Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Sezione III quater
Sentenza 20 giugno 2006, n. 4849
FATTO
Con ricorso notificato e depositato nei termini, il dottor C. Giulio impugna, chiedendone l'annullamento, gli atti con i quali è stato disposto il recesso dell'azienda intimata dal rapporto di lavoro intercorrente con il ricorrente, secondo giusta causa.
Deduce i seguenti motivi:
1) Violazione di legge ed eccesso di potere per nullità assoluta del provvedimento gravato in quanto adottato in carenza del preventivo parere del Dipartimento della Funzione Pubblica.
2) Violazione di legge - Difetto assoluto di motivazione desumibili dalle contestazioni non chiare ma fondate su illazioni svolte nei riguardi del medesimo ricorrente.
Si è costituita in giudizio l'Amministrazione intimata che ha controdedotto nel merito delle argomentazioni svolte dal ricorrente e chiesto il rigetto del ricorso.
Entrambe le parti hanno presentato ulteriori memorie illustrative delle proprie argomentazioni iniziali in prossimità dell'udienza di discussione della causa.
All'udienza del 12 aprile 2006 la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
Fisico dirigente, dipendente dell'Azienda Unità Sanitaria Locale Roma A, il dr. Giulio C. impugna il provvedimento con il quale la predetta azienda ha deliberato il suo recesso dall'impiego, per giusta causa, ai sensi degli articoli 1, comma 61, della legge 662 del 1996 e 35 del c.c.l.n. della dirigenza sanitaria, professionale e tecnica.
Il provvedimento gravato, che costituisce la riedizione di un precedente provvedimento di contenuto analogo, è stato adottato su un presupposto che assume erroneo, non potendosi ravvisare alcun elemento d'incompatibilità tra l'impiego alle dipendenze dell'AUSL Roma A e l'incarico di responsabile tecnico svolto per conto della società Pegaso né assumendo rilievo alcuno la circostanza della mancanza di una previa autorizzazione allo svolgimento di tale seconda attività e nemmeno quella dell'omessa indicazione della nuova sede legale della società Pegaso.
Al contempo, il dr. C. mette in evidenza che il procedimento penale a suo carico, si è concluso con il suo proscioglimento perché il fatto a lui ascritto non costituisce reato, circostanza dalla quale fa derivare la necessità di disporre la sua reintegrazione in servizio.
Con il primo motivo, il dr. C. deduce l'assoluta nullità del provvedimento impugnato perché adottato senza il preventivo parere del Dipartimento della Funzione Pubblica, parere che, a suo avviso, avrebbe dovuto essere "emanato sulla scorta delle risultanze degli accertamenti operati tramite il Nucleo Operativo Ispettivo della Guardia di Finanza".
La censura è infondata.
Premesso, appena, che la nullità dell' atto amministrativo ha trovato ingresso nel nostro sistema positivo soltanto con le modifiche apportate dalla legge n. 15 del 2005 alla legge n. 241 del 1990, con le quali è stata prevista tale patologia in precedenza, di fatto, denegata, se non nell'ipotesi estrema di inesistenza dell'atto amministrativo, va osservato che gli atti gravati in questa sede, di recesso da un rapporto di lavoro, appartengono all'ambito degli atti paritetici riguardando la sorte di un rapporto di lavoro di diritto privato, disciplinato, in parte, dalle leggi ordinarie espressamente applicabili e concretamente richiamate e, in parte, dalle disposizioni contenute nel contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento alle quali, pertanto, occorre rinviare ai fini della valutazione della sussistenza del vizio lamentato.
Ebbene sia le prime sia le seconde non prevedono all'interno del procedimento preordinato al recesso dall'impiego, alcun obbligo di richiesta di parere di altri organi o soggetti ma riconoscono ogni competenza a provvedere, interamente in capo ai soggetti titolari del rapporto di lavoro che per quello che qui interessa è la direzione generale dell'AUSL resistente.
D'altro canto le ipotesi di nullità sono espressamente sancite nell'articolo 37 del c.c.l.n. del 5 dicembre 1996 e consistono oltre che in tutti i casi previsti dal codice civile e dalle altre vigenti disposizioni di legge, nelle ulteriori ipotesi in cui il recesso:
a) è dovuto a ragioni politiche, religiose, sindacali, di sesso, di razza o di lingua;
b) è intimato, senza giusta causa, durante i periodi di sospensione previsti dall'art. 2110 del codice civile, salvo quanto previsto dagli articoli 23 (assenza per malattia) e 24 (assenza per malattia dovuta a causa di servizio).
Tra tali ipotesi non figura quella indicata dal ricorrente sicché la dedotta nullità del provvedimento impugnato si rivela, per il profilo ora esaminato, priva di consistenza.
Con il secondo motivo il dr. C. lamenta la violazione di legge ed il difetto assoluto di motivazione desumibile dalle contestazioni non chiare ma fondate su illazioni svolte nei suoi riguardi.
In buona sostanza lamenta la mancanza della giusta causa chiamata, invece, a giustificazione del provvedimento gravato dalla Ausl Roma A.
Prima di esaminare la censura nel merito il Collegio ritiene utile svolgere qualche precisazione a proposito della sentenza penale di proscioglimento intervenuta nei confronti del dr. C., sulla quale indugia la difesa dell'Ausl al fine di metterne in rilievo l'irrilevanza rispetto alla questione controversa, in considerazione della formula utilizzata secondo la quale "il fatto non costituisce reato" che implica la possibilità che quello stesso fatto, ritenuto irrilevante sul piano penale, possa ricevere un diverso apprezzamento sotto il profilo disciplinare.
Sostiene l'Ausl che una determinata fattispecie, considerata alla stregua delle valutazioni penali, se si rivela irrilevante su quel piano, può essere, invece, diversamente valutata sul piano della disciplina interna all'azienda, e rivelarsi decisiva, sotto tale profilo, per l'inflizione di una determinata sanzione o al fine dell'adozione di un determinato comportamento da parte dell'Azienda.
Il Collegio conviene su tale ricostruzione e ritiene che, effettivamente, una medesima fattispecie possa essere oggetto di diversa valutazione sulla base dei distinti parametri applicabili in relazione agli ambiti di valutazione per come sopra precisato, tenuto conto che non vi è sovrapponibilità ma distinzione tra il piano penale, di valutazione di un fatto e quello disciplinare di valutazione del medesimo fatto.
Ritiene, tuttavia, che nel caso in esame la sentenza penale di proscioglimento n. 4321 del 2004 non riguardi la vicenda che si è conclusa con la delibera n. 1413 dell'11 giugno 1998, gravata in questa sede, ma si riferisca, invece, alla situazione, precedente, valutata e conclusa con la delibera n. 3079 del 1997, successivamente revocata dalla stessa AUSL con la delibera n. 3085 del medesimo anno.
Sulla base di quanto affermato in ricorso dallo stesso ricorrente, il processo penale a suo carico è stato, infatti, incardinato nel giugno del 1997, vale a dire parecchio tempo prima che la delibera per cui è causa venisse assunta.
Nel merito la censura si rivela infondata.
Il ricorrente nega la sussistenza di alcun rapporto di lavoro dipendente con la società Pegaso ed afferma di non ricoprire all'interno di questa né cariche amministrative né cariche sociali.
Sostiene che il ruolo di responsabile tecnico svolto all'interno della predetta società coincide con una qualifica professionale e consiste, semplicemente, nello svolgimento di funzioni di sicurezza senza continuità e solo nel caso in cui ne sia fatta richiesta. Soggiunge che si tratta di attività che non incide e che non svia la normale attività presso l'Ausl resistente e richiama, a dimostrazione di tale assunto, la delibera impugnata per sottolineare come nella stessa non figurino, a suo carico, contestazioni inerenti ai doveri di ufficio.
Dal carattere non continuativo e gratuito dell'incarico svolto presso la Pegaso s.r.l. e dall'assenza di un espresso divieto al suo svolgimento fa derivare l'assenza di quella "giusta causa" che l'AUSL ha preso a giustificazione del provvedimento adottato.
Le argomentazioni appena esposte non sono condivise dal Collegio il quale ritiene decisivo il richiamo all'articolo 1, commi 60 e 61, della legge n. 662 del 1996 espressamente applicato nel caso in esame.
Le disposizioni succitate prevedono testualmente che:
"Al di fuori dei casi previsti al comma 56 (che riguarda il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale), al personale è fatto divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo tranne che la legge o altra fonte normativa ne prevedano l'autorizzazione rilasciata dall'amministrazione di appartenenza e l'autorizzazione sia stata concessa. La richiesta di autorizzazione inoltrata dal dipendente si intende accolta ove entro trenta giorni dalla presentazione non sia adottato un motivato provvedimento di diniego.
La violazione del divieto di cui al comma 60, la mancata comunicazione di cui al comma 58, nonché le comunicazioni risultate non veritiere anche a seguito di accertamenti ispettivi dell'amministrazione costituiscono giusta causa di recesso per i rapporti di lavoro disciplinati dai contratti collettivi nazionali di lavoro e costituiscono causa di decadenza dall'impiego per il restante personale, sempreché le prestazioni per le attività di lavoro subordinato o autonomo svolte al di fuori del rapporto di impiego con l'amministrazione di appartenenza non siano rese a titolo gratuito, presso associazioni di volontariato o cooperative a carattere socio-assistenziale senza scopo di lucro. Le procedure per l'accertamento delle cause di recesso o di decadenza devono svolgersi in contraddittorio fra le parti".
Alle disposizioni appena enunciate deve aggiungersi, un'altra disposizione contenuta nell'articolo 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, riguardante, in modo specifico, il personale dipendente dal servizio sanitario, la quale recita:
"Con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale. Il rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale è altresì incompatibile con l'esercizio di altre attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con lo stesso".
Premesso che il dottor C. in qualità di dirigente dell'AUSL non è titolare di un rapporto a tempo parziale, osserva il Collegio che lo stesso oltre ad essere responsabile tecnico, a decorrere dal 19 aprile 1996, della società a responsabilità limitata "Pegaso Prevenzione e Ambiente" avente sede legale presso il suo domicilio, è risultato socio delle predetta società.
Se si considera che secondo le indicazioni contenute nello Statuto le attività sociali della società in questione consistono, tra le altre, in quelle di "assistenza tecnica per strutture mediche... realizzazioni di depositi di sicurezza e prestazioni; consulenza e assistenza alle aziende o persone in materia di ecologia e smaltimento dei rifiuti di qualsivoglia genere" deve, effettivamente convenirsi con l'Azienda resistente che l'attività svolta da tale società si pone in conflitto di interessi con quelle istituzionalmente spettanti al Servizio Sanitario Nazionale in forza della legge n. 833 del 1978 e per esso, alla stessa Azienda Sanitaria.
E ciò senza nemmeno che occorra soffermarsi sulla prospettata distinzione tra conflitto di interessi potenziale e conflitto di interessi concreto atteso che la disposizione che lo contempla oltre a possedere i caratteri di qualunque norma dell'ordinamento, vale a dire quella della generalità e dell'astrattezza, intende, evidentemente, fare riferimento proprio al conflitto temuto, cioè a quello astratto o potenziale, essendo la sua finalità quella di voler eliminare, in via preventiva, ovverosia, in radice, la stessa possibilità dell'insorgenza di una situazione concreta di conflitto.
Da ultimo, il Collegio si sofferma sulla pretesa mancanza di motivazione per osservare che il provvedimento (così come il procedimento) appare assistito da un'ampia ricostruzione dei fatti e da un'ampia e precisa motivazione, con il che resta escluso ogni fondamento alla censura relativamente al profilo appena esaminato.
Dalle svolte argomentazioni emerge che il ricorso deve essere respinto.
Le spese di lite, poste a carico del ricorrente ed in favore dell'AUSL RM/A, possono essere liquidate in complessive Euro 1.500,00, di cui Euro 500,00 per spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio - Sede di Roma - Sezione III quater
respinge il ricorso proposto dal dottor C. Luigi, meglio specificato in epigrafe.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell'Azienda resistente, nella misura liquidata in motivazione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità Amministrativa.