Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 12 marzo 2004, n. 1261
FATTO
Con il ricorso proposto in primo grado gli appellanti hanno impugnato l'ordinanza sindacale di sospensione dei lavori assentiti con concessione edilizia n. 140 del 22.12.1995, nonché il presupposto decreto del Ministero dei beni culturali e ambientali del 6.10.1996, con il quale i beni di proprietà degli stessi appellanti sono stati dichiarati di notevole interesse pubblico. Hanno, inoltre, formulato con motivi aggiunti domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti per la sospensione dei lavori, oltre che per il prospettato aumento dei costi di realizzazione dell'opera imputabile al differimento temporale dei lavori di costruzione.
Con la sentenza gravata, il Giudice di primo grado, riconosciuta l'illegittimità del provvedimento impositivo del vincolo, assunto sulla base di una raffigurazione della realtà considerata (all'esito della disposta consulenza tecnica) "se non distorta, quantomeno trasfigurata", ha invece respinto la domanda risarcitoria reputata sfornita nel necessario supporto probatorio.
Nel dettaglio, quanto al danno emergente, dai ricorrenti identificato nei maggiori costi di costruzione, presumibilmente lievitati rispetto alla data di sospensione dei lavori, il primo Giudice ha escluso la possibilità di procedere ad una loro quantificazione per il tramite di consulente tecnico, in assenza di un'iniziativa probatoria dei ricorrenti.
Quanto, invece, al lucro cessante il Giudice di prime cure ha rimarcato la mancata dimostrazione dell'esistenza di precise proposte di acquisto o locazione o comunque la mancata allegazione di attendibili indagini di mercato circa il fabbisogno abitativo del territorio: elementi, quelli indicati, ritenuti necessari per provare la concreta verificazione di un danno quale conseguenza della mancata disponibilità dell'immobile da rivendere o locare.
Avverso la sentenza ricorre l'appellante sostenendo di aver provato, ancorché con modalità valutabili dal Giudice, tanto il danno emergente costituito dalla differenza in aumento del costo di realizzazione delle opere originariamente assentite, quanto il lucro cessante consistente nella mancata disponibilità degli immobili destinati alla vendita e, pertanto, nella mancata realizzazione del beneficio economico.
Con ordinanza n. 4460/2003 è stato nominato consulente tecnico di ufficio al quale è stato chiesto di quantificare:
1. l'aumento nei costi di costruzione intervenuto nel periodo compreso tra la data di adozione del provvedimento di sospensione e quella di pubblicazione della sentenza di primo grado;
2. il danno derivante dalla mancata disponibilità, per il lasso di tempo suindicato, delle unità abitative realizzate, tenendo conto del fabbisogno abitativo nel mercato territoriale di riferimento, oltre che dei prezzi medi di compravendita delle stesse.
Esaurite le operazioni peritali, sono state depositate le relazioni del consulente tecnico di ufficio, Prof. Saverio Miccoli, nonché quelle di parte, a firma dell'Ing. Giuseppe Vecchi per i ricorrenti e dell'arch. Marisa Bonfatti Paini per il Ministero dei beni culturali e ambientali.
All'udienza del 24 febbraio 2004 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e va pertanto accolto nei termini di seguito espressi.
2. È opportuno preliminarmente precisare che nella specie il danno di cui i ricorrenti invocano il ristoro, pur connesso al ritardo che i provvedimenti contestati in primo grado hanno implicato nell'esplicazione dell'attività costruttiva, già assentita con la sospesa concessione edilizia, presenta connotazioni nettamente diverse da quelle tipiche del danno da ritardo. Volendo utilizzare le classificazioni oramai tradizionali dell'interesse pretensivo e di quello oppositivo, può dirsi, infatti, che il danno c.d. da ritardo è normalmente individuato nella lesione di un interesse legittimo pretensivo, cagionata dal ritardo con cui la P.A. ha emesso il provvedimento finale, inteso ad ampliare la sfera giuridica del privato; viceversa nella specie i ricorrenti agiscono per ottenere il ristoro del pregiudizio asseritamene subito in conseguenza dell'illegittima compressione delle facoltà di cui erano già titolari, in quanto destinatari del titolo concessorio abilitante la sospesa attività edificatoria.
I ricorrenti, in sostanza, non agiscono per ottenere il ristoro del ritardo illegittimo con cui la P.A. avrebbe, in ipotesi, emanato un provvedimento ampliativo della loro sfera giuridica; al contrario, in quanto già titolari di un'iniziale posizione qualificata (rappresentata dal diritto a svolgere - sul presupposto del rilascio, in loro favore, di regolare concessione edilizia - lavori di costruzione di taluni immobili), fanno valere la pretesa ad essere risarciti del danno da disturbo, subito a causa dell'intervenuta adozione del decreto del Ministero dei beni culturali e ambientali del 6.10.1996, con il quale i beni di proprietà degli stessi appellanti sono stati dichiarati di notevole interesse pubblico, e della conseguente ordinanza sindacale di sospensione dei lavori assentiti con concessione edilizia n. 140 del 22.12.1995.
Trattasi, pertanto, di una situazione diversa da quella solitamente posta a fondamento del postulato diritto al risarcimento del danno cd. da ritardo, e caratterizzata dalla lesione di un interesse di tipo cd. oppositivo consistente nella pretesa a non essere "disturbato" nel libero esercizio delle facoltà inerenti al diritto dominicale.
Della descritta consistenza della situazione soggettiva asseritamene compromessa è necessario tener conto nel vagliare la fondatezza della proposta domanda risarcitoria e nell'accertare quindi: 1) se la P.A. abbia agito, nella vicenda in esame, in violazione di norme e principi dall'ordinamento; 2) se la condotta pubblica sia qualificabile come colposa; 3) se, infine, sussista il necessario nesso eziologico tra la condotta e il danno.
Presenti gli indicati elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, sarà ancora necessario procedere alla quantificazione del pregiudizio ristorabile.
Si tratta di accertamento, come noto, rimesso al Giudice amministrativo sulla scorta del quadro normativo delineato dal d.lgs. n. 80/1998 e dalla l. n. 205/2000 in omaggio ad esigenze di concentrazione processuale che, tanto più se considerate dal punto di vista del soggetto asseritamene leso, appaiono ormai irrinunciabili.
Si consideri, infatti, che, prima delle importanti novità apportate in punto di giurisdizione dai citati interventi legislativi, la giurisprudenza di Cassazione aveva ammesso, sia pure dopo non poche oscillazioni, il risarcimento del danno da compromissione degli interessi di tipo oppositivo (ancorché trasfigurati in termini di diritti risorti), riconducendo tuttavia la relativa vicenda processuale entro un tipico e quanto mai defatigante schema bifasico (annullamento dell'atto lesivo/riespansione del diritto/risarcimento del diritto illegittimamente compresso) che vedeva il necessario coinvolgimento tanto del g.a. - nella fase dell'annullamento - quanto del g.o. - nella successiva vicenda risarcitoria -.
Particolarmente pregnanti le affermazioni contenute nella sentenza Cass. Civ., Sez. Un., 19 marzo 1997, n. 2436, secondo cui "una volta emanata dal giudice amministrativo una pronuncia definitiva di annullamento per illegittimità del provvedimento di revoca o di decadenza della concessione amministrativa, deve riconoscersi azione davanti al giudice ordinario per conseguire il ristoro dei danni derivanti da quell'atto illegittimo, a prescindere dalla ragione dell'illegittimità medesima, atteso che la posizione del suddetto titolare, avendo natura di diritto soggettivo, prima del provvedimento di decadenza, riacquista questa consistenza per effetto del venir meno retroattivamente dell'affievolimento scaturito dal provvedimento stesso, in conseguenza del suo annullamento". Ed invero, "qualora il provvedimento di concessione sia stato annullato o revocato dal medesimo organo che l'aveva emanato e di questo ulteriore provvedimento amministrativo, riconosciuto illegittimo, sia stato poi pronunciato l'annullamento dal competente giudice amministrativo, non può negarsi il diritto al risarcimento del danno a favore del concessionario, perché costui, essendo in origine beneficiario di un provvedimento dal quale gli era derivato un vero e proprio diritto soggettivo, è titolare di una posizione che riceve piena tutela da parte dell'ordinamento giuridico. E a questa conclusione perviene la giurisprudenza quando afferma che l'annullamento dal parte del giudice amministrativo dell'atto, che aveva determinato l'affievolimento del diritto soggettivo del privato, ne rimuove gli effetti e, rendendo configurabile una lesione del diritto soggettivo per fatto illegittimo della pubblica amministrazione, opera quale presupposto necessario dell'azione di risarcimento (v., da ultimo, Cass. 9 giugno 1995 n. 6542; cfr. pure Cass. Sez. Un. 27 maggio 1994 n. 5210)".
