Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 20 luglio 2003, n. 9900
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Coni propose opposizione al decreto con cui il Pretore di Verona, ad istanza dell'Inps, gli aveva ingiunto il pagamento di lire 615.134.375, a titolo di contributi e sanzioni di legge per l'omessa registrazione a libro paga e matricola di 17 lavoratori, assunti formalmente come lavoratori autonomi nel periodo fra il settembre 1980 e l'ottobre 1994 e ritenuti per contro dall'Inps lavoratori subordinati.
A fondamento dell'opposizione, per quanto ancora rileva, il Coni dedusse la prescrizione parziale del credito per il periodo ottobre 1980-gennaio 1985, risalendo al 20 gennaio 1995 l'unico atto interruttivo da parte dell'Inps, e l'insussistenza dei presupposti di fatto per qualificare il rapporto intercorso con i lavoratori come lavoro subordinato.
Il Pretore accolse parzialmente l'opposizione e condannò il Coni al pagamento dei contributi nei limiti della prescrizione decennale. La sentenza, su appello del Coni, contrastato dall'Inps, è stata confermata dal Tribunale di Verona, previo espletamento di consulenza tecnica sulla misura dei contributi dovuti.
Nella motivazione il Tribunale, per quanto ancora rileva, ha premesso anzitutto che la subordinazione lavorativa consiste nell'inserimento organico del lavoratore nella struttura dell'impresa e può esser colta sulla base di elementi oggettivi quali l'assenza di una organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore e il suo assoggettamento al potere gerarchico del datore di lavoro, mentre non ha rilievo decisivo il nomen juris usato dalle parti per qualificare il rapporto.
Il giudice d'appello ha quindi osservato che in base alle risultanze processuali, e in particolare alle testimonianze dei dipendenti, era risultato che i c.d. collaboratori autonomi dei quali il Coni, dotato di un numero limitato di funzionari, si avvaleva erano tenuti ad osservare un orario di lavoro, godevano di una retribuzione fissa mensile, non modificata per effetto di periodi di malattia o ferie, non sopportavano alcun rischio, non avevano alcuna organizzazione lavorativa propria, neppure di tipo elementare, rendevano una prestazione di fatto che si esauriva nella messa a disposizione delle loro energie lavorative.
Quanto ai conteggi dell'Inps, il Tribunale sulla scorta della Ctu ne ha confermato la correttezza, sia sotto il profilo dell'inquadramento categoriale che per quel che riguardava la misura degli importi pretesi.
Contro questa sentenza il Coni ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
L'Inps resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, denunziando, ai sensi dell'articolo 360 nn. 3 e 5 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, come pure violazione e falsa applicazione degli articoli 2094 e 1362 e seguenti c.c., avuto riguardo al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, il ricorrente addebita anzitutto alla sentenza impugnata di essersi limitata a richiamare l'insegnamento di questa Corte sui criteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, senza svolgere un'indagine specifica sulle singole posizioni lavorative dei 17 collaboratori per i quali erano stati richiesti i contributi ed irrogate le sanzioni, equiparandole tutte senza verificare in concreto l'esistenza per ognuna di esse degli elementi caratteristici o almeno sintomatici della subordinazione, benché nell'atto di appello fossero state messe in rilievo le peculiarità di ciascuna. In secondo luogo, il ricorrente addebita alla sentenza di non aver tenuto conto della volontà delle parti di dar vita ad un rapporto di lavoro autonomo, volontà espressa anche nel trattamento fiscale dei compensi, trascurando quindi tanto la presunzione correlata al nomen juris utilizzato dalle parti, quanto il loro comportamento successivo, con cui esse avevano manifestato adesione allo schema contrattuale convenuto. Oltre a ciò, al giudice di merito è ancora addebitata l'omessa effettuazione di qualsiasi indagine sull'esistenza del potere gerarchico del datore di lavoro, e il mancato esame di circostanze, emergenti dalla prova orale, idonee a determinare una diversa decisione della causa, quali la totale inesistenza di qualsiasi esercizio di poteri direttivi, disciplinari e di controllo da parte del Coni nei confronti dei collaboratori, e l'inesistenza di obblighi di presenza o di orario di lavoro da parte di questi ultimi.
Il motivo è sostanzialmente fondato, benché alcune delle tesi che esso contiene non siano condivisibili.
In particolare, non merita approvazione quella che intende far leva sulla volontà delle parti non quale si è manifestata nel concreto svolgimento del rapporto ma come configurata nelle originarie pattuizioni contrattuali, tanto più se, come sostenuto dal ricorrente, una tale volontà sia, almeno presuntivamente, da considerare conforme al nomen juris adoperato dalle parti.
Al riguardo va invece ribadito il prevalente orientamento di questa Corte secondo cui la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nella iniziale stipulazione del contratto non è determinante, stante la idoneità, nei rapporti di durata, del comportamento delle parti ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale che una diversa nuova volontà (così, di recente, Cass. 1420/02).
Il comportamento delle parti va dunque considerato e valorizzato proprio perché idoneo a render manifesto il concreto assetto che esse hanno inteso imprimere ai loro rapporti, a prescindere dal carattere confermativo o non della originaria qualificazione da essi voluta, fermo restando il ruolo di questa nei casi, peraltro marginali, in cui ogni altra circostanza complessivamente valutata non offra, ai fini della qualificazione del rapporto, elementi decisivi in un senso o nell'altro.
Va poi aggiunto che, in assenza di precise indicazioni sul contenuto delle pattuizioni originarie, non si può accogliere la pretesa del ricorrente di attribuire carattere sintomatico della volontà delle parti all'assoggettamento da parte del Coni a ritenuta d'acconto dei compensi corrisposti ai collaboratori, accettato costantemente da costoro. Si tratta, infatti, di un comportamento dal significato quantomeno ambiguo, non potendo ravvisarsi (e comunque non essendo dedotto) uno specifico interesse dei soggetti coinvolti per una diversa modalità di tassazione. D'altra parte, se, com'è noto, le modalità della retribuzione non hanno di per sé rilievo decisivo ai fini che qui interessano, appare arduo attribuire tale rilievo al trattamento fiscale dei compensi.
Sono fondate, invece, le ulteriori censure contenute nel motivo.
Premesso che il controllo di questa Corte non riguarda la valutazione da parte del giudice del merito dei fatti e delle prove, ma solo il ragionamento giustificativo delle conclusioni raggiunte in base alle risultanze processuali, si deve osservare che la dimostrazione del positivo riscontro della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra il Coni e ognuno dei 17 collaboratori è affidato, nella sentenza, ad un primo gruppo di asserzioni così riassumibili: il Coni aveva un numero limitato di dipendenti, e si avvaleva di cosiddetti collaboratori autonomi; questi, tuttavia, erano tenuti ad osservare un orario di lavoro, godevano di una retribuzione fissa mensile, e tale retribuzione non subiva alcuna variazione per effetto di periodi di malattia o della fruizione di ferie.
La corrispondenza ai fatti di tali affermazioni deriva, secondo il Tribunale, dalle testimonianze assunte, in particolare dalle dichiarazioni del teste Malignaggi
La sentenza contiene poi una seconda affermazione, secondo la quale quella dei lavoratori in argomento era «una prestazione di mero fatto, che si esauriva, in assenza di alcun rischio o di organizzazione lavorativa, anche elementare, nella messa a disposizione delle energie lavorative dei dipendenti».
Benché possa apparire come la conclusione che il Tribunale trae da una serie di fatti, questa seconda affermazione, nell'economia della sentenza, è presentata piuttosto come una circostanza di fatto, il cui supporto probatorio sarebbe costituito dalle dichiarazioni di taluni testi (Tommasetti, Brivonese, Barbi, Roner, Frustoli, e Bonora), non contraddette da quelle del già menzionato Malignaggi.
Ulteriore elemento di riscontro sarebbe costituito dalle dichiarazioni rese dai collaboratori all'ispettore dell'Inps, da questi richiamate nella sua deposizione, e confermate, del resto, direttamente dagli stessi collaboratori ascoltati come testi.
Questa seconda affermazione, da intendere necessariamente come ulteriore base per la conclusione raggiunta, e da riguardare quindi nel suo profilo fattuale, equivale a dire che le prove assunte avevano dimostrato l'assenza di rischio o di una organizzazione anche elementare in capo ai lavoratori.
Fatte tali premesse, deve subito osservarsi che, come esattamente sottolineato dal ricorrente, pur avendo ricordato, benché sinteticamente, l'insegnamento di questa Corte circa i criteri di qualificazione di un rapporto come subordinato od autonomo, richiamando in proposito essenzialmente l'assenza di organizzazione imprenditoriale e l'assoggettamento a potere gerarchico del datore di lavoro, la sentenza impugnata giustifica in realtà la ritenuta sussistenza del rapporto di lavoro con il riscontro di una serie di elementi, quali l'osservanza di un orario di lavoro, la cadenza e la misura fissa della retribuzione, come pure l'assenza di rischio, che, nel costante orientamento di questa Corte, assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva (v. fra le molte, recentemente, la già cit. Cassazione, 1420/02). Quindi, l'aver orientato la propria indagine in base ai criteri meramente sussidiari di accertamento della concreta esistenza della subordinazione, costituisce un primo errore della sentenza impugnata, dal momento che essa non si dà carico di spiegare perché si sia reso necessario il ricorso ai suddetti criteri e sia stata invece tralasciata l'indagine centrale in materia, ossia quella diretta ad accertare l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con la conseguente limitazione della sua autonomia ed il suo inserimento nella organizzazione aziendale (Cassazione, 4682/02). Il che è tanto meno comprensibile in quanto non emergono dalla sentenza profili di specificità, né per ciò che attiene alla natura della prestazione né per quel che riguarda la struttura organizzativa del Coni, tali da rendere evidente la scarsa concludenza del ricorso al criterio fondamentale di distinzione delle due fattispecie. Inoltre, dovendo decidere delle posizioni di 17 collaboratori e di un arco di tempo che andava dal 1980 al 1994, il Tribunale avrebbe dovuto chiarire la ragione per la quale non aveva ritenuto di dover effettuare un'indagine sulle singole posizioni lavorative, non risultando dalla motivazione della sentenza alcun elemento che possa indiscutibilmente giustificare una assoluta uniformità di situazioni per un così lungo periodo di tempo.
A parte questi rilievi di ordine generale, già idonei peraltro a rendere inadeguata la motivazione della sentenza, si deve osservare ulteriormente che in realtà dalle dichiarazioni testimoniali, riportate nel ricorso, non sembra adeguatamente giustificato neppure il positivo riscontro degli anzidetti indici secondari di subordinazione.
Infatti le testimonianze Tomassetti, Brivonese e Barbi, hanno riguardo testuale ed esclusivo ad istruzioni ricevute, pienamente compatibili, come noto, con una collaborazione autonoma, e non contengono invece riferimenti di alcun genere al potere gerarchico del Coni. Il Tribunale avrebbe quindi dovuto spiegare come questi riferimenti testimoniali fornissero argomento per sostenere la sottoposizione dei lavoratori a veri e propri ordini o quantomeno a direttive specifiche e puntuali provenienti dalla controparte, e, naturalmente, l'indagine avrebbe dovuto esser compiuta, ancora una volta. con riferimento specifico alle singole posizioni lavorative coinvolte.
Quanto all'orario di lavoro, le testimonianze Barbi e Roner fanno riferimento ad accordi con i responsabili del Coni e mai ad imposizioni unilaterali da parte di costoro, ed in tal senso è anche la deposizione Malignaggi, benché essa venga indicata nella sentenza come idonea ad avvalorare la tesi della sussistenza dell'obbligo dei collaboratori di rispettare un determinato orario di lavoro.
Quanto al tema, connesso, degli obblighi di presenza e di giustificazione delle assenze, la testimonianza Bonora depone testualmente in senso contrario, avendo la teste riferito che non potendo recarsi al lavoro a seguito di un incidente si era limitata ad avvertire il Coni, senza far parola di obblighi di documentazione dell'impedimento.
Nello stesso senso, d'altra parte, appare la deposizione Malignaggi, dalla quale risulta che i collaboratori Walter e Massimiliano Panato non avevano obbligo di orario, convenivano i compensi per le loro prestazioni con il presidente del comitato provinciale, si recavano presso la segreteria Coni in un giorno di volta in volta convenuto, anche in questo caso avvertendo di eventuali impedimenti a rispettare l'impegno preso. Non diversamente, sempre in base alla medesima testimonianza, avveniva per la collaboratrice Tomassetti che "in linea di massima" veniva a lavorare tutte le mattine e che, sempre "in linea di massima" riceveva istruzioni dal Malignaggi. Ancora, quanto al collaboratore Veneri risulta dalla medesima testimonianza che egli collaborava "in linea di massima" la mattina, e gestiva autonomamente l'orario di lavoro, il che fra l'altro appare coerente con la circostanza, dedotta dal ricorrente, e sulla quale la sentenza nulla dice, che il Veneri nello stesso periodo lavorava quale insegnante di educazione fisica presso un'altra pubblica amministrazione.
Infine, come già emerge da quel che s'è detto, il Tribunale non si è dato carico di spiegare la totale assenza di occasioni di esercizio di potere disciplinare nei confronti di un numero cospicuo di persone e per un arco di tempo assai ampio. Ora è vero che per poter affermare che vi sia o no tale potere è necessario accertare in fatto quali conseguenze si siano verificate in presenza di fatti che ne giustifichino l'esercizio, mentre in assenza di tali fatti il riferimento ai profili disciplinari del rapporto perde di univocità, ma è anche vero che il numero dei collaboratori e la durata del rapporto avrebbero dovuto indurre il Tribunale ad indagare anche in questa direzione ed a motivare sui risultati di tale indagine.
Infine, sempre per effetto di una, non adeguatamente motivata, considerazione globale ed unificante della situazione, la sentenza, come rilevato dal ricorrente, non chiarisce la posizione dei soggetti ascoltati in sede di ispezione Inps ma non ulteriormente escussi in giudizio quali testi, né degli altri che non avevano rilasciato dichiarazioni in sede ispettiva.
Il motivo va quindi accolto.
Conseguentemente la sentenza è cassata con rinvio della causa per un nuovo esame alla luce anzitutto dei criteri di distintivi fra collaborazione autonoma e lavoro subordinato, ricordati in precedenza. Il giudice di rinvio accerterà quindi con riguardo a ciascuno dei diciassette collaboratori l'effettivo assoggettamento al potere direttivo e disciplinare e il loro inserimento nell'organizzazione del Coni, ricorrendo solo in via eventuale, qualora tale indagine non dovesse fornire sicuri elementi di riscontro, anche agli ulteriori criteri sussidiari.
Gli ulteriori motivi di ricorso restano pertanto assorbiti.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso; assorbiti gli altri; cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Trento.