Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 2 luglio 2007, n. 14972
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. C. Dario in data 12 aprile 1994 stipulava un contratto di mutuo con C. Annalisa e le versava la somma di lire 250.000.000 milioni, stabilendo contestualmente varie modalità di estinzione di tale finanziamento. Il contratto recava la seguente clausola arbitrale: "Le parti concordano che in caso di necessità di interpretare e dare esecuzione al presente (atto) si appelleranno ad un unico arbitro con tutti i poteri decisionali nella persona dell'avv. Giorgio Gozzi". Essendo insorta controversia fra le parti relativamente all'adempimento del contratto ed agli obblighi da esso derivanti, il C. nel 1999 instaurava l'arbitrato previsto dalla clausola, chiedendo che l'arbitro "voglia così giudicare: emettersi, ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., un lodo che produca gli effetti del contratto non concluso, e cioè della vendita delle quote della Wald Haus, pari al 15% del capitale sociale, dalla C. al C., acquirente, essendo il prezzo della vendita costituito dalla estinzione del debito della prima verso il secondo di lire 250.000.000, di cui alla convenzione 12 aprile 1994. In via subordinata condannarsi Annalisa C. al pagamento in favore del ricorrente Dario C. dell'importo di lire 250.000.000, oltre agli interessi ragguagliati al rendimento netto nel periodo dei BOT, a partire dal 12 ottobre 1994 e sino al saldo. Condannarsi la C. al risarcimento del danno sofferto da C. per il mancato tempestivo adempimento che, salvo i maggiori importi, dovrebbe essere ragguagliato agli utili prodotti dalla predetta quota societaria dal 12 aprile 1997, nonché all'eventuale diminuzione del valore della quota dalla predetta data alla consegna dei titoli. E ciò per il caso di accoglimento della domanda principale, mentre nel caso di accoglimento della subordinata dovrebbe essere ragguagliato agl'interessi di mora, sempre dalla stessa data". La C. si costituiva deducendo l'estinzione del debito sulla base di una successiva convenzione in data 3 marzo 1998, chiedendo che la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto, per tale ragione, fosse dichiarata inammissibile. L'arbitro, con lodo 10 settembre 2000, dichiarava l'inefficacia della convenzione 3 marzo 1998 e condannava la C. al pagamento della somma di lire 250.000.000, oltre accessori. Quest'ultima impugnava il lodo dinanzi alla Corte di appello di Venezia deducendone la nullità, per avere l'arbitro pronunciato il lodo dopo la scadenza del termine di 180 giorni assegnatogli. Nel contraddittorio fra le parti la Corte di appello, ritenuta la natura rituale dell'arbitrato e quindi l'ammissibilità dell'impugnazione dinanzi ad essa, accoglieva la censura e annullava il lodo con sentenza depositata il 26 aprile 2004. Avverso tale sentenza il C. ha proposto ricorso a questa Corte, con atto notificato il 22 luglio 2004. La C. resiste con controricorso notificato il 21 settembre 2004. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il ricorso si denunciano la violazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ. e vizi motivazionali in relazione all'interpretazione della clausola compromissoria, avendo la sentenza impugnata, ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione dinanzi ad essa, ritenuto rituale in lodo impugnato e avendolo dichiarato nullo perché pronunciato oltre il termine di cui all'art. 820 c.p.c. Si deduce che la sentenza avrebbe erroneamente ritenuto la natura rituale dell'arbitrato sulla base del principio che, nel dubbio, l'arbitrato deve essere ritenuto di natura rituale. A sostegno della censura si citano in proposito alcune sentenze di questa Corte le quali hanno affermato il principio opposto, secondo il quale, pur dopo la negazione che l'arbitrato rituale costituisca esercizio di funzione giurisdizionale, in caso d'incertezza interpretati va sulla natura dell'arbitrato voluto dalle parti con il compromesso o la clausola compromissoria, l'arbitrato dovrebbe ritenersi irrituale. Si lamenta, inoltre, che la Corte di appello, pur avendo affermato che la natura dell'arbitrato va desunta dalla volontà dei contraenti, abbia poi omesso la valutazione di tale volontà, rimettendosi alla su detta presunzione.
2. Va premesso che nel caso di specie la clausola compromissoria era inserita in un contratto stipulato anteriormente all'entrata in vigore della legge di riforma dell'arbitrato del 1994 (pubblicata sulla gazzetta ufficiale del 13 gennaio 1994, ed entrata in vigore novanta giorni dopo).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte formatasi in relazione alla disciplina in vigore precedentemente a tale riforma, l'arbitrato rituale aveva natura di giudizio, rimesso in via sostitutiva, rispetto alla giurisdizione ordinaria, alla competenza di un soggetto diverso dal giudice, ed era caratterizzato dal concludersi con un "lodo" idoneo ad ottenere efficacia di sentenza esecutiva. Viceversa l'arbitrato irrituale era un mezzo di rimessione agli arbitri della soluzione di controversie in via negoziale, mediante un negozio (di accertamento o transattivo) fondato sul potere dispositivo delle parti trasferito agli arbitri (Cass. 28 giugno 2000, n. 8788; 23 giugno 1998, n. 6248; 16 maggio 1997, n. 4347).
In tale ottica interpretativa la distinzione fra arbitrato rituale e irrituale andava compiuta, con riguardo all'intenzione delle parti, indagando, al di là delle espressioni letterali usate, se esse avessero inteso affidare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella propria del giudice ordinario, derogando alla sua competenza, ovvero conferire loro un mandato a definire la controversia sul piano negoziale, dovendosi optare, nel dubbio, per l'irritualità dell'arbitrato, in considerazione dell'eccezionalità della deroga alla competenza del giudice ordinario (Cass. 8 agosto 2001, n. 10935; 17 gennaio 2001, n. 562; 28 giugno 2000, n. 8788; 22 febbraio 1999, n. 1476).
Tale impostazione sistematica è stata successivamente modificata dalla giurisprudenza di questa Corte (SS.UU., sentenze nn. 5690 del 1995; 3 agosto 2000, n. 527; 14223 del 2002, dalle quali ha preso le mosse un nuovo indirizzo, ormai consolidatosi), dopo la riforma dell'arbitrato ad opera della legge n. 5 del 1994. Secondo tale indirizzo giurisprudenziale deve ritenersi che il "dictum" arbitrale, anche nell'arbitrato rituale, va considerato un atto di autonomia privata, estraneo all'esercizio della giurisdizione, ad avvalersi della quale le parti rinunciano con il compromesso o la clausola compromissoria.
Ne deriva che, secondo tale orientamento interpretativo, non vi è una differenza ontologica fra l'arbitrato rituale e quello irrituale, avendo entrambi gli atti conclusivi natura di atti di autonomia privata e configurandosi in entrambi i casi la devoluzione della controversia ad arbitri come rinuncia all'azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, nonché come opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico, attraverso il "dictum" di soggetti privati. Con la conseguenza che la distinzione tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale non può fondarsi sul rilievo che nel primo, a differenza che nel secondo, le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice (Cass. 13 aprile 2001, n. 5527; 8 agosto 2002, n. 11976; 30 agosto 2002, n. 12714; 20 luglio 2006, n. 16718; 10 novembre 2006, n. 24059). La differenza va, invece, ravvisata nel fatto che nell'arbitrato rituale le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., da esperirsi con l'osservanza del regime procedurale e le garanzie - anche in relazione ai mezzi d'impugnazione - previsti dal codice di procedura civile, mentre nell'arbitrato irrituale esse intendono affidare all'arbitro la soluzione di controversie attraverso uno strumento negoziale atipico, non regolamentato, reso legittimo dal principio generale di autonomia privata consacrato nell'art. 1322 c.c. (e nei limiti di esso), non soggetto, a meno che le parti non le richiamino, alle regole procedimentali di cui al titolo ottavo c.p.c. - salvo che non coincidano con principi generali e inderogabili dell'ordinamento - insuscettibile d'impugnazioni diverse da quelle tipiche dei contratti.
Secondo entrambe le interpretazioni, nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione avverso una sentenza che abbia pronunciato sull'impugnazione di un lodo arbitrale si ponga in discussione la natura rituale o irrituale dell'arbitrato, la Corte di cassazione deve esaminare e valutare direttamente il patto compromissorio fonte dell'arbitrato medesimo, e non limitarsi al controllo della decisione del giudice di merito, in quanto la relativa qualificazione incida sul problema, di natura processuale, dell'ammissibilità della impugnazione del lodo per nullità. Ciò perché - come si è detto - il lodo irrituale non è soggetto al regime di impugnazione previsto dagli artt. 827 e ss. c.p.c., ma è soggetto ad impugnativa soltanto per i vizi che possono vulnerare le manifestazioni di volontà negoziale, con riferimento sia alla validità dell'accordo compromissorio che all'attività degli arbitri, da proporre con l'osservanza delle norme ordinarie sulla competenza e del doppio grado di giurisdizione (da ