Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 23 marzo 2007, n. 7103
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 23 ottobre 1997 il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Milano deliberava l'apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell'avv.to C.C. contestandogli il seguente addebito:
"essere venuto meno ai doveri di probità per aver corrisposto il 28 novembre 1990 a Pubblico Ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni la somma di lire 50.000.000 determinando procedimento penale per i reati di cui agli artt. 319-321 c.p. (ordinanza del Gip di Milano del 26 giugno 1997 di rinvio a giudizio dinanzi al Tribunale, prima sezione penale, per l'udienza dibattimentale del 13 marzo 1998)".
Con memoria del 13 novembre 1997 l'avv.to C. esponeva che i militari della Guardia di finanza si erano recati presso il suo studio unicamente per verificare la materiale esistenza di talune fatture che risultavano registrate nella contabilità della società Finprogetti, precisando di aver esibito le fatture richieste. Nel corso della verifica gli era stato fatto chiaramente capire che si sarebbero prolungati i tempi della visita se non fosse stata corrisposta dal legale la somma di cinquanta milioni, somma che egli si era determinato a corrispondere per evitare il disagio arrecato al suo studio dal prospettato protrarsi della presenza dei militari. Non si era trattato pertanto, ad avviso dell'incolpato, di un episodio di corruzione ritenendosi egli vittima di concussione.
Con lettera del 10 marzo 2000 il difensore del C. nel procedimento penale instaurato a suo carico comunicava che quest'ultimo era stato definito in primo grado con sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste", ma che tale pronuncia era stata impugnata dal Pubblico ministero.
Con lettera successiva del 26 settembre 2001 lo stesso difensore comunicava all'organo disciplinare territoriale che la Corte d'appello di Milano, con sentenza del primo febbraio 2001, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del C. per prescrizione del reato precisando l'intenzione di impugnare detta pronunzia con ricorso per cassazione.
Sospeso il procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 44 dell'ordinamento professionale, pervenuta al Consiglio dell'ordine degli avvocati la sentenza di questa Corte che confermava la pronunzia d'appello, con decisione del 13 febbraio 2004 l'organo disciplinare deliberava di non dar luogo a sanzione disciplinare rilevando che il C. non aveva alcun interesse ad elargire la somma di danaro affinché i militari compissero atti contrari ai doveri d'ufficio, dato che l'attività di verifica presso lo studio si era ormai conclusa. Secondo il Consiglio dell'ordine degli avvocati milanese il fatto che la dazione fosse finalizzata alla copertura delle evasioni fiscali delle società che avevano effettuato la compravendita degli immobili, come ritenuto dalla Corte d'appello, costituiva una mera ipotesi che non trovava riscontro in nessun elemento di prova se non nelle dichiarazioni, non attendibili, del militare corrotto. L'organo territoriale osservava, infine, che pur essendo la dazione di danaro fatto deontologicamente sconveniente, non vi era alcuna prova della offerta spontanea da parte del C. e non poteva escludersi che la stessa fosse stata effettivamente conseguenza di una coazione del militare.
Avverso tale decisione proponeva ricorso il Procuratore generale di Milano rilevando in particolare che la valutazione del Consiglio locale non era corretta perché fondata su un'ipotesi e, cioè, l'elargizione di denaro come conseguenza della coazione del militare, non supportata da alcun elemento probatorio, in quanto non solo non vi era prova del ritenuto comportamento prevaricatore del militare, ma non vi erano neppure elementi indiziari tali da giustificare la mera supposizione fatta dallo stesso Consiglio dell'ordine degli avvocati. Non era dato inoltre comprendere per quale ragione il professionista potesse essere stato indotto, all'esito di una verifica conclusa in modo a lui favorevole, alla dazione di cinquanta milioni per un atteggiamento meramente prevaricatore del militare; la realtà dei fatti poteva invece essere spiegata con quanto ritenuto dalla Corte d'appello o con le deposizioni rese dal militare circa l'interesse esternato dal C. di non gradire la presenza nel proprio studio della Guardia di Finanza.