Si trattava, tuttavia, di complicazione processuale non più coniugabile, da un lato, con il superamento della concezione soggettiva dell'illecito aquiliano (definitivamente sancito dalle Sezioni unite, per quel che attiene ai rapporti tra privati e Amministrazioni, con la citata sentenza n. 500/1999) e, dall'altro, sul versante applicativo, con la rimarcata esigenza di concentrazione processuale.
2. Ciò posto, occorre verificare la sussistenza, distintamente per ciascuna delle due Amministrazioni chiamate in causa dai ricorrenti, dei singoli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità prospettata dai ricorrenti nell'invocare il ristoro del danno che sostengono di avere subito per effetto dell'intervenuta adozione del decreto del Ministero dei Beni culturali e ambientali del 6 ottobre 1996, con cui sono stati dichiarati di notevole interesse pubblico i beni degli appellanti, e della successiva ordinanza del Sindaco di Oria n. 119 del 16 dicembre 1996, di sospensione dei lavori già assentiti con concessione edilizia n. 140 del 22 dicembre 1995.
Con riferimento al primo dei tre indicati elementi, le Sezioni Unite hanno sostenuto la sufficienza dell'illegittimità del provvedimento lesivo, senza pretendere, diversamente che per l'ipotesi di lamentata lesione di interessi pretensivi, un giudizio prognostico: sullo sfondo l'assunto secondo cui la preesistenza del bene della vita al provvedimento è di per sé sufficiente a dimostrare la consolidazione del danno (Cass., S.U., n. 500/1999).
Il Collegio non ignora le critiche, in parte anche convincenti, mosse alla riportata posizione giurisprudenziale, idonea, nella sua perentorietà, ad innescare un sistema di protezione degli interessi oppositivi ingiustificatamente eccessivo.
Ed invero, se il provvedimento compressivo è viziato per ragioni attinenti alla sola forma oppure al solo procedimento, ma risulta ineccepibile sul piano sostanziale, la pubblica Amministrazione potrebbe adottare un provvedimento di identico contenuto sfavorevole per il privato. In questa situazione è difficile giustificare un diritto a risarcimento, salvo a sganciare la responsabilità dell'Amministrazione dal paradigma aquiliano, con conseguente differente valutazione dei presupposti fondanti il diritto al ristoro e distinta quantificazione dei pregiudizi riparabili. Si pensi al caso di una concessione edilizia che sia ritirata con provvedimento di annullamento sostanzialmente giusto, in quanto per esempio inteso a riparare alla violazione della disciplina pubblicistica sui limiti di edificabilità previsti dal piano regolatore generale o dal regolamento edilizio, ma tuttavia affetto da vizio procedimentale, quale in ipotesi la mancata comunicazione dell'avvio del procedimento.
In ipotesi siffatte, ad onta della illegittimità del provvedimento di ritiro, l'Amministrazione, senza nuovamente incorrere nel rilevato vizio formale, potrà successivamente reiterare l'annullamento del titolo abilitativo.
In una prospettiva meno formalistica, quindi, il privato non potrebbe sostenere la lesività sostanziale del primo provvedimento di annullamento, inficiato da illegittimità solo formale attesa la non spettanza ab initio del bene della vita sottrattogli.
Si è cercato per vero di porre rimedio al rischio di iperprotezione degli interessi oppositivi innescato dalla tesi favorevole ad introdurre un'equiparazione tra illegittimità della determinazione provvedimentale ed integrazione dell'elemento oggettivo della fattispecie di responsabilità: alla ricerca, in particolare, di un criterio che assicuri l'ingiustizia sostanziale dell'azione amministrativa è stata da taluni sostenuta l'utilità della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, i soli, questi ultimi, a connotare di ingiustizia il danno cagionato dal provvedimento che ne è affetto.
La tesi non ha del tutto convinto chi propone, invece, di distinguere a seconda dell'attitudine dei vizi formali ad incidere sull'esito del procedimento
Se, infatti, l'ingiustizia del danno va senz'altro esclusa allorché sia provato che l'Amministrazione non avrebbe diversamente deciso pure osservando la regola violata, la questione appare più complessa qualora si sia al cospetto di un potere in qualche aspetto discrezionale e sia incerto, quindi, se la violazione delle regole formali abbia inciso sulla possibilità di esito favorevole del procedimento.
Si tratta dei casi in cui non è possibile escludere che un diverso svolgimento delle cose, conforme alle regole formali, avrebbe condotto ad una decisione diversa da quella che è stata adottata e più favorevole all'interessato.
Ciò posto sul piano dell'inquadramento dommatico, il Collegio pone in evidenza che, per effetto della mancata proposizione di alcun ricorso incidentale da parte delle Amministrazioni resistenti, deve ritenersi coperto da giudicato il capo della sentenza di primo grado che ha dichiarato l'illegittimità dei provvedimenti impugnati in prima istanza.
Nel dettaglio, la sentenza di primo grado ha riscontrato, con specifico riferimento al decreto del Ministero dei Beni culturali e ambientali del 6 ottobre 1996, un doppio profilo di illegittimità, procedimentale il primo, sostanziale il secondo.
Sul primo versante, è stato accolto il quarto motivo di gravame formulato in prima istanza, incentrato sulla ritenuta disapplicazione delle garanzie di partecipazione procedimentale.
Ben più rilevante, nella odierna prospettiva risarcitoria, quanto dal primo Giudice statuito in merito alla illegittimità sostanziale dell'indicato decreto ministeriale.
Premessa l'insindacabilità della componente tipicamente valutativa del giudizio estetico sotteso all'imposizione del vincolo, il Giudice di primo grado ha al riguardo ritenuto di poter sindacare, in modo anche penetrante e ab intrinseco, l'esattezza della percezione avuta dall'Amministrazione della realtà naturalistica dichiarata di notevole interesse pubblico: percezione risultante da apposita relazione tecnica che, utilizzata dall'Amministrazione in sede di adozione del contestato e suindicato decreto ministeriale, ha fatto riferimento alla presenza di strutture romane, di un «antico tempio», di «giardini storici, pozzi, cisterne e muretti a secco che testimoniano dell'antico sistema di sfruttamento delle risorse locali», di un «insediamento rupestre di epoca alto-medioevale».
All'esito della disposta consulenza tecnica, il Giudice di prime cure ha quindi concluso osservando che "le componenti del paesaggio collinare della contrada denominata Colle Impisi, descritte nella relazione ministeriale, hanno una consistenza assai modesta rispetto a quella suggestivamente tratteggiata nella relazione medesima e che appare quasi una trasfigurazione lirica di una realtà ben più ordinaria e convenzionale".
In particolare, ha osservato che "il Ministero ha basato la sua decisione su una inesatta descrizione dei luoghi e del pregio intrinseco degli elementi che lo compongono".
In primo luogo, infatti, non è risultata "traccia dei resti dell'«antico tempio» menzionato nella relazione dell'arch. Teseo", come pure non è emersa l'esistenza di "tipica vegetazione mediterranea. Quanto all'esistenza di «giardini storici» o comunque di particolare pregio", il primo Giudice, sulla scorta degli esiti della disposta consulenza tecnica, ha rilevato che "si tratta di sistemazioni recenti, derivanti da un'operazione di riassetto del verde privato che si colloca fra gli anni '70 e '80, condotta senza alcun disegno o progetto prestabilito. Esistono poi delle cavità naturali, a monte della zona vincolata, nelle quali non vi è però traccia di insediamenti umani di epoca alto-medioevale. Si tratta di speroni calcarenitici, tipici del Salento, i quali formano oggetto di opere di consolidamento nel 1950 e nel 1990, uniche tracce di antropizzazione individuate sia dal consulente tecnico di parte che dal CTU".
Sulla scorta delle riportate osservazioni, il primo Giudice ha quindi osservato, con statuizione coperta da giudicato, che "la proposta della Soprintendenza si è basata su una raffigurazione della realtà, se non distorta, quantomeno «trasfigurata». Ciò ha trasformato l'inevitabile opinabilità propria dei giudizi di carattere estetico in una rappresentazione del tutto soggettiva, avulsa cioè dall'applicazione di qualsivoglia criterio tecnico-scientifico".
L'attenta valutazione, spiccatamente sostanziale, formulata dal Giudice di primo grado in merito alla "insussistenza" dei presupposti legittimanti la dichiarazione di "notevole interesse pubblico" dei beni degli odierni appellanti consente agevolmente, quindi, di concludere nel senso della lesività del decreto ministeriale, inficiato da illegittimità non già solo procedimentale, ma anche da vizio spiccatamente sostanziale, senz'altro idoneo a giustificare un giudizio circa la sua non reiterabilità: giudizio formulabile in termini di elevata probabilità, se non addirittura di assoluta certezza.
Identiche considerazioni possono essere svolte con riferimento alla successiva ordinanza sindacale di sospensione dei lavori, affetta da illegittimità meramente derivata.
3. Passando allo scrutinio del secondo elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, integrato dalla natura colposa della condotta tenuta dall'Amministrazione, preme osservare che nessun rilievo è stato al riguardo formulato dai ricorrenti.
È necessario, pertanto, individuare i criteri che presiedono alla distribuzione tra le parti del giudizio risarcitorio dell'onus probandi in relazione alla sussistenza, in capo all'Amministrazione, della colpa.
Come è noto, con la citata sentenza 22 luglio 1999, n. 500, la Corte di Cassazione ha superato il tradizionale orientamento inteso a ritenere la colpa sussistente in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dall'atto amministrativo (ex multis, Cass., S.U., 22 maggio 1984, n. 5361).
Sulla scorta dell'orientamento inaugurato con la sentenza n. 500/1999, infatti, il giudice è chiamato a svolgere una "più penetrante indagine [...] estesa alla valutazione della colpa non del funzionario agente [...] ma della p.a. intesa come apparato [...] che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio delle funzione amministrazione deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità".
La pretesa risarcitoria, dunque, non può trovare automatico accoglimento in seguito alla riconosciuta illegittimità del provvedimento amministrativo, posto che quest'ultima deve risultare, per così dire, aggravata dall'inosservanza dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
Come già rilevato nella giurisprudenza amministrativa, peraltro, non è del tutto condivisibile l'equivalenza, prospettata dalla sentenza citata, fra la colpa e la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
Si consideri, sul punto, che il provvedimento adottato in violazione dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione è tendenzialmente illegittimo perché viziato da eccesso di potere. Alla violazione dei suddetti principi sono, infatti, ricollegabili le più significative figure sintomatiche dell'eccesso di potere quali, ad esempio, l'insufficienza dell'istruttoria, il travisamento dei fatti, la disparità di trattamento, l'ingiustizia grave e manifesta, la contraddittorietà con altro e precedente provvedimento (ex plurimis, Cons. Stato, sez.V, 6 agosto 2001, n. 4239; Cons. Stato, sez. IV, n. 3169 del 2001).
Si è imposta così l'esigenza di individuare un differente criterio di valutazione dell'elemento soggettivo della p.a. o quanto meno, di puntualizzare meglio il significato dell'equivalenza tra la colpa e la violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
Al riguardo, il Collegio ritiene certo di escludere che il profilo della colpa possa risolversi nell'accertamento della illegittimità del provvedimento amministrativo, come pure sostenuto muovendo dall'assunto che configura nel risarcimento del danno una forma di tutela alternativa e complementare all'ordinario processo di ottemperanza.
Parimenti non condivide la tesi che, circoscrivendo le ipotesi di colpa della p.a. ai casi di illegittimità del provvedimento più grave ed evidente, ai più clamorosi casi di maladministration, finisce per introdurre indirettamente una limitazione della responsabilità della p.a. alla colpa grave senza una adeguata base normativa, oltre che per riconoscere alla stessa responsabilità dell'amministrazione una funzione prevalentemente sanzionatoria, obliterando lo scopo di protezione dell'interesse leso tradizionalmente perseguito con lo strumento risarcitorio.
A ciò si aggiunga che anche vizi oggettivamente meno gravi possono talvolta denotare un atteggiamento colposo dell'amministrazione.
Più convincente, invece, appare la tesi secondo cui - anche a prescindere dalla questione relativa all'inquadramento della responsabilità dell'amministrazione in termini di responsabilità aquiliana o contrattuale - la riscontrata illegittimità dell'atto rappresenta, nella normalità dei casi, l'indice della colpa dell'amministrazione: indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa, inspiegabile e non spiegata sia l'illegittimità in cui l'apparato è incorso.
Soprattutto a fronte di illegittimità plateali, il danneggiato può limitarsi quindi ad allegare la stessa illegittimità, sintomatica della violazione di parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell'amministrazione. In tale eventualità spetta all'amministrazione fornire elementi istruttori o anche meramente assertori volti a dimostrare l'assenza di colpa.
Applicando le esposte coordinate ricostruttive al caso di specie, deve ritenersi provata la colpa del Ministero dei beni culturali e ambientali, atteso quanto osservato in merito alle peculiarità del vizio da cui è risultato affetto il decreto del 6.10.1996, con il quale i beni di proprietà degli appellanti sono stati dichiarati di notevole interesse pubblico.
