Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche
Sentenza 23 febbraio 2004, n. 67
FATTO
1. Con ricorso notificato il 19-20 marzo 2002 al Comune di Gabicce Mare ed alla Provincia di Pesaro ed Urbino, e depositato il 17 aprile 2002, premesso di essere proprietario di un'area, adibita a parcheggio, interessata dalla realizzazione di un'opera viaria, il cui progetto era stato approvato con la delibera provinciale 14 ottobre 1997, n. 943, dichiarativa di pubblica utilità, il sig. Cesare C. ha impugnato il decreto di esproprio definitivo 28 dicembre 2001, n. 30233 emesso dal Comune intimato.
Questi i motivi:
a) violazione degli artt. 7 e seguenti della l. n. 241 del 1990;
b) violazione dell'art. 1 l. n. 241 del 1990 e dell'art. 97 Cost., eccesso di potere per mancanza di logicità e ragionevolezza dell'azione amministrativa;
c) e d) violazione degli artt. 10 ed 11, nonché degli artt. 12 e 13 della l. n. 865 del 1971, come modificata dalla l. 28 gennaio 1977, n. 10.
Oltre ad eccepire il mancato avvio dell'avviso del procedimento, il ricorrente deduce i vizi di mancanza d'istruttoria per essere stata espropriata una superficie di mq. 24 mentre nell'avviso 4 novembre 1997, inviatogli dalla Provincia, la superficie complessivamente coinvolta dall'opera era indicata in mq. 10 (mappale n. 106-C.T.-127 NCEU).
Si sono costituiti il Comune di Gabicce Mare e la Provincia di Pesaro ed Urbino, eccependo nelle memorie l'inammissibilità ed irricevibilità del ricorso sotto più profili (per essere tardivo il deposito, in relazione all'art. 23-bis, comma 2, della l. n. 1034 del 1971; per mancata notifica del ricorso al controinteressato Comune di Gradara, beneficiario dell'esproprio; per intervenuta acquiescenza).
Alla camera di consiglio del 9 luglio 2002 è stata respinta la domanda di sospensione.
2. Successivamente, con atto notificato il 5 giugno 2002 e depositato il 6 giugno 2002, il sig. C. ha proposto un ulteriore ricorso per ottenere:
- nel merito:
a) la dichiarazione d'inefficacia e/o nullità (in toto od in parte) del decreto d'esproprio definitivo di cui alla determinazione 28 dicembre 2001, n. 30233;
b) l'ordine di remissione in pristino stato, quale condanna al risarcimento del danno in forma specifica, in subordine (nella memoria 17 febbraio 2002) è stato chiesta la condanna per equivalente;
- in via cautelare, ai sensi dell'art. 1168 c.c., la reintegrazione nel possesso dell'area di mq. 14.
La domanda si fonda su un'asserita inefficacia del decreto d'esproprio pronunziato in mancanza di potere, in assenza di valida dichiarazione di pubblica utilità.
La dichiarazione di pubblica utilità è stata pronunziata su un'area di 10 mq., mentre il decreto d'esproprio ha esteso tale dichiarazione ad ulteriori mq. 14 ed è stato emesso in carenza di potere. L'occupazione, pertanto, è stata disposta sine titulo ed usurpativamente ed il sig. C. avrebbe diritto alla restituzione ex art. 1168 c.c.
Il Comune di Gabicce Mare e l'Amministrazione provinciale di Pesaro-Urbino si sono costituiti, eccependo preliminarmente l'inammissibilità del ricorso sotto più profili (per tardività dell'impugnazione del decreto d'esproprio, per duplicazione dei giudizi, per violazione dell'art. 26 della l. n. 1034 del 1971 poiché la domanda non è diretta a dichiarare l'invalidità del provvedimento ma l'inefficacia, per difetto di giurisdizione poiché l'azione è volta ad una tutela reintegratoria-risarcitoria senza essere supportata da una tempestiva impugnazione degli atti procedimentali).
Nella camera di consiglio del 10 luglio 2002 è stata respinta la domanda ex art. 1168 c.c. di reintegra nel possesso.
Il ricorrente ha depositato documenti e scritti difensivi.
DIRITTO
1. I due ricorsi devono essere riuniti stante la loro evidente connessione.
2. Deve essere esaminato con precedenza il ric. n. 307 del 2002.
2.1. Il decreto d'espropriazione impugnato 28 dicembre 2001 interessa la realizzazione di opere viarie (strada s.p. n. 14 di Gradara) nel territorio del Comune di Gabicce ed è atto finale del procedimento iniziato con la delibera 14 ottobre 1997, n. 943, dichiarativa di pubblica utilità dell'opera per essere stata adottata dalla Giunta provinciale ai sensi della l. n. 1 del 3 gennaio 1978, dell'art. 8 della l.r. 18 aprile 1979, n. 17 e dell'art. 14, 13° comma, della l. n. 109 del 1994.
Nell'elenco allegato a detta delibera accanto all'indicazione della ditta proprietaria "C. Cesare" sono riportati i dati catastali (f. 5, mappale 106, superficie are 4, centiare 40) di un frustolo di terreno del quale la superficie da occupare è fissata in mq. 10; il decreto d'esproprio riferisce di una superficie espropriata di mq. 24.
Le censure dedotte in ricorso attengono direttamente (o sostanzialmente) agli atti del procedimento che precedono l'emanazione del decreto d'esproprio, unico atto formalmente impugnato.
Secondo un costante indirizzo giurisprudenziale (cfr.: Cons. St., sez. VI, sent. n. 317 del 27 maggio 1991), l'identificazione degli atti impugnati deve essere operata non già con formalistico riferimento all'epigrafe del ricorso, bensì in relazione all'effettiva volontà del ricorrente desumibile dal gravame nel suo insieme, dai motivi prospettati e da ogni altro elemento utile, quand'anche gli atti non siano stati espressamente menzionati (cfr.: Cons. St., Ad. Pl., 13 ottobre 1998, n. 7).
Oggetto del giudizio sono, dunque, tutti gli atti del procedimento, ivi compresa la delibera 14 ottobre 1997, n. 943 (che si assume, affetta dal vizio di difetto d'istruttoria) e la Provincia di Pesaro-Urbino, alla quale il ricorso è stato notificato, ha la veste d'autorità emanante.
Conseguentemente, ove dovesse essere riconosciuta la veste di (unico) controinteressato al Comune di Gradara, come ipotizzato in memoria dalla difesa dei due Enti intimati, il ricorso sarebbe dovuto essergli notificato, pena l'inammissibilità del ricorso medesimo per insanabile difetto del contraddittorio.
Unitamente al Comune di Gabicce, ed alla Provincia di Pesaro ed Urbino il Comune di Gradara ha sottoscritto una convenzione (ex art. 24 l. n. 142 del 1990 del 28 marzo 1998) finalizzata alla realizzazione dell'opera, appare perciò essere titolare di una posizione giuridica e qualificata d'interesse alla conservazione dell'atto impugnato e del procedimento.
Verificata la presenza dell'elemento sostanziale, manca quello formale della menzione del Comune di Gradara nell'atto impugnato o della sua possibilità di facile individuazione attraverso questo.
2.2. Fondata, invece, è l'assorbente eccezione d'inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso per mancato suo deposito entro il decadenziale termine di 15 giorni dalla notifica.
Il presente giudizio ha a suo oggetto il sindacato di legittimità di provvedimenti relativi ad una procedura "d'occupazione e d'espropriazione d'aree" destinate ad un'opera pubblica di cui al comma 1° dell'art. 23-bis della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (articolo aggiunto dall'art. 4 della l. n. 205 del 2000) perciò trova applicazione il comma 2° che riproduce l'art. 19 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla l. 23 maggio 1997, n. 135.
Per quest'ultima disposizione nei giudizi in materia di opere pubbliche "tutti" i termini processuali erano ridotti alla metà, la nuova disciplina sostitutiva ha unicamente escluso l'abbreviazione dei termini "per la proposizione del ricorso".
Il termine ordinatorio è stato ripristinato non per il deposito, che si sostanzia in un adempimento materiale, ma per la sola notificazione ("proposizione del ricorso"), data l'obiettiva difficoltà di una tale distinta operazione, necessariamente proceduta dalla scelta del difensore, dall'attribuzione dell'incarico, dalla redazione dell'atto di ricorso (cfr. Cons. St., sez. V, 18 marzo 2002, n. 1559).
Nella specie, il deposito del ricorso, notificato il 19-20 marzo 2002 sarebbe dovuto essere eseguito entro il 4 aprile 2002 e non il 17 aprile 2002, con conseguente sua inammissibilità.
Ad avviso del Collegio non sono ravvisabili elementi tali da indurre a concedere la riammissione nei termini in ragione della scusabilità dell'errore, affermata dal ricorrente in memoria e nella camera di consiglio del 18 giugno 2002.
Pur con qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza (Cons. St., sez. V, ord. 23 gennaio 2001, n. 496; id., sez. V, 18 marzo 2002, n. 1559; id., sez. VI, 8 aprile 2002, n. 1906; C.S.I., 12 giugno 2001, n. 287; TAR Lombardia, sez. Brescia, 27 gennaio 2001, n. 44; TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, 4 aprile 2001, n. 277; TAR Marche, 10 febbraio 2001, n. 185; id., 2 settembre 2002, n. 961) ha attribuito all'espressione "proposizione del ricorso" il significato processuale letterale che normalmente le è proprio, com'è possibile ricavare dal testo di norme processuali di larga e quotidiana applicazione quale ad es. l'art. 28, comma 2 della l. n. 1034 del 1971 per il quale il ricorso in appello al Consiglio di Stato è "da proporre nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione" della sentenza di primo grado.
D'altro canto, "anche ammessa la legittimità del dubbio interpretativo... nulla avrebbe impedito di seguire la soluzione più prudente" (in tali termini: Cons. St., n. 1559 del 2002, cit.).
3. Anche il ric. n. 470 del 2002 deve essere dichiarato inammissibile.
3.1. Dopo aver ricordato che da tempo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., 17 giugno 1988, n. 4116) hanno fatto propria una nozione ampia di carenza di potere, ritenendo che il potere ablatorio non sussista non solo nei casi di mancata sua attribuzione all'Amministrazione, ma anche quando manchi o sia viziato un c.d. presupposto per il suo esercizio, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la recente sentenza 26 marzo 2003, n. 4 ha tenuto ad evidenziare come, a sua volta, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, fermo l'orientamento comune per il quale gli atti emessi in carenza di potere vanno considerati "nulli", ha sempre ricondotto alla giurisdizione amministrativa le controversie che hanno a loro oggetto un provvedimento ablatorio, e come tale incidente su interessi legittimi, emesso in forza di norme dell'ordinamento la cui violazione è conseguente al non corretto esercizio del potere, ma non alla sua inesistenza.
Secondo le indicazioni su punto del Consiglio di Stato, escluso che possa ricorrere un'ipotesi di mancanza di potere (se dovesse essere accertato che la dichiarazione di p.u. era viziata, non mancava il potere ad emanare il decreto d'esproprio), al contrario, avuto anche riguardo alle ragioni dedotte in ricorso ed alla posizione soggettiva fatta valere, essendo, in astratto, nella specie rivenibile un'ipotesi d'annullabilità per violazione di legge ed eccesso di potere, ad avviso del Collegio, il ricorrente avrebbe dovuto introdurre nei termini un'azione di tipo impugnatorio, anziché un'inammissibile azione volta alla dichiarazione di nullità del decreto d'esproprio (conseguente all'accertamento dell'inesistenza di uno degli elementi essenziali dell'atto), non proponibile né in questa sede, ne'innanzi al Giudice ordinario.
Non ha, dunque, positivo ingresso, con riguardo alla domanda di dichiarazione di nullità del decreto d'esproprio, l'eccezione di difetto di giurisdizione, supportata in memoria con il richiamo alla sentenza n. 3819 del 2002 della IV Sezione del Consiglio di Stato, non condivisa dall'Adunanza Plenaria nella sopra richiamata sentenza n. 4 del 2003 (il thema decidendum attiene al cattivo esercizio del potere ablatorio, suscettibile d'incidere su interessi legittimi anche in ipotesi di trasformazione ed esproprio di un'area maggiore rispetto a quella asservita con la dichiarazione di p.u.).
3.2. D'altro canto, la domanda principale di accertamento di nullità in esame non può essere compresa tra le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo dall'art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, ivi incluse quelle aventi per oggetto "comportamenti" delle Amministrazioni pubbliche in materia urbanistica e edilizia, nell'ambito della quale è riconducibile l'istituto dell'espropriazione per pubblica utilità (Cass., SS.UU., 17 dicembre 2001, n. 15939) perché concerne uno degli "aspetti dell'uso del territorio" (vedi commi 2° e 3° dell'art. 34, come sostituito dall'art. 7, comma 1, lett. B della l. n. 205 del 2000).
Vero è che a seguito dell'entrata in vigore del citato art. 34 del d.lgs. n. 80 del 1998; la giurisdizione amministrativa si è estesa fino a comprendere le controversie promosse in determinate materia, a tutela di posizioni di diritto soggettivo lese da attività meramente materiali, attuate da operatori della Pubblica Amministrazione.
Non di meno, come osservato nella precitata sentenza n. 4 del 2003 dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, un "comportamento" per sua natura, non è equiparabile ad un provvedimento che, ove rivesta profili lesivi, va rimosso mediante un giudizio di tipo impugnatorio; né la circostanza che una materia è attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo implica che tutte le controversie debbano concernere diritti soggettivi e che non possa essere altrimenti individuato "il tipo di situazione soggettiva lesa (d'interesse legittimo o di diritto soggettivo)".
Ha dunque, fondato riscontro l'eccezione di inammissibilità della domanda principale per essere stata introdotta, oltre i prescritti termini di decadenza, un'azione, surrettiziamente dichiarativa di nullità, ma, nella sostanza, di tipo impugnatorio e cassatorio.
4. Accertata giudizialmente la permanenza dell'efficacia degli atti del procedimento espropriativo controverso, resta preclusa ogni azione volta al ripristino della situazione preesistente ed al riconoscimento del diritto di proprietà, in capo all'espropriato, sul bene acquisito dal Comune intimato, e ciò per effetto di un atto di esproprio divenuto, per quanto detto, inoppugnabile.
Resta da verificare se possa essere introdotta, e con quale esito, la subordinata azione del risarcimento del danno per equivalente.
4.1. La sopra richiamata sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 4/2003 perviene, fra l'altro, alla conclusione della non proponibilità di un'autonoma azione di risarcimento del danno derivante da lesione di un interesse e legittimo, ove non sia stata proposta impugnazione dell'atto amministrativo presupposto, il cui annullamento sarebbe, perciò, pregiudiziale all'azione risarcitoria medesima.
Sul punto, peraltro, il dibattito giurisprudenziale e dottrinario è ancora lontano dall'essere concluso, nonostante molte autorevoli prese di posizione in proposito; anche se è prevalente l'orientamento favorevole alla necessità della tempestiva impugnazione dell'atto lesivo, in vista dell'apertura di fasi processuali risarcitorie conseguenti, resta ampio spazio per talune riflessioni diversamente concludenti.
Con sentenza 4 febbraio 2003, n. 22 questo Tribunale ha risolto positivamente la questione dell'ammissibilità di un'autonoma azione d'accertamento del diritto al risarcimento del danno lamentato dalla parte ricorrente, in dipendenza dell'illecita acquisizione, da parte di un Comune, della proprietà di terreni, mediante occupazione appropriativa conseguente all'abusivo, irreversibile asservimento degli stessi all'uso pubblico in favore dell'Ente locale, a seguito della loro occupazione d'urgenza in pendenza di un procedimento espropriativo protrattasi oltre il termine di legge, senza che ad essa avesse fatto seguito, per tempo, il decreto di esproprio definitivo. In mancanza di un atto conclusivo del procedimento (il decreto d'esproprio) e della naturale (per decorso dei termini) perdita d'efficacia del decreto d'occupazione, in quella controversia era chiesta la tutela di un diritto soggettivo (di proprietà), compromesso illecitamente dal comportamento attuato da agenti della Pubblica Amministrazione in carenza di potere e riguardo al quale questo Tribunale ha riconosciuto sussistere la propria giurisdizione.
L'accertamento di un illecito comportamento ha poi consentito la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno ex art. 35, comma 1, del citato d.lgs. n. 80 del 1998.
Ove la tutela sia richiesta nel caso di improprio uso del potere e la posizione del ricorrente sia riconducibile ad ipotesi di interesse legittimo, una più attenta dottrina e parte della giurisprudenza hanno evidenziato come l'annullamento dell'atto lesivo, sia una priorità logica e giuridica, per la restitutio in integrum e, dunque, per il risarcimento in forma specifica, rendendosi necessario rimuovere, a tal fine, gli effetti del provvedimento di cui è accertata e dichiarata l'illegittimità e che gli effetti autoesecutivi dell'annullamento costituiscono di per sé risarcimento dal danno in forma specifica (Cons. St., sez. VI, 18 dicembre 2001, n. 6281), impregiudicata restando l'eventualità di danni ulteriori.
Senza affrontare, in questa sede, la complessa ed ancora irrisolta problematica della natura contrattuale o da fatto illecito della responsabilità a fronte di lesione di interessi pretesivi, resta da esaminare la diversa ipotesi del risarcimento del danno per equivalente.
Con la nota sent. 22 luglio 1999, n. 500/99 le SS.UU. della Cassazione avevano prospettato una sorta di disgiunzione tra il diritto al risarcimento del danno e la situazione giuridica oggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto (diritto soggettivo, interesse legittimo, interesse comunque rilevante per l'ordinamento) e sostituito alla regola dalla pregiudizialità necessaria di un giudizio di annullamento, il potere del giudice (all'epoca: ordinario) di conoscere incedenter tantum dell'illegittimità dell'azione amministrativa, essendo questa uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c.
Discendeva da tale impostazione che, non essendo necessario fondare l'azione per il risarcimento su un diritto soggettivo da riespandere, non era data per necessaria la pregiudizialità dell'annullamento dell'atto lesivo.
A fronte di due distinte domande attribuite a giudici diversi, non esisteva, dunque, alcun rapporto di pregiudizialità tra azione risarcitoria e ricorso impugnatorio.
Anche nell'assetto precedente alla l. 205 del 2000, ed ancora prima della sentenza n. 500 del 1999, la pregiudizialità di una sentenza amministrativa d'annullamento dell'atto lesivo, determinativo di danno risarcibile, era rilevante presso il giudice ordinario, non sotto il contenuto strettamente inerente all'annullamento, sibbene sotto il profilo della qualificazione dell'atto quale illegittimo.
Ciò in quanto, indipendentemente dall'effetto cassatorio della sentenza amministrativa, il giudice ordinario doveva accertare se si fosse verificata un'ipotesi di danno ingiusto, rectius: di ingiustizia del danno, in quanto tale, passibile di riparazione in forma economica.
Assegnata dalla l. n. 205 del 2000 al giudice amministrativo la competenza a pronunziarsi su ogni domanda di risarcimento dal danno derivante da atti lesivi, rientrante nell'ambito della propria giurisdizione, anche di legittimità (art. 7, comma 3, della l. n. 1034 del 1971, come modificato dall'art. 7 della l. 205 del 2000) il legislatore ha evidentemente operato un completo trasferimento, in una con le situazioni giuridiche, di tutti i poteri in precedenza spettanti al giudice ordinario, innanzi al quale non era ravvisabile alcuna posizione subalterna dell'azione di risarcimento, rispetto, a quella di annullamento, unicamente avendosi, nei casi di specie, un mero potere di disapplicazione di atti ritenuti lesivi, che tuttavia, lasciava integro il provvedimento amministrativo, aprendo la via a pronunzie risarcitorie per equivalente.
E questo era il presupposto essenziale della eventuale condanna al risarcimento dei danni, secondo il dettato dell'art. 2043 c.c., fermo restando che in quello schema processuale, restava sostanzialmente irrilevante il fatto in sé, dell'annullamento dell'atto impugnato, poiché questo era un mero effetto del tipo di giurisdizione amministrativa esercitata e che presupponeva, sempre e comunque, una azione cassatoria.
L'annullamento dell'atto era perciò considerato, presso l'ordinaria giurisdizione, come un mero indice sintomatico della sussistenza di un caso di ingiustizia dell'atto (e quindi dell'eventuale danno conseguente), ricavata dalla pronunzia della sua illegittimità.
Ne deriva che, l'effetto dell'annullamento conseguente, veniva a costituire, nel giudizio civile risarcitorio, una funzione del tutto marginale ed intrinsecamente inconferente - in sé - alla pronuncia sul danno, che appunto si incentrava precipuamente sull'ingiustizia di questo, e solo indirettamente sull'evento cassatorio venuto in essere nella sede giudiziale amministrativa, essendo questo un carattere peculiare della giurisdizione ivi esercitata e rispondendo alla relativa conformazione strutturale e funzionale del processo.
Dopo la l. 205 del 2000 deve, perciò, aversi una perfetta coincidenza tra il trasmesso e il ritenuto, nel senso che, in materia, il giudice amministrativo non può avere potere, né maggiore, né minore, né diverso rispetto a quanto fosse precedentemente devoluto al giudice ordinario.
Del profondo cambiamento che ha subito la giurisdizione amministrativa, ampliata per dare un'incisiva risposta al principio dell'effettività della tutela, occorre che il giudice amministrativo prenda atto e che si adegui non tanto e non solo ai principi giurisprudenziali, affermati dal giudice ordinario, quanto agli strumenti processuali - e sostanziali - trasmessigli, senza tentare di ricondurli entro gli ambiti dell'assetto tradizionale del processo amministrativo, che in più di un caso può rivelarsi obsoleto e non più rispondente alle esigenze sopravenute e, finanche, all'ordinamento comunitario.
Un nesso di conseguenzialità tra le due azioni è ancor meno accettabile ove si abbia riguardo al fatto che impropriamente ed in contrasto con le conclusioni cui sono pervenute le SS.UU. della Suprema Corte di Cassazione si è parlato, e si parla, di risarcibilità degli interessi legittimi e correlativamente di nascita del diritto al risarcimento, in via eventuale, solo dopo l'annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo dell'interesse legittimo.
Una tale tesi rimane ancorata alla concezione che intende l'interesse legittimo come diritto soggettivo degradato, riconducibile alle primitive forme, solo da una pronunzia di annullamento.
In realtà il diritto soggettivo al risarcimento nasce con l'emanazione di un atto contra legem ed è posizione sostanziale del tutto distinta dall'interesse legittimo, pur esso compromesso e facente capo al medesimo soggetto.
Fonte di tale diritto è l'illegittimo esercizio della funzione pubblica, in quanto lesivo, non tanto dell'interesse legittimo, ma del diritto all'integrità, latu sensu, patrimoniale del soggetto inciso.
L'azione di annullamento e l'azione di risarcimento per equivalente si basano, invero, su differenti presupposti sostanziali.
Quello che in realtà viene ad essere risarcito, resta sempre e in ogni caso un "diritto", leso da un provvedimento illegittimo, e tale dichiarato su impulso di un soggetto il cui "bene della vita", perseguito attraverso uno specifico mezzo approntato dall'ordinamento (l'azione di risarcimento per equivalente) non è più (o non è mai stato, in sé), l'annullamento e la restitutio in integrum conseguente, ma il ristoro economico e la soddisfazione patrimoniale.
Diversamente argomentando, in tutti i casi di accoglimento del gravame amministrativo, si avrebbe un conseguente risarcimento, poiché la lesione dell'interesse legittimo che determina l'annullamento dell'atto amministrativo impugnato, sarebbe ex se, diretto antecedente di una condanna che non richiederebbe neppure quell'indagine sull'esistenza dell'elemento della colpa che è invece necessaria per casi di responsabilità extracontrattuale.
Passibile di risarcimento è, dunque, il diritto compromesso dall'atto illegittimo e non la lesione in sé di un interesse legittimo che trova, peraltro, ove richiesta dal ricorrente, diversa soddisfazione nell'annullamento dell'atto e nel conseguente rinnovo del procedimento (ove sia rilevato un vizio formale e procedurale) o nel ripristino della situazione quo ante (ove in sede di giudizio d'ottemperanza non si opponga l'irreversibilità della situazione di fatto (con riferimento alla materia dell'espropriazione vedasi l'art. 43 del t.u. che non regola la fattispecie in esame, per il quale, a fronte dell'annullamento dell'atto da cui è sorto il vincolo preordinato all'esproprio, o dell'atto che ha dichiarato la pubblica utilità, o del decreto d'esproprio, la P.A. che detiene - illegittimamente - il bene per scopi di pubblico interesse, può acquisirlo, provvedendo ad un risarcimento pecuniario).
La pregiudizialità dell'azione d'annullamento ha un senso solo se s'intende preservare una concezione di un sistema di giustizia amministrativa inteso in via prioritaria a preservare l'interesse pubblico, mentre la soddisfazione dell'interesse sostanziale del cittadino viene ad essere un risultato ulteriore e concettualmente secondario.
Tale concezione ignora che la funzione amministrativa non si esaurisce con l'emanazione di un atto, ma si conserva anche successivamente, attraverso l'autotutela, il riesame e l'eventuale ulteriore intervento avente ad oggetto il nuovo assetto d'interessi "illegittimamente" determinato.
La "scelta", sia dell'Amministrazione che del ricorrente, può essere anche quella di mantenere, in ragione d'interessi pubblici sopravvenuti, o di ragioni private di convenienza, la situazione in essere, frutto di un atto efficace, benché viziato. Ciò non di meno, di tale eventualità non può venirne a soffrire il ricorrente, che ha diritto ad esercitare nei termini di prescrizione (e non di decadenza) l'azione risarcitoria (per equivalente), ove non intenda anche caducare l'atto lesivo recuperando le eventuali posizioni giuridiche preesistenti.
Non è da trascurare il profilo processuale che deriva da quanto esposto.
Il termine entro cui proporre l'azione giudiziaria a pena di decadenza costituisce un onere che incide sull'azione d'annullamento, ma non ha forza estintiva di diritti, né può processualmente condizionare l'azione di risarcimento del danno derivante da fatto illecito il cui diritto, per l'art. 2947, comma 1, c.c., si prescrive in cinque anni.
All'acquiescenza al provvedimento amministrativo ed ad una rinunzia ad ottenerne l'annullamento e l'eliminazione dei suoi effetti, non necessariamente si accompagna la rinunzia del privato leso ad ottenere tutela risarcitoria, essendo due i mezzi processuali offertigli dall'ordinamento a tutela di posizioni giuridiche distinte (la prima d'interesse legittimo, la seconda di diritto soggettivo) e per il perseguimento di differenti "beni della vita" (la reintegrazione della situazione preesistente, mediante la rimozione dell'attività illegittima, ovvero, qualora l'evoluzione fattuale la renda impossibile per il principio factum infectum fieri nequit, la quantificazione in denaro del pregiudizio subito).
Far derivare dall'estinzione dell'azione di annullamento, sempre e in ogni caso quella risarcitoria, solleva forte dubbi di costituzionalità, per contrasto della l. 205/2000 e gli artt. 24 e 113 della Costituzione.
Ed, invero, verrebbe inevitabilmente in atto una reformatio in pejus nella posizione processuale del soggetto danneggiato per illegittimo esercizio di poteri autoritativi rispetto agli assetti pregressi e che si evidenzia laddove avesse ad imporsi il rispetto di tempi decadenziali relativamente ad ipotesi di violazione di interessi legittimi, anche ai fini della proponibilità di azione di danno, ciò che concerne il distinto e autonomo caso di lesione di diritti, passibili di ristoro in senso patrimoniale.
Il paradigma che pertanto si profila in materia, configura l'annullamento dell'atto come correlato della violazione di un interesse legittimo, mentre il risarcimento del danno come attinente alla lesione di un diritto, con la conseguenza dell'evidente improprietà dell'espressione "risarcimento di interessi legittimi" che - nel quadro sopra esposto - appare incoerente rispetto ai termini ed al loro significato strettamente giuridico.
Si profila, pertanto, una situazione maggiormente conferente con i principi civilistici e che consta di due possibilità - in via di massima alternative - che si incentrano sulla possibilità di esercitare scelte liberamente opzionali circa l'esecuzione in forma specifica (ciò che richiede impugnazione di atti lesivi in termini di decadenza, utile anche ad eventuali richieste risarcitorie successive), ovvero circa il diretto ed esclusivo risarcimento del danno ingiusto, lasciando intangibili gli effetti dell'atto che verrebbe così valutato unicamente al fine di individuare nella fattispecie profili di illegittimità che non sono preordinati ad intenti cassatori, ma che costituiscono meri indici sintomatici di antigiuridicità e, quindi, della più volte richiamata ingiustizia del danno potenzialmente arrecato.
Ed è il caso del richiedente il rilascio di un'autorizzazione commerciale, ottenuta dopo lungo tempo e solo parzialmente satisfattiva quanto al suo contenuto, che potrebbe aver perso l'interesse ad attivare un'attività commerciale, ma non ad essere risarcito dei danni subiti.
Ma tornando ai segnalati profili di perplessità circa la costituzionalità del costrutto complessivo introdotto in tema dalla novella del 2000, si rileva che, secondo l'art. 24 Cost. "tutti possono agire in giudizio per la tutela di diritti e interessi legittimi".
Per l'art. 113 Cost. la tutela giurisdizionale, sia dei diritti sia degli interessi, non può essere limitata. E tale conseguenza si avrebbe se fosse ammessa la possibilità di un'anticipata sostanziale estinzione di un diritto al risarcimento che, in quanto tutelabile innanzi al giudice amministrativo, sarebbe sottoposto ad un'ulteriore condizione non ravvisabile ove la medesima fosse a portata innanzi al giudice ordinario, con conseguente - si ripete - reformatio in pejus del nuovo schema processuale.
Né è opponibile al potere di conoscere incidenter tantum dell'illegittimità dell'azione amministrativa l'assunto per il quale al giudice amministrativo è preclusa la disapplicazione degli atti amministrativi ad eccezione di quelli regolamentari (cfr. Cons. St., sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154).
Ad una cognizione portata incidentalmente e strumentalmente sull'atto, al fine di verificare se un interesse legittimo è stato illegittimamente leso, non necessariamente deve seguire - come già detto - la non ammissibile disapplicazione, incidente sull'efficacia e sull'esecutorietà dell'atto autoritativo.
Se in mancanza di una decisione d'annullamento dell'atto non può essere esperita un'azione di risarcimento del danno in forma specifica e ripristinatoria della situazione preesistente all'emanazione di atti divenuti inoppugnabili perché incidente sulla loro efficacia, non sono ravvisabili ragioni di non ammissibilità di una domanda di risarcimento del danno per equivalente (non sussidiaria rispetto a quella d'annullamento, ma autonoma e distinta), riguardo alla quale è richiesta la pregiudiziale verifica dell'esistenza del presupposto dell'illegittimità dell'atto, ma non del suo necessario annullamento, che perciò non costituisce interesse del ricorrente, essendosi questo concentrato sulla sua alternativa che lascia perciò intatto l'atto amministrativo ed i suoi effetti.
Il risarcimento del danno per equivalente è invero consequenziale all'illegittimità dell'atto e non al suo annullamento, all'"applicazione" e non alla "disapplicazione" sì che la pregiudizialità viene a risiedere nell'illegittimità-illiceità di un atto, la cui efficacia, come detto, permane e per ciò stesso è produttrice di un danno patrimoniale risarcibile.
I sostenitori della regola della pregiudizialità traggono uno degli argomenti a favore della loro tesi dall'art. 7, comma 4, della l. 205 del 2000 (cfr. TAR Campania, Napoli, 8 febbraio 2001, n. 603; id. sez. I, 27 marzo 2002, n. 1651).
Recita la disposizione: "Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali".
L'espressione è volta a significare che anche i riflessi patrimoniali ulteriori (consequenziali = conseguenti) all'illecito ed al danno patito, rientrano nella giurisdizione amministrativa, ma non sancisce alcuna sorta di preclusione né processuale, né sostanziale.
Si replica, infatti, la alternativa civilistica tra risoluzione risarcimento del danno, ovvero esecuzione forma specifica praticabile.
Sembra peraltro registrabile un'incompatibilità tra i principi espressi dall'ordinamento comunitario e la c.d. "pregiudizialità amministrativa".
A partire dagli anni '70 la giurisprudenza della Corte di Giustizia è costante nell'affermare che l'azione di danno, a norma degli artt. 235 e 288 TCE, è nettamente distinta dagli altri mezzi di tutela predisposti dall'ordinamento comunitario, tra i quali l'azione d'annullamento ex art. 230 degli atti comunitari illegittimi.
Questa seconda è esperita nel termine di due mesi (ex art. 230, comma 5, del Trattato), mentre l'azione di risarcimento del danno è esperibile in cinque anni (ex art. 43 dello Statuto della Corte di Giustizia).
Il diritto comunitario non disciplina direttamente i rimedi processuali previsti dagli ordinamenti nazionali e la soluzione adottata dalla Corte di Giustizia non è vincolante per i giudici nazionali, ma rappresenta pur sempre un autorevole precedente, concludente nel senso sopra riferito.
Inoltre, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e la Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea sostengono il principio d'effettività della tutela giurisdizionale per il quale, introdotta un'azione di risarcimento del danno, lo Stato membro è tenuto a rendere il suo esercizio "non disagevole".
Nell'esaminare in singole fattispecie il rispetto del principio d'effettività, la Corte di giustizia ha poi ammesso (sent. 27 gennaio 2003 in causa C-327/2000) la disapplicazione di un atto amministrativo (bando di gara) non impugnato entro i termini decadenziali fissati dalla norma processuale italiana.
Non risponde certo al principio d'uguaglianza il differente trattamento riservato alle posizioni soggettive che traggono loro ragione e fonte nel diritto comunitario (per le quali viene meno il canone dell'inoppugnabilità) e posizioni soggettive che hanno fonte nel diritto processuale interno.
Conclusivamente, sia in ipotesi di giurisdizione esclusiva (in cui oggetto della cognizione è un rapporto), sia di giurisdizione generale di legittimità, l'azione risarcitoria per equivalente è autonoma rispetto all'azione d'annullamento di un provvedimento.
5. Ammessa la proponibilità di un'azione di risarcimento per equivalente senza aver prima esperito una valida azione di tipo impugnatorio al fine di rimuovere l'atto e/o gli atti lesivi di una posizione soggettiva d'interesse legittimo, ha esito negativo l'esame incidentale condotto sulla legittimità degli atti del procedimento ablatorio di cui è causa al fine di superare la presunzione di loro legittimità.
Secondo un costante insegnamento del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2898; id. 26 ottobre 1999, n. 1628) l'eventuale inesattezza circa la misurazione delle superfici espropriate, ove non incida sull'individuazione del bene, non è idonea ad inficiare il procedimento ed, in particolare, il decreto d'esproprio, essendo noto che le superfici di progetto (anche esecutivo) sono suscettibili di variazioni.
Nella specie, nella delibera 14 ottobre 1997, n. 943 sono trascritti i precisi dati catastali del bene da espropriare del quale è stata descritta l'ubicazione, anche se dalla stesura dello stato di consistenza e, in seguito, dell'atto di frazionamento la superficie occupata è stata maggiore di quella inizialmente indicata (ma compresa nel mappale riportato nell'atto dichiarativo di pubblica utilità).
6. Per quanto sopra considerato e dedotto, disposta la loro riunione, i due ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, mentre deve essere respinta la domanda di risarcimento del danno.
Si ritiene equo compensare tra le parti le spese e gli onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale delle Marche, previa loro riunione, dichiara inammissibili i ricorsi nn. 307 e 470 del 2002; respinge la domanda di risarcimento danni.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.