Consiglio di Stato
Sezione V
Sentenza 16 giugno 2003, n. 3373
FATTO
Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso proposto dalla Eurowaste s.r.l. (già Ecoltech s.r.l.) avverso il diniego espresso dal Comune di Melito sulla domanda, avanzata ai sensi dell'art. 6 della legge n. 537 del 1993, come modificato dall'art. 44 della legge n. 724 del 1994, di adeguamento revisionale del corrispettivo previsto per il servizio di raccolta, trasporto, spezzamento e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilati nel detto Comune.
Il TAR ha ritenuto che la normativa invocata non fosse applicabile alla fattispecie perché il servizio di smaltimento dei rifiuti urbani e assimilati è un servizio pubblico, e come tale da gestirsi, secondo la previsione dell'art. 8 del d.P.R. n. 915 del 1982 e dell'art. 22 della legge n. 142 del 1990, tramite concessione e non mediante contratti di appalto, mentre la clausola revisionale sarebbe stata prevista obbligatoriamente solo per i contratti di appalto e non anche per i contratti accessivi ad una concessione di pubblico servizio, nei quali al contrario si assume vigente il principio della invariabilità del canone.
Nella specie il capitolato speciale di appalto confermerebbe tale conclusione avendo previsto una clausola di non rivedibilità del prezzo.
Neppure sarebbe applicabile alla fattispecie l'art. 1339 c.c., avente riguardo alla inserzione automatica nel contratto di clausole imposte dalla legge, perché la pretesa clausola sarebbe priva del requisito della determinatezza.
È stata anche negata la fondatezza della pretesa ad un incremento del corrispettivo in conseguenza dell'aumento della popolazione, secondo la previsione dell'art. 10 del capitolato, affermandosi che non è stato provato il necessario presupposto, ossia che l'impresa abbia dovuto adeguare mezzi e personale rispetto a quelli inizialmente previsti.
Egualmente non provate sono state considerate le ulteriori pretese per errori di calcolo e trattenute indebite.
Avverso la sentenza l'Impresa ha proposto appello chiedendone la riforma.
Il Comune di Melito si è costituito per resistere al gravame.
Alla pubblica udienza del 18 marzo 2003 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. L'Impresa appellante, aggiudicataria della raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilati in base a procedura concorsuale svoltasi nel 1996, e titolare del servizio in base a contratto triennale del 27 gennaio 1997, successivamente prorogato, rivendica il diritto alla revisione del corrispettivo contrattuale a norma dell'art. 6 della legge n. 537 del 1993, come modificato dall'art. 44 della legge n. 724 del 1994.
Il TAR ha rigettato il ricorso, affermando che la norma invocata è applicabile in caso di contratto di appalto ma non riguarda i rapporti concessori, come deve considerarsi quello in essere nella specie, poiché i servizi pubblici comunali debbono essere conferiti in concessione a norma dell'art. 8 del d.P.R. n. 915 del 1982 e dell'art. 22 della legge n. 142 del 1990.
Osserva il Collegio che, mentre è assai dubbio, come si vedrà più avanti, che nella specie sia stata posta in essere una concessione di pubblico servizio e non un appalto, la determinazione della precisa natura giuridica del rapporto si rivela irrilevante alla stregua delle considerazioni che seguono.
Come la giurisprudenza ha avuto modo di osservare (Cons. St., Sez. VI, 21 aprile 2001, n. 2434), l'istituto della revisione prezzi, previsto dall'art. 33 della legge 28 febbraio 1986 n. 41, venne soppresso nel 1992 (d.l. n. 333 del 1992, conv. nella l. n. 339 del 1992) con norma che rendeva manifesto il disfavore del legislatore per tale istituto, che esponeva le pubbliche amministrazioni a sopportare oneri sopraggiunti, impedendo la predisposizione di un affidabile e concreto piano finanziario di spesa. Si era negli anni in cui il Paese ha affrontato in maniera energica il problema del disavanzo pubblico in vista della partecipazione all'Unione Europea.
L'anno successivo, infatti, l'art. 6 della legge n. 537 del 1993 ha previsto, nello stesso spirito, il divieto di rinnovo tacito dei contratti, atteso che attraverso tale strumento si venivano a perpetuare nel tempo pattuizioni pregresse, non più rispondenti alla realtà economica, quale poteva delinearsi per effetto dell'introduzione formale nell'ordinamento, con la legge n. 287 del 1990, del principio di libera concorrenza.
Può notarsi che nella stesura originaria, anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 724 del 1994, l'unica deroga al divieto di rinnovazione tacita fosse costituita dall'ipotesi in cui fosse concordata una riduzione del prezzo del 10% rispetto a quello anteriormente convenuto, e che, parallelamente, fosse condotto, rispetto ai contratti non ancora stipulati, un giudizio di congruità, con la previsione della non approvazione di quelli ritenuti non congrui, per i quali l'altro contraente non avesse accettato la riduzione.
È in questo contesto che la medesima legge "finanziaria" ha stabilito anche l'obbligo di inserzione della clausola di revisione periodica del prezzo per tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa, al fine primario di consentire, nell'intereresse dell'Amministrazione, di controllare che il corrispettivo pattuito si mantenesse conforme, nel tempo, ai parametri di riferimento. La norma, infatti, nella stesura originaria, prevedeva che, qualora il prezzo si discostasse da detti parametri, esso era soggetto a revisione, salvo il diritto di recesso dell'altra parte (nel qual caso si sarebbe proceduto ad una nuova aggiudicazione sulla base del prezzo ritenuto congruo).
La stesura di cui all'art. 44 della legge n. 724 del 1994 ha riprodotto il testo precedente, sopprimendo soltanto la possibilità di recesso, e prevedendo la sostituzione del prezzo convenuto inizialmente con il "miglior prezzo di mercato" in base ai dati offerti dall'ISTAT a norma del successivo comma 6 e seguenti.
Risulta dunque evidente che sia il divieto di rinnovazione automatica di cui al comma 2, sia l'obbligo di inserimento della clausola revisionale, prevista dal comma 4 del medesimo art. 6, rispondono ad una stessa esigenza e perseguono un identico scopo, ossia garantire la correttezza del rapporto sinallagmatico nell'ambito di tutti contratti di cui è parte la Pubblica Amministrazione, indipendentemente dal tipo di scelta gestionale, appalto o concessione, effettuata dall'Amministrazione medesima.
Il comma 2 citato, infatti, a proposito del divieto di rinnovazione automatica, si riferisce espressamente ai contratti "per la fornitura di beni e servizi", precisando "ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi". E non si vede la ragione per la quale il concorrente istituto della clausola revisionale non debba riguardare anche i contratti accessivi a rapporto concessorio, caratterizzati, come nella specie, da esborso di pubblico denaro per la corresponsione di un prezzo del servizio reso in favore dell'Ente pubblico, come soggetto esponenziale di una determinata collettività.
E ciò non solo perché il comma 4, con il termine "tutti", sottolinea oggettivamente l'intenzione del legislatore di estendere l'istituto della revisione a ogni ipotesi di contratto di durata a prestazioni corrispettive di cui sia parte l'Amministrazione, ma anche perché la tesi contraria all'adeguamento revisionale del prezzo, accolta dai primi giudici in ragione della natura necessariamente concessoria del rapporto, non tiene conto dell'evoluzione introdotta nella materia dal recepimento della Direttiva CEE 92/50 ad opera del d.lgs. n. 157 del 1995.
Quest'ultima fonte, infatti, disciplina l'aggiudicazione "degli appalti dei servizi di cui all'allegato 1" (art. 1), nel quale al n. 16 è menzionato il servizio di eliminazione dei rifiuti, che, tramite il riferimento al n. 94 della classificazione CPC (Central Product Classification), adottata dalla Direttiva CEE, integra esattamente il servizio per cui è causa.
D'altra parte, la circostanza che l'art. 1664 c.c. preveda la revisione del prezzo nell'ambito della disciplina del contratto di appalto, non impedisce che una diversa e pariordinata fonte normativa regoli in termini diversi la fattispecie. La Sezione ha affermato, infatti, con recenti e meditate decisioni (8 maggio 2002 n. 2461; 19 febbraio 2003 n. 916), che per i contratti ad esecuzione periodica o continuativa di cui è parte la Pubblica amministrazione la disciplina della revisione del prezzo dettata dall'art. 6 della legge n. 537 del 1993 ha carattere di specialità e prevale su quella di cui all'art. 1664 c.c.
Egualmente inappropriato risulta il riferimento all'art. 265 del r.d. 1175 del 1931. La norma, infatti, si riferisce all'importo che il soggetto privato deve corrispondere all'Amministrazione, in luogo della partecipazione dell'ente pubblico agli utili dell'impresa, quale canone per la concessione del servizio pubblico. Ma è ben chiaro che si tratta di situazione assolutamente opposta a quella in esame, in cui è il Comune a corrispondere un prezzo all'Impresa per lo svolgimento del servizio.
In aggiunta alla circostanza suddetta, numerosi sono gli indizi formali che nella specie l'Amministrazione non abbia inteso assentire una concessione, ove si consideri che le disposizioni del contratto, dell'annesso capitolato speciale, fanno costante ed esclusivo riferimento all'appalto.
Può dunque concludersi sul punto affermando che nessun ostacolo al richiesto adeguamento revisionale ex art. 6 della legge n. 537/1993 può farsi derivare dalla pretesa natura concessoria del rapporto intercorso tra l'appellante l'Amministrazione.
2. Con diversa argomentazione la decisione ha sostenuto che nella specie non potrebbe farsi applicazione neppure dell'art. 1339 c.c., in quanto la clausola di revisione periodica prevista dall'art. 6 cit. sarebbe priva dei necessari caratteri di specificazione e concretezza, onde si renderebbe comunque necessaria una apposita attività di integrazione rimessa alla volontà delle parti, che nella specie, invece, si è espressa in senso contrario alla revisione del prezzo, con l'art. 9 del Capitolato speciale di appalto.
La tesi va disattesa.
La giurisprudenza della Sezione (n. 2461 e n. 2712 del 2002; n. 916 del 2003, cit.) è ferma nel ritenere che l'art. 6 della legge n. 537 del 1993, come modificata dall'art. 44 della l. 724 del 1994, è norma che detta una disciplina speciale in materia di revisione prezzi, la quale ha natura imperativa che si impone nelle pattuizioni considerate modificando ed integrando la volontà delle parti contrastante con la stessa. Ne consegue che le clausole difformi contenute nei contratti della tipologia presa in considerazione sono nulle per contrasto con norma imperativa. La nullità evidentemente non investe l'intero contratto in applicazione del principio utile per inutile non vitiatur di cui all'art. 1419 c.c., ma colpisce la clausola contrastante con la norma considerata, nella specie l'art. 9 del capitolato speciale.
È stato anche osservato (sent. n. 2461 del 2002) come non sia di ostacolo all'inserzione automatica della clausola revisionale la circostanza che la detta clausola non abbia un contenuto determinato, ma determinabile.
Tale orientamento merita consenso. Non può dirsi, infatti, che nella specie si versi in ipotesi di clausola di contenuto indeterminato, che richieda una ulteriore manifestazione di volontà delle parti e di incontro dei consensi.
È noto che l'art. 6 in esame, mentre afferma il diritto della parte alla revisione, detta anche il criterio e il procedimento in base al quale pervenire alla determinazione oggettiva del "miglior prezzo contrattuale", demandando all'Istat la relativa indagine semestrale sui dati risultanti dal complesso delle aggiudicazione dei beni e servizi.
La mancanza di tale attività da parte dell'Istat ha fatto sì che la norma trovi applicazione con il parametro della variazione dei prezzi stimati sui consumi delle famiglie di operai e impiegati (indice F.O.I.).
E dunque deve concludersi che la disciplina della clausola revisionale reca anche un contenuto sicuramente determinabile in base a parametri oggettivi che ne consentono l'applicazione diretta a norma dell'art. 1339 c.c., come affermato dalla richiamata giurisprudenza.
Va dunque affermato il diritto dell'Impresa appellante all'importo alla revisione secondo il computo effettuato dal dr. Tutino in qualità di perito incaricato dal comune di Melito. Sebbene l'appellante abbia richiesto somma maggiore, l'Amministrazione ha contestato la correttezza dei relativi conteggi con la memoria prodotta dinanzi ai primi giudici il 28 giugno 2001, e le dette argomentazioni non hanno ricevuto specifica contestazione.
Sulle somme andranno corrisposti gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla data di maturazione del credito fino all'effettivo pagamento.