Chiedeva pertanto il Procuratore generale l'affermazione della responsabilità disciplinare dell'incolpato con l'inflizione della sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per la durata di tre mesi.
Con sentenza del 28 dicembre 2005 il Consiglio Nazionale forense accoglieva il ricorso e in riforma dalla gravata decisione comminava all'avv.to C. la sanzione disciplinare della sospensione per tre mesi dall'esercizio della professione.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso alle Sezioni unite di questa Suprema Corte l'avv.to C.C. sulla base di due motivi.
Non hanno spiegato attività difensiva in questa sede gli intimati.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 40, n. 3, e 54 del r.d.l. 1578/1933, degli artt. 59 e ss. del r.d. 37/1934 e degli artt. 319, 321 e 317 c.p. e di ogni altra norma e principio in materia di accertamento in sede di procedimento disciplinare della condotta deontologicamente scorretta, della violazione dei doveri di probità e del "discrimen" tra corruzione e concussione, nonché della regola deontologica secondo la quale l'avvocato, in una situazione di potenziale conflitto tra il principio di legalità e la tutela degli interessi del cliente, ha il dovere di tutelare prioritariamente quest'ultimo, sempreché la tutela di esso non richieda il compimento di azioni illegali.
Reputa il ricorrente non condivisibile l'assunto del Consiglio nazionale forense secondo cui la dazione di una somma di danaro se pure avvenuta, come sostenuto dall'incolpato, per soggiacere alla concussione dell'ufficiale procedente, fosse da giudicare disciplinarmente illecito, essendo comunque dovere dell'avvocato attenersi al principio di legalità e quindi rifiutarsi in ogni caso di subire la concussione, anche a costo di mettere a rischio gli interessi della società sua cliente.
Sarebbe valido invece l'opposto principio, avente valore di regola deontologica, censurabile in sede di legittimità come violazione di legge, secondo il quale in una situazione di potenziale conflitto tra un interesse pubblico generale ed astratto al rispetto del principio di legalità e l'interesse concreto del cliente ad essere esposto al rischio di un'indagine della polizia tributaria che non era possibile prevedere se e quali effetti pregiudizievoli avrebbe potuto produrre, è dovere dell'avvocato privilegiare la tutela degli interessi del cliente, e cioè del soggetto che aveva a lui affidato la tutela dei suoi interessi.
Con il secondo motivo si deduce eccesso di potere per difetto di istruttoria, omessa valutazione degli elementi difensivi dell'incolpato, illogicità, mancato accertamento delle effettive responsabilità.
Osserva il ricorrente che non essendovi una pronuncia definitiva sulla sussistenza dell'ipotesi di reato di corruzione, era certamente onere del Consiglio nazionale forense, in luogo di fondare il proprio convincimento esclusivamente sulle tesi sostenute dalla Corte d'appello di Milano, svolgere un'approfondita istruttoria sul fatto, al fine di accertare se, nell'ipotesi in esame, l'avv.to C. fosse stato corruttore, oppure soggetto passivo della concussione del militare.
Tale mancato accertamento aveva comportato l'omissione di un giudizio di comparazione tra il dovere di probità, ritenuto violato dalla dazione di danaro, e quello di tutelare l'interesse dei propri assistiti, evitando loro conseguenze ingiuste e dannose in ragione del mancato assolvimento ad una ingiusta richiesta di pagamento.
Il ricorso è infondato.
Il Consiglio nazionale forense ha ritenuto non condivisibile, per un duplice ordine di ragioni, la esclusione della illiceità disciplinare nel comportamento tenuto dal professionista, da parte del Consiglio dell'Ordine territoriale che aveva reputato, alla stregua della sentenza penale di primo grado, frutto di coazione la corresponsione della somma di danaro al militare della Guardia di finanza.
Invero, per un verso il giudice "a quo" ha ritenuto sicuramente illecita, perché lesiva dei doveri di probità, dignità e decoro propri della classe forense, la condotta dell'avvocato che consegni una somma di danaro ad un pubblico ufficiale, sia quando il fatto integri gli estremi del reato di corruzione, sia quando la dazione avvenga a seguito della concussione dello stesso pubblico ufficiale.
E ciò non essendovi dubbio alcuno che l'avvocato, per l'importante funzione che è chiamato a svolgere dall'ordinamento statuale, non solo non può indurre il pubblico ufficiale a compiere atti contrari ai doveri del suo ufficio, ma neppure può cedere a ricatti e minacce, essendo, invece, tenuto al rispetto dell'ordinamento giuridico e ad esperire, anche ai fini di garanzia della collettività, tutti i mezzi di tutela da questo previsti, che egli ben conosce in ragione della professione svolta.
Per altro verso ha reputato il giudice disciplinare la qualificazione della condotta contestata al C. rapportabile, secondo i rilievi impugnatori del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Milano, a quanto ravvisato dalla sentenza di secondo grado che aveva ritenuto, sia pure sulla base di elementi presuntivi, che il professionista avesse versato al militare della Guardia di Finanza la somma di lire cinquanta milioni al fine di evitare il compimento di ulteriori indagini che avrebbero potuto nel corso della verifica, anche alla stregua del foglio di servizio del Nucleo regionale di Polizia Tributaria, estendersi alle società clienti dell'incolpato, in relazione alla compravendita di alcuni immobili già della Bnl.
Tale considerazione, unitamente al fatto che l'accertamento dei militari si era esaurito in una sola giornata e all'ammissione del professionista di aver versato la somma in discorso per liberarsi "di una noiosa ed inutile presenza" hanno indotto il Consiglio nazionale forense a ritenere che il C. avesse pagato il militare non solo e non tanto per evitare il disagio della presenza della Guardia di Finanza nel suo studio, frequentato in quel periodo da importanti clienti, ma con il fine di evitare il compimento di ulteriori e più approfonditi controlli.
Tal che adeguata si è appalesata, per l'Organo disciplinare, la irrogata sanzione della sospensione dell'incolpato per tre mesi dall'esercizio della professione, in quanto commisurata alla gravità della condotta del professionista, il quale non solo aveva leso l'immagine ed il prestigio della classe forense, ma aveva anche concorso alla violazione dei principi di imparzialità, trasparenza e fedeltà, fondamento della corretta attività del pubblico Ufficiale.
Ebbene, poiché "in subiecta materia", per consolidata giurisprudenza di legittimità (vedi, tra le tante, Cass., Sez. un., 10046/1996), è insuscettibile di ulteriore valutazione l'accertamento compiuto dal giudice disciplinare in ordine alla materialità dei fatti contestati all'incolpato e alla loro idoneità a ledere gli interessi protetti dalla legge professionale essendo precluso alla Corte di cassazione il riesame dei fatti e delle risultanze istruttorie, la cui valutazione spetta esclusivamente all'organo giudicante disciplinare, il quale ha solo l'obbligo di fornire una motivazione adeguata ed esente da vizi logici e giuridici, in presenza, nel caso di specie, di una congrua esplicitazione delle ragioni del proprio convincimento in ordine alla responsabilità disciplinare del C. da parte del Consiglio nazionale forense (che ha utilizzato lecitamente quale fonte di esso anche prove raccolte in giudizio penale ancorché conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione (Cass., Sez. un., 4667/1998), la qui gravata pronunzia si sottrae alle critiche del ricorrente tendenti inammissibilmente ad una ricostruzione "ad usum delfini" della fattispecie in esame.
Vuol dirsi in sostanza che nel caso di specie l'accertamento del fatto, l'apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e in generale la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in questa sede di legittimità non traducendosi in un palese sviamento di potere, ossia nell'uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (vedi Cass., Sez. un., 5038/2004, 4802/2005).
Alla stregua delle svolte argomentazioni il proposto ricorso va respinto, mentre il ricorrente evita le spese di questo giudizio stante la mancata costituzione degli intimati.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso.