Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 12 dicembre 2003, n. 19042
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.1. Con ricorso al Tribunale di Roma, notificato il 7 aprile 1992, Pierluigi I. - premesso che aveva contratto matrimonio con Maria Rita D. in data 29 ottobre 1977 e che dall'unione era nato il figlio Cristiano in data 2 gennaio 1979 - chiese che venisse pronunciata la separazione personale dei coniugi per intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
Nell'udienza di comparizione personale dei coniugi del 15 giugno 1992, il Presidente affidò il figlio minore alla madre, alla quale attribuì il diritto di abitare la casa coniugale, e determinò, a carico dello I., un contributo di lire 1.900.000 per il mantenimento del figlio e della moglie.
Successivamente, il Tribunale di Roma, con sentenza 9403/97 - preso atto che Maria Rita D. non svolgeva attività lavorativa; che Pierluigi I., docente universitario, nel 1993 percepiva uno stipendio mensile di lire 5.400.000, presumibilmente migliorato medio tempore; e che il figlio Cristiano era divenuto maggiorenne - tra l'altro, pronunciò la richiesta separazione personale, attribuì alla D. il diritto di abitare la casa coniugale e determinò «con decorrenza dal maggio 1997, e confermate per il periodo precedente le determinazioni assunte in sede presidenziale, in lire 2.500.000, delle quali lire 1.000.000 per il coniuge, l'importo dell'assegno dovuto, alla D. per il mantenimento suo e del figlio Cristiano da parte dello I.».
1.2. Avverso tale sentenza propose appello, dinanzi alla Corte di Roma, la D., lamentando che la decorrenza dell'assegno maggiorato fosse stata fatta decorrere dal maggio 1997, anziché dalla data della proposizione della domanda (aprile 1992).
Costituitosi con "comparsa di costituzione ed appello incidentale", depositata in cancelleria il 29 settembre 1999, lo I. instò per la reiezione dell'appello; inoltre - sottolineato che il figlio Cristiano era andato a vivere con lui a far data dal 1998; che la moglie svolgeva attività lavorativa presso un esercizio commerciale di Via del Corso di Roma; e che la stessa conviveva con Franco R. dal 1996 - spiegò appello incidentale, chiedendo che venisse escluso il suo obbligo a contribuire al mantenimento del figlio e della moglie ed articolando, in proposito, prova testimoniale. L'appellante incidentale chiese, altresì, che venisse disposta la sospensione del processo di separazione personale, in quanto tra le parti pendeva quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai coniugi.
Con ordinanza collegiale del 21 dicembre 1999-1° febbraio 2000, la Corte ammise la prova testimoniale articolata dallo I. e procedette alla sua assunzione nelle udienze del 16 marzo 2000 (testi Eugenio F. e Vittoria I.) - all'esito della quale, il difensore della D. chiese che venisse sentito il testa A. indicato dalla controparte ed il Consigliere istruttore fissò nuova udienza "per la prosecuzione della prova" - e del 24 ottobre 2000 (testi Cristiano I. e Roberto A.).
Esperita, dunque, istruzione probatoria documentale ed orale, la Corte adita, con sentenza 931/2001 del 16 marzo 2001, respinse l'appello principale; accolse per quanto di ragione quello incidentale e per l'effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, ridusse l'assegno dovuto dallo I. per il mantenimento della moglie a lire 700.000 mensili, escludendo «quello dovuto per il mantenimento del figlio a far tempo dalla domanda proposta con l'appello incidentale».
In particolare, e per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte romana - dopo aver respinto l'istanza di sospensione del processo di separazione in pendenza di quello di divorzio, sottolineando la completa autonomia dei due giudizi e, in particolare, che «i provvedimenti presi in sede di separazione mantengono efficacia sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio» - ha così, testualmente, motivato:
a) «Venendo al merito dell'impugnazione principale, la Corte osserva che il primo Giudice ha aumentato gli assegni disposti con il provvedimento presidenziale in considerazione del reddito dello I. posteriore a tale udienza ed ai successivi probabili miglioramenti, sicché appare logica e corretta la decorrenza di tali aumenti dalla pronuncia della sentenza, poiché il Tribunale si è riferito ai redditi di quell'epoca, ritenendo, implicitamente, che prima lo I. godesse di redditi inferiori».
b) «con il suo appello incidentale Pierluigi I. fa presente che il figlio Cristiano dal 1998 vive con lui; tale circostanza è stata ammessa da controparte e, quindi, va escluso l'obbligo del suddetto I. a corrispondere un assegno di mantenimento del figlio a far tempo dalla domanda... proposta con l'appello incidentale depositato l'11 dicembre 2000».
c) Relativamente all'assegno di mantenimento attribuito alla D., la Corte ha affermato: «... osserva in proposito la Corte che dalle deposizioni assunte è emerso che la suddetta ha collaborato con una certa assiduità e con competenza nell'esercizio commerciale di Roberto A., il quale, però, ha precisato di non averle mai corrisposto stipendi ma solo qualche regalo in capi di abbigliamento. In ordine alla pretesa convivenza della D. con altra persona, non è stata raggiunta alcuna prova certa che tale relazione, anche se sussistente, abbia quel carattere di stabilità da costituire una famiglia di fatto e quindi, al fine del giudizio, non può avere alcuna rilevanza. In sintesi, dalle prove assunte è emerso, con sicurezza, soltanto che Maria Rita D. ha una concreta e reale capacità e competenza lavorativa e tale circostanza non può venire trascurata nella determinazione del suo diritto al mantenimento da parte del marito... Pertanto, considerato che la suddetta ha la concreta possibilità di svolgere attività, quanto meno di commessa, ma che il guadagno che ne può ricavare comunque non è sufficiente a garantirle il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, va confermato il suo diritto a percepire un contributo di mantenimento da parte del marito, docente universitario, ma il suo ammontare va ridotto, dato che il Tribunale lo ha determinato sul presupposto che la medesima non avesse capacità di guadagno. Tenuto quindi conto dello stipendio medio di una brava commessa, che, per quanto di comune conoscenza, può essere indicato in lire 1.800.000, e considerato il reddito dello I., come determinato dal Tribunale, con presumibili miglioramenti, nonché la circostanza che la D. usufruisce della casa coniugale e che il figlio non vive più a suo carico, la Corte ritiene di determinare in modo equo in lire 700.000 l'assegno mensile dovuto dal suddetto I. per il mantenimento della D.».
d) «Considerato l'esito del giudizio pare equo compensare interamente tra le parti le spese di questo grado del giudizio».
1.3. Avverso tale sentenza Maria Rita D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura, illustrati con memoria.
Resiste, con controricorso, Pierluigi I., il quale ha anche proposto ricorso incidentale, fondato su un unico, articolato motivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2.1. I ricorsi nn.14339 (principale) e 15999 (incidentale) del 2001, in quanto proposti contro la stessa sentenza, debbono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.
2.2. Con il primo motivo (con cui deduce "Violazione dell'art. 360 comma terzo e quinto"), la ricorrente principale critica la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione (cfr., supra, n. 1.2. lettera a)), ribadendo che la decorrenza dell'assegno di mantenimento a suo favore ed a favore del figlio, quale determinato dal Tribunale in aumento rispetto a quello fissato in sede di comparizione dei coniugi in sede presidenziale, dovrebbe coincidere con la data di proposizione della domanda di separazione; e sostenendo che la circostanza, secondo cui lo I. godeva negli anni 1992-1994 di redditi inferiori, sarebbe smentita dalla relative dichiarazioni dei redditi prodotta in atti.
Con il secondo motivo (con cui deduce: "Violazione dell'art. 360 coma terzo e quinto, violazione dell'art. 156 primo comma ultimo cpv"), la ricorrente principale critica ancora la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione (cfr., supra, n. 1.2. lettera c)), lamentando che la Corte romana non avrebbe tenuto conto del fatto che la D. non ha redditi propri, ed in particolare da lavoro dipendente, come attestato dal preteso datore di lavoro in sede di deposizione testimoniale; ed aggiungendo che, in sede di giudizio di divorzio, essa sarebbe stata privata del godimento della casa coniugale.
Con il terzo motivo (con cui deduce: "Violazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c. primo e terzo comma dell'art. 395 c.p.c."), la ricorrente principale - premesso che la stessa Corte d'appello, in sede di giudizio di divorzio, avrebbe emesso ordinanza in data 16 febbraio 2001, con la quale avrebbe determinato, a favore della D., un assegno divorzile di lire 1.000.000 mensili - critica la sentenza impugnata, sostenendo che questa, in quanto depositata in data successiva (16 marzo 2001) alla predetta ordinanza, dovrebbe essere revocata, perché contraria ad altra precedente, in violazione del principio del ne bis in idem.
2.3. Con l'unico, articolato motivo (con cui deduce: "Violazione dell'art. 360 primo comma n. 3 e 5 c.p.c."), il ricorrente incidentale critica, a sua volta, la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della sua motivazione (cfr., supra, n. 1.2. lettera b), c) e d)), sostenendo che:
a) la Corte romana - pur escludendo l'obbligo sullo stesso gravante di versare il contributo per il mantenimento del figlio "a far tempo dalla domanda proposta con l'appello incidentale" - avrebbe inopinatamente fatto decorrere l'estinzione dell'obbligo dall'11 dicembre 2000, nonostante che l'appello incidentale fosse stato proposto con atto depositato in cancelleria in data 28 settembre 1999;
b) i Giudici d'appello avrebbero completamente omesso di considerare le circostanza decisive - emergenti dalle deposizioni testimoniali di Eugenio F., Vittoria I. e Cristiano I. - secondo cui la D. lavorava stabilmente come commessa presso l'esercizio commerciale A. di Via del Corso e secondo cui la stessa conviveva stabilmente dal 1996 con Franco R. nella casa coniugale, ed avrebbero, altresì, omesso di tener conto che l'escussione del teste A. sarebbe avvenuta illegittimamente su istanza della D., nonostante che quest'ultima non avesse «mai articolato capitoli di prova ed indicato testi, né in via diretta che indiretta, né in via autonoma o in controprova»;
c) i Giudici a quibus avrebbero illegittimamente disposto la compensazione delle spese, nonostante che la D. fosse rimasta soccombente, a seguito della reiezione dell'appello principale dalla stessa proposto.
2.4. Dove essere esaminato per primo, in ragione del suo carattere preliminare, il terzo motivo del ricorso principale, con il quale, come già rilevato (cfr., supra, n. 2.2), la ricorrente chiede, in sostanza, la revocazione della sentenza impugnata - ai sensi, evidentemente (nonostante l'erroneo riferimento all'art. 395 primo e terzo comma c.p.c.), dell'art. 395, n. 5, c.p.c. («Le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnata per revocazione se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione») - in quanto essa, pubblicata il 16 marzo 2001, colliderebbe con una ordinanza precedente (adottata dalla stessa Corte d'appello di Roma, in sede di giudizio di divorzio, in data 16 febbraio 2001 ad avente ad oggetto la determinazione provvisoria di assegno divorzio pari a lire 1.000.000 mensili).
Il motivo è palesemente inammissibile.
Infatti - a parte ogni altra, pur possibile, considerazione - appare sufficiente e decisivo osservare che, ai sensi dell'art. 398, comma 1, c.p.c. «la revocazione si propone... davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata». Può anche aggiungersi che, secondo l'orientamento di questa Corte (cfr., e pluribus, sentenza 5513/2000), integralmente condiviso dal Collegio, la pendenza del giudizio di revocazione contro la sentenza di merito non è d'ostacolo, alla luce dell'art. 398, comma 4, c.p.c., nel testo sostituito dall'art. 68 della l. 353/1990, alla trattazione del ricorso per cassazione, essendovi completa autonomia tra il giudizio di legittimità e quello per revocazione, almeno fintantoché il giudice investito di quest'ultimo non ritenga di sospendere il termine per la proposizione del ricorso per cassazione ovvero il relativo procedimento, tanto più qualora tra le due cause non sussista interferenza di questioni, come dedotto nella specie, ove il lamentato contrasto avrebbe ad oggetto la misura dell'assegno divorzile rispetto a quella dell'assegno di mantenimento, stabilito in sede di separazione: infatti, è noto che il giudizio di divorzio e quello di separazione personale sono procedimenti del tutto autonomi e, in particolare, con riferimento al caso di specie, sia per la diversa struttura, finalità e natura dell'assegno di divorzio rispetto a quello di separazione, sia perché, per effetto della pronuncia di divorzio, quella di separazione perde efficacia (cfr., e pluribus, sentenze 2514/1983, 5497/1992, e Su 10935/1995 e 9824/2001).
2.5. Sempre per ragioni di priorità logico-giuridica deve essere, poi, esaminato il primo profilo dell'articolato motivo del ricorso incidentale (cfr., supra, n. 2.3. lettera a)).
Esso si palesa inammissibile, per carenza di interesse a proporlo, all'esito di una corretta lettura della sentenza impugnata, rispettosa del fondamentale canone ermeneutico, secondo cui l'interpretazione della sentenza deve essere condotta alla luce della considerazione integrata di dispositivo e motivazione. Orbene - posto che, a fronte della domanda dello I., proposta con l'appello incidentale depositato nella Cancelleria della Corte d'appello di Roma in data 28 settembre 1999 e tendente ad ottenere «l'esclusione del suo obbligo a corrispondere un assegno di mantenimento per... il figlio», il dispositivo della sentenza impugnata recita testualmente: «... ed esclude quello [l'assegno] dovuto per il mantenimento del figlio a far tempo dalla domanda proposta con l'appello incidentale»; che la relativa motivazione afferma testualmente: «..., e quello [l'assegno] per il figlio va escluso a partire dalla domanda proposta con l'appello incidentale depositato l'11 dicembre 2000»; e che dall'esame diretto dagli atti (consentito a questa Corte in ragione della natura processuale del vizio denunziato) emerge che la data dell'11 dicembre 2000, indicata in motivazione, corrisponde non già a quella del deposito dell'appello incidentale, eseguito in data 28 settembre 1999, ma a quella del deposito delle "note conclusionali", autorizzate dal Consigliere istruttore, con ordinanza del 24 ottobre 2000, fino al 20 dicembre 2000 - è del tutto evidente che il dictum della Corte romana sul punto, quale espresso inequivocabilmente sia nel dispositivo che nella motivazione, fa riferimento alla data della domanda proposta con l'appello incidentale, e cioè a quella del 28 settembre 1999; sicché, il diverso riferimento, contenuto nella motivazione, alla data dell'11 dicembre 2000 deve ritenersi frutto di un mero lapsus calami.
2.6. Il secondo motivo del ricorso principale (cfr., supra, n. 2.2) ed il secondo profilo del motivo del ricorso incidentale (cfr., supra, n. 2.3 lettera b)) possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro identità d'oggetto (spettanza ed eventuale entità dell'assegno di mantenimento attribuito dalla Corte romana alla D.), sia pure da contrapposti punti di vista.
Il ricorso incidentale solleva, però, l'eccezione preliminare di illegittimità dell'assunzione del teste A., in quanto escusso su sollecitazione del (solo) difensore della D..
L'eccezione, a prescindere dalla sua fondatezza, si paleserà irrilevante alla luce delle considerazioni che seguono.
I contrapposti motivi di censura risultano privi di fondamento.
Devo sottolinearsi, in proposito, che esiste un consolidato orientamento di questa Corte (cfr., e pluribus, sentenze 5916/1996, 5762 e 7630/1997, 3490 e 4543/1999, 3291 e 12136/2001, 4800/2002), integralmente condiviso dal Collegio, secondo cui condizioni, per il sorgere del diritto al mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, sono la non titolarità, da parte di quest'ultimo, di adeguati redditi propri - e cioè, di redditi che consentano al richiedente di mantenere un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio - e la disparità economica tra le parti; secondo cui, ai fini della valutazione della adeguatezza dei redditi del soggetto che chiede l'assegno, il parametro di riferimento è costituito dalle potenzialità economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l'entità delle aspettative del medesimo richiedente; e, secondo cui, una volta accertato il diritto del richiedente all'assegno di mantenimento, il giudice, per determinarne il quantum, deve tener conto anche degli elementi fattuali di ordine economico o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell'onerato, suscettibili di incidenza sulle condizioni delle parti.
Può affermarsi che la Corte romana ha fatto, nella specie, corretta applicazione di tali principi.
Non è esatto, innanzitutto, che i Giudici d'appello non abbiano tenuto conto, per decidere le questioni sull'assegno di mantenimento, del complesso della prova testimoniale acquisita. Infatti, sul punto - decisivo - dello svolgimento di una attività lavorativa da parte della D., la Corte ha specificamente affermato che «dalle deposizioni assunte è emerso che la suddetta ha collaborato con una certa assiduità e competenza nell'esercizio di Roberto A.», escludendo soltanto che tale attività fosse stata formalizzata in un rapporto di lavoro dipendente. Ed è proprio in tale prospettiva che si manifesta irrilevante l'eccezione di illegittimità dell'escussione del teste A.: infatti - posto che, come già rilevato, il contenuto della relativa deposizione testimoniale è stato posto a fondamento sia dell'affermazione dello svolgimento di un'attività lavorativa da parte della D., sia della determinazione (ridotta) dell'assegno di mantenimento - è evidente che la esclusione, emergente dalla deposizione stessa, di un rapporto di lavoro dipendente formalizzato fra l'impresa A. e la ricorrente principale non ha inciso in alcun modo sulla decisione circa la spettanza e l'entità dell'assegno medesimo.
D'altro canto, i Giudici a quibus, valutando gli elementi probatori acquisiti, hanno escluso - con motivazione adeguata e scevra da errori logico-giuridici - che la convivenza della D. con altra persona fosse idonea ad incidere sulla spettanza dell'assegno di mantenimento, in quanto non avente le caratteristiche della convivenza more uxorio. I Giudici stessi, invece, hanno correttamente sottolineato, per un verso, la disparità economica esistente tra le parti, ponendo a raffronto i redditi del marito, docente universitario - che hanno fatto coincidere con lo stipendio mensile, determinato dal Tribunale, di lire 5.400.000, "con presumibili miglioramenti", con quello della moglie, che hanno fatto coincidere con lo "stipendio medio di una brava commessa" (lire 1.800.000 mensili) - e posto, altresì, in risalto che i redditi della D. non le consentono di mantenere un tenore di vita analogo a quello condotto in costanza di matrimonio; e, sulla base degli elementi della capacità lavorativa della stessa e della sua fruizione della casa familiare, hanno ridotto (da lire 1.000.000 a lire 700.000) l'assegno di mantenimento, stabilito dai Giudici di primo grado sulla base del presupposto che la medesima non avesse capacità di guadagno. È appena il caso di aggiungere che la dedotta - da parte della D. - perdita del diritto di abitare la casa familiare, sancita in sede di giudizio di divorzio, non può esplicare alcuna efficacia nel presente giudizio, avuto riguardo alla già ribadita autonomia dei due giudizi.
2.7. Quanto al primo motivo del ricorso principale (cfr., supra, n. 2.2), lo stesso è, per un verso, infondato, e, per l'altro, inammissibile.
Infondato, in quanto costituisce principio generale, applicato correttamente dalla Corte romana (cfr., supra, n. 1.2 lettera a)) quello, secondo cui gli effetti di ogni provvedimento giurisdizionale retroagiscono al momento della proposizione della domanda, se in tale momento esistevano le condizioni richieste per l'emanazione del provvedimento: sicché, nelle cause di separazione personale - come il giudice istruttore, a norma dell'art. 708, comma 4, c.p.c., ove si verifichino mutamenti della circostanze prese in esame dal presidente del tribunale nell'adozione dei provvedimenti temporanei ed urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole, può revocarli o modificarli, in quanto assistiti dalla clausola generale rebus sic stantibus, facendo decorrere i relativi effetti dal momento in cui, verificatosi il suindicato mutamento delle circostanze, è correlativamente sorto il diritto della parte istante ad ottenere la revoca o la modifica richiesta (cfr. Cassazione 6322/93) - così il tribunale che, in sede di deliberazione della sentenza di separazione personale, accerti il mutamento medesimo rispetto alla situazione precedentemente accertata può correttamente far decorrere gli effetti del provvedimento di revoca o modifica dalla data della deliberazione della sentenza.
Inammissibile, nella misura in cui, con il motivo stesso, si afferma, in definitiva - contrariamente a quanto accertato in fatto dai Giudici a quibus ed in modo assolutamente generico - che i redditi dello I., al momento della proposizione della domanda di separazione personale, non erano inferiori rispetto a quelli percepiti al momento della deliberazione della relativa sentenza.
2.8. Palesemente infondato, infine, è il terzo profilo del motivo del ricorso incidentale (cfr., supra, n. 2.3. lettera c)): infatti - tenuto conto che i giudici d'appello hanno disposto la compensazione delle spese "considerato l'esito del giudizio" (cfr., supra, n. 1.2. lettera d)) - come è noto (cfr., e plurimis, Cassazione 2124/1994 e 4234/1995), in caso di soccombenza reciproca, al giudice è attribuito il potere discrezionale, insindacabile in sede di legittimità, sia in ordine alla pronuncia di compensazione, sia in ordine alla valutazione del quantum della compensazione medesima.
In conclusione, entrambi i ricorsi debbono essere rigettati.
2.9. Vertendosi, anche nella presente fase del giudizio, in ipotesi di soccombenza reciproca, le relative spese possono essere compensate per intero tra le parti.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.