La mancanza del benché minimo cenno sostanziale (e non meramente astratto e teorico) dell'Amministrazione inteso a fornire elementi di giustificazione induce a ritenere processualmente provata la sussistenza dell'elemento soggettivo.
Viceversa, va esclusa la natura colposa della condotta tenuta dal Comune di Oria, atteso il carattere meramente consequenziale e, per quel che più conta, obbligato della disposta sospensione dei lavori assentiti con il rilascio della concessione edilizia n. 140 del 22.12.1995.
4. Passando al terzo elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, il Collegio ritiene che nessun dubbio possa sorgere in merito alla astratta riconducibilità eziologica alla descritta illegittimità provvedimentale dei danni lamentati dai ricorrenti.
Il nesso causale può dirsi in re ipsa, posto che l'adozione dei provvedimenti annullati in primo grado ha determinato inevitabilmente il fermo del cantiere e, di conseguenza, la produzione di una serie di danni, i cui limiti di risarcibilità ed i cui criteri di quantificazione saranno esaminati in seguito.
5. Stabilito, pertanto, che sussistono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità solo in relazione al Ministero per i beni e le attività culturali, giova ripercorrere, con specifico riferimento al problema della quantificazione dei danni ristorabili, le coordinate seguite nel provvedere alla nomina del consulente tecnico di ufficio, già espresse nella citata ordinanza n. 4460/2003.
A tale determinazione si è giunti senza mettere in discussione la operatività nel giudizio risarcitorio del principio dispositivo, valido anche allorché si tratti di procedere alla quantificazione del danno risarcibile.
In coerenza con l'orientamento maggioritario già manifestatosi in giurisprudenza, va posta infatti a carico dell'interessato la prova del danno subito, posto che di regola gli elementi probatori del pregiudizio sofferto sono nella esclusiva disponibilità del ricorrente: nel giudizio risarcitorio, pertanto, non può valere il criterio del principio di prova, essendo necessaria invece una prova piena e completa.
Ciò posto, è tuttavia necessario interrogarsi in merito all'ampiezza del rimarcato onere probatorio.
Non si condivide, al riguardo, l'indirizzo secondo cui la domanda risarcitoria può essere accolta solo se sorretta da una congrua dimostrazione del danno conseguente agli effetti propri dell'atto annullato e da una sua puntuale quantificazione.
Tale soluzione, oltre a caricare eccessivamente di contenuto l'onus probandi sussistente in capo al ricorrente, pare difficilmente coniugabile con la previsione di cui all'art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 80/1998, che ha introdotto in capo al giudice il potere ordinario di fissare i criteri di liquidazione del danno da determinarsi tra le parti in ambito stragiudiziale.
Si tratta di disposizione che, oltre ad introdurre un nuovo strumento a disposizione del giudice amministrativo, finisce inevitabilmente per incidere sulla dimensione dell'onere probatorio gravante su chi richiede il ristoro del danno, trattandosi di un istituto al quale il giudice può ricorrere al fine di addivenire alla determinazione della somma che l'amministrazione è tenuta a pagare.
Senza con ciò aderire all'assunto secondo cui l'onere della prova è circoscritto alla sussistenza del pregiudizio subito, non estendendosi alla sua entità, si intende sostenere quindi che può ritenersi assolto l'onere probatorio allorché il ricorrente indichi, a fronte di un danno certo nella sua verificazione, taluni criteri di quantificazione dello stesso, salvo il potere del giudice di vagliarne la condivisibilità attraverso l'apporto tecnico del consulente.
Si consideri, al riguardo, che la giurisprudenza civile riconosce talvolta al consulente tecnico di ufficio un compito ben più ampio di quello che si è inteso ascrivere in questa vicenda processuale e, come osservato, consistente nella sola valutazione della correttezza tecnica dei parametri tecnici prospettati dai ricorrenti in sede di quantificazione del danno di cui invocano il ristoro.
È nota, infatti, la distinzione concettuale elaborata dalla giurisprudenza civile, sia pure in ambito e con finalità non coincidenti con quelli della presente vicenda processuale, tra consulente deducente cui il giudice affida l'incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti e consulente percipiente, chiamato invece ad accertare i fatti stessi. Nel primo caso la consulenza presuppone l'avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati completamente provati dalle parti; nel secondo caso la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, senza che questo significhi, tuttavia, che le parti possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente. In questo secondo caso è necessario, infatti, che la parte quanto meno deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto e che il giudice ritenga che il suo accertamento richieda cognizioni tecniche che egli non possiede o che vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino di procedere direttamente all'accertamento (Cass., sez. un., 04-11-1996, n. 9522).
Si consideri, in particolare, che nel caso illustrato il giudice aveva affidato al c.t.u. l'incarico di accertare: a) la natura e l'entità delle lesioni riportate per effetto delle radiazioni ionizzanti; b) i mezzi che le hanno prodotte, con indicazione del rapporto di causalità con l'uso e l'esposizione alle radiazioni suddette; c) l'entità del danno subito.
Non è chi non veda come l'ampiezza delle indagini di cui si ammette talvolta nella giurisprudenza civile l'affidamento al consulente sia ben più consistente di quella richiesta al consulente nella presente controversia, destinata non già certo ad assumere carattere sostitutivo rispetto all'onere probatorio incombente sul ricorrente, ma a consentire la sola acquisizione di elementi tecnici che consentano al Collegio di valutare la condivisibilità dei parametri quantificatori prospettati dal ricorrente medesimo.
In conclusione, la consulenza tecnica, pur disposta d'ufficio, non è certo destinata ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell'onere della prova posti dall'art. 2697 c.c., ma ha la funzione di fornire all'attività valutativa del giudice l'apporto di cognizioni tecniche non possedute (tra le altre, Cass., sez. lav., 10-12-2002, n. 17555).
È quanto si è registrato nella presente vicenda processuale.
Posto, infatti, che l'illegittima sospensione e il conseguente differimento dei lavori hanno determinato un danno agli appellanti, in termini di aumento dei costi di costruzione e di ritardata disponibilità delle unità abitative da collocare sul mercato, gli appellanti hanno offerto taluni criteri di quantificazione delle indicate voci di pregiudizio.
Nel dettaglio hanno evidenziato, quanto ai costi di costruzione, che si tratta di dati quantificabili sulla scorta di parametri aventi base paranormativa, così come hanno offerto un criterio presuntivo di ragguaglio dell'utile di impresa non conseguito.
A fronte di tali elementi si è quindi provveduto, ai sensi dell'art. 44 del T.U. 26 giugno 1924 n. 1054, come integrato dall'art. 16 della legge 21 luglio 2000 n. 205, alla nomina del consulente tecnico attesa l'implicazione, in punto di liquidazione, di questioni tecniche non risolvibili dall'autorità giudiziaria.
5.1. Ciò posto, il Collegio ritiene condivisibili e convincenti i parametri che il consulente tecnico di ufficio ha seguito nell'addivenire alla indicata quantificazione del danno ristorabile, peraltro tendenzialmente in linea con quelli proposti dai ricorrenti.
Premesso il necessario riferimento ai soli pregiudizi connessi all'ambito di efficacia dell'ordinanza n. 119 del 16 dicembre 1996, con la quale sono stati sospesi i lavori assentiti con concessione n. 140 del 22 dicembre 1995 e relativi alla realizzazione di quindici unità abitative, il Consulente ha ragionevolmente distinto due fasi temporali.
La prima, ricompresa tra la data di efficacia del sospeso provvedimento concessorio e quella entro la quale si sarebbero dovuti concludere i lavori, pena la naturale inefficacia della stessa concessione edilizia; la seconda, rilevante per il computo del pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità delle unità abitative, ricompresa tra la data ultima prevista nello stesso provvedimento concessorio per la ultimazione dei lavori (22 dicembre 1998) e quella della sentenza esecutiva di primo grado.
Ciò posto, con specifico riguardo all'invocato danno da aumento del costo di costruzione, il Consulente ha rilevato che lo stesso ricomprende la somma delle spese che è normalmente necessario sostenere per la realizzazione dell'immobile (costo dei materiali, della manodopera, dei trasporti, del noleggio dei macchinari).
Ha quindi seguito un criterio sintetico di valutazione, consistente nel preventivo reperimento dei costi storici, riferiti ad opere di caratteristiche quanti-qualitative similari a quelle oggetto del bene di stima, ed in concreto avendo riguardo alle apposite rilevazioni mensili eseguite dall'Istat attraverso l'Indice del costo costruzione di un fabbricato residenziale: ha quindi condivisibilmente concluso quantificando in Euro 76.873,150 l'aumento del costo di costruzione intervenuto nel periodo compreso tra la data di sospensione dei lavori e quella in cui si è resa possibile la loro ripresa.
Quanto al danno da mancata disponibilità delle unità abitative, il Consulente ha in primo luogo osservato che l'intervento edilizio in questione è collocato in zona urbana che, nel contesto del Comune di Oria, è considerata tra quelle di maggior pregio, rimarcando il particolare apprezzamento che il territoriale mercato immobiliare rivolge agli alloggi di nuova produzione, come quelli in esame, i quali, pure rientrando in categoria costruttiva di ordine corrente, costituiscono, nel contesto urbano in cui sono localizzati, "un prodotto identificabile con quanto di meglio viene proposto dalla locale offerta edilizia nel settore residenziale".
Ha anche posto in luce la sostanziale tenuta del mercato immobiliare di Oria nel periodo preso in considerazione.
Considerazioni confermate da quanto osservato dal Consulente della parte appellante nel rilevare la particolare appetibilità della zona in questione quale area di insediamenti abitativi.
Applicando, quindi, ai valori medi e contenuti del relativo mercato immobiliare una quota di profitto pari a circa il 20%, stimata congrua anche in considerazione delle indicazioni fornite dall'A.N.C.E. territoriale, il Consulente di ufficio ha infine applicato, con metodo presuntivo condiviso dal Collegio, i rendimenti dei buoni ordinari del tesoro nei relativi archi temporali.
Ha così quantificato la indicata voce di danno nella somma di Euro 33.761,749.
Il Collegio ritiene, tuttavia, di dover abbattere questa seconda voce di danno in considerazione della mancata emersione processuale del fatto che, al momento preso in considerazione dal consulente, gli appellanti avrebbero con certezza alienato gli immobili realizzandi.
Tale incertezza non giustifica, tuttavia, il rigetto della domanda risarcitoria, come sostenuto dal primo Giudice, ma impone, al contrario, il ricorso ad una tecnica equitativa di quantificazione dello stesso, che prenda peraltro le mosse dalle risultanze della disposta consulenza tecnica.
Non si condivide, infatti, quanto osservato dal Tribunale periferico laddove pretende, per la ristorabilità della voce di pregiudizio in esame, l'allegazione di contratti preliminari di compravendita.
Si tratta, infatti, ad avviso del Collegio, di assunto inevitabilmente destinato ad innescare una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti parimenti destinatari di concessione edilizia e ugualmente lesi da un illegittimo provvedimento di sospensione dei lavori assentiti: disparità fondata su un elemento casuale, quale è quello rappresentato dalla intervenuta stipula del preliminare di compravendita nel momento in cui interviene l'illegittimo provvedimento di sospensione.
Viceversa, lo stesso danno merita di essere ristorato, sia pure alla stregua di differente tecnica risarcitoria e con distinta intensità, allorché emerga processualmente, come avvenuto nel caso di specie, che si tratti di zona particolarmente appetibile quale area di insediamenti abitativi, al punto da rendere ragionevole una prognosi di vendita in termini altamente probabilistici.
Alla stregua delle esposte considerazioni, il Collegio ritiene quindi di quantificare in via equitativa la voce di danno in questione nella somma di Euro 20.000.
Il Ministero per i beni e le attività culturali va quindi condannato al risarcimento dei danni quantificati nella complessiva somma di Euro 96.873,150.
6. Nei limiti illustrati va quindi accolto l'appello con conseguente condanna del Ministero dei beni culturali e ambientali al risarcimento del danno, liquidato nella somma di Euro 96.873,150, nonché al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3000 oltre I.V.A. e C.A.P. come per legge, nonché alla rifusione delle spese di consulenza tecnica di ufficio, pari a Euro 2.500, di cui 500 per spese, oltre I.V.A. e contributi come per legge.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sesta Sezione, accoglie l'appello e, per l'effetto, condanna il Ministero dei beni culturali e ambientali al pagamento, in favore dei ricorrenti, della somma di Euro 96.873,150.
Condanna il Ministero dei beni culturali e ambientali al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3000 oltre I.V.A. e C.A.P. come per legge, nonché alla rifusione delle spese di consulenza tecnica di ufficio, pari a Euro 2.500, di cui 500 per spese, oltre I.V.A. e contributi come per legge.
Ordina che il presente provvedimento giurisdizionale sia eseguito dall'Autorità Amministrativa.