3. Ulteriore capo di domanda riguarda la variazione del prezzo contrattuale per l'incremento demografico verificatosi durante il periodo di durata contrattuale, a norma dell'art. 10 lett. B del Capitolato speciale di appalto.
Il diritto ad un maggior prezzo viene riconosciuto, dalla detta disposizione, in caso di incremento demografico superiore al 10% rispetto alla popolazione residente al momento dell'aggiudicazione e sempre che l'Impresa provveda ad adeguare i mezzi ed il personale necessari all'espletamento del servizio.
Mentre sull'incremento demografico non sussiste contrasto, l'Amministrazione, con deliberazione della G.M. n. 86 del 24 maggio 2001 e relazione del responsabile del servizio 15 giugno 2001, ha negato che l'appellante abbia adempiuto all'onere di adeguamento della propria struttura con riguardo alle unità di personale, che, anziché essere assunte, sono state utilizzate con prestazioni straordinarie.
L'appellante ha impugnato in prime cure con motivi aggiunti gli atti suddetti, per violazione del capitolato, ed eccesso di potere sotto diversi profili, in relazione alla circostanza che, riconoscendosi avvenuto l'incremento della popolazione e l'adeguamento del numero degli automezzi e dei cassonetti, appariva illogico e pretestuoso negare validità all'incremento delle ore di lavoro effettuate con prestazioni straordinarie.
La tesi dell'appellante merita accoglimento.
Va segnalato in primo luogo che il responsabile del procedimento, con ben due relazioni rivolte al Segretario Generale del Comune in data 5 e 9 aprile 2001, ha analiticamente dimostrato che l'Impresa aveva provveduto a fare fronte alle esigenze di incremento del servizio in dipendenza dell'aumento della popolazione, sia sul piano della attrezzatura materia sia con riguardo al numero delle giornate lavorative.
Lo stesso funzionario in data 15 giugno 2001, recependo un apprezzamento della G.C. in proposito, e senza comunque smentire la circostanze in precedenza affermate circa lo svolgimento del servizio, ha riconsiderato la questione, negando che potesse ritenersi sussistente il requisito dell'adeguamento del personale, in quanto alle nuove esigenze l'Impresa ha fatto fronte con prestazioni di lavoro straordinario.
Tale relazione ha poi determinato i rilievi formulati dal Prefetto con nota del 19 luglio 2001 a proposito della deliberazione di G.M. n. 113 del 4 luglio 2001, che aveva comunque riconosciuto il maggior prezzo in dipendenza dell'incrementi della popolazione.
Il rifiuto dell'Amministrazione di corrispondere il detto corrispettivo più favorevole si rivela illegittimo per errata applicazione del Capitolato e per eccesso di potere, sotto il profilo della contraddittorietà e dell'illogicità e dell'insufficienza della motivazione.
La norma di capitolato esprime chiaramente di volere riconoscere all'appaltatore un corrispettivo adeguato alla prestazione resa, e di garantire l'incremento del prezzo quando la prestazione diventa più onerosa, considerando specificamente l'ipotesi dell'aumento della popolazione residente. Si richiede, peraltro, che l'appaltatore dimostri di aver svolto il servizio cui si è obbligato con comportamenti concreti, ossia migliorando l'attrezzatura e impiegando il personale necessario a soddisfare l'accresciuta entità della prestazione.
Tutto questo nella specie, per riconoscimento non smentito del responsabile del Servizio raccolta, è avvenuto, e, pertanto, la decisione di non ristorare l'appaltatore del maggior onere sostenuto per la semplice ragione che questi, pur avendo applicato nel Comune di Melito personale di altra area, anziché assumere nuovo personale si è avvalso di prestazioni di lavoro straordinario del personale già disponibile, è palesemente affetta dai vizi denunciati.
Va pertanto riconosciuto il diritto a percepire, per il titolo di cui sopra, quanto riconosciuto dall'Amministrazione con la deliberazione n. 113 del 4 luglio 2001, oltre gli interessi e la rivalutazione monetaria.
In conclusione l'appello deve essere accolta con conseguente riforma della sentenza di primo grado, con riguardo ai capi oggetto delle contestazioni come sopra definite.
La spese possono essere compensate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l'appello in epigrafe, e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna il Comune di Melito al pagamento di quanto di ragione per i titoli di cui in motivazione, oltre gli interessi e la rivalutazione monetaria.
Dispone la compensazione delle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.