le manifestazioni di pensiero della prima non sono necessariamente anche esternazioni del secondo, per cui il primo può risponderne personalmente senza poter invocare l'irresponsabilità del Presidente della Repubblica, ovviamente ne deriva che il primo potrà però beneficiare delle esimenti che sono proprie di ogni cittadino. Tra queste esimenti, in tema di diffamazione, vi è quella della critica politica.

Questa esimente incontra limiti ben precisi.

Ciò che fa venir meno l'illiceità della condotta diffamatoria non è il diritto di critica in quanto tale ma quella critica che costituisca un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con l'interesse pubblico o sociale attribuibile alla critica, quando si rivolge a soggetti, che tengono comportamenti o svolgono attività che richiamino su di essi l'attenzione dell'opinione pubblica (Cass., 22 gennaio 1996, n. 465).

La critica politica può anche assumere toni più pungenti ed incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali tra privati (Cass. Sez. V. pen., 21 ottobre 1994, n. 12013) e, poiché l'obiettività dei fatti attiene alla cronaca, e quindi ai fatti posti a base della critica, e non a questa in quanto tale, che rimane pur sempre una valutazione (Cass. 22 gennaio 1996, n. 465), detta critica politica può anche essere di parte e non necessariamente obiettiva.

Tuttavia, anche nella critica politica, ciò che determina l'abuso del diritto (e quindi ne costituisce un limite al legittimo esercizio) è la gratuità delle espressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione, e quindi senza alcuna finalità di pubblico interesse, con l'uso dell'argomentum ad hominem, inteso a screditare l'avversario politico mediante l'evocazione di una sua pretesa indegnità o l'inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi o le azioni (Cass. pen., Sez. V, 7 luglio 1998, n. 7990; Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 1999).

In altri termini il legittimo esercizio della critica politica, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non deve trasmodare nell'attacco personale e nella pura contumelia e non deve ledere il diritto altrui all'integrità morale, perché, se non si riportano tali limiti, la competizione politica diventa un'occasione per aggredire la reputazione altrui (Cass. pen. 18 dicembre 1997, n. 1905; Cass. pen., Sez. V, 15 maggio 1987, n. 6160, Pippucci).

Il valutare se nella fattispecie vi sia stato esercizio del diritto di critica politica, se questo esercizio sia stato legittimo e se ne siano stati rispettati i limiti, trattandosi di valutazione di merito, rientra nei compiti esclusivi del giudice del merito. Il giudice di appello, pur ritenendo, con valutazione in fatto incensurabile in questa sede, che le espressioni fossero diffamatorie e che queste costituivano reazione agli attacchi portati, non ha valutato se ricorresse l'esimente del legittimo esercizio della critica politica e se i limiti scriminanti della stessa fossero stati superati.

18. Pertanto va accolto il ricorso principale nonché il ricorso incidentale. L'impugnata sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio anche per la spese di questo giudizio di legittimità ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai seguenti principi di diritto:

a) Ai sensi dell'articolo 90 c. 1 Costituzione l'immunità del Presidente della Repubblica (che attiene sia alla responsabilità penale che civile o amministrativa), copre solo gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni (nelle quali rientrano, oltre quelle previste dall'articolo 89 Costituzione anche quelle di cui all'articolo 87 Costituzione, tra le quali la stessa rappresentanza dell'unità nazionale) e non quelli "extrafunzionali"; né la continuità del munus comporta che l'immunità riguardi ogni atto compiuto dalla persona che ha la titolarità dell'organo per quanto monocratico.

b) Tra le funzioni del Presidente della Repubblica, coperte dall'immunità, può annoverarsi anche l'"autodifesa" dell'organo costituzionale, ma solo allorché l'ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nel caso in cui oggettive circostanze concrete impongano l'immediatezza dell'autodifesa.

c) L'autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l'atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione.

d) Pur non essendo il Presidente della Repubblica vincolato ad esprimersi solo con messaggi formali (controfirmati a norma dell'articolo 89 Cost.), il suo c.d. "potere di esternazione", che non è equiparabile alla libera manifestazione del pensiero di cui all'articolo 21 Cost., non integra di per sé una funzione, per cui è necessario che l'esternazione sia strumentale o accessoria ad una funzione presidenziale, perché possa beneficiare dell'immunità.

e) Le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di un'esternazione presidenziale beneficiano dell'immunità solo se commesse "a causa" della funzione, e cioè come estrinsecazione modale della stessa, non essendo sufficiente la mera contestualità cronologica, che dà luogo solo ad atto arbitrario concomitante.

f) Il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell'attacco personale e nella pura contumelia, con lesione del diritto di altri all'integrità morale.

P.Q.M.

La Corte di cassazione riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale nonché il ricorso incidentale. Cassa, in relazione ai motivi accolti, l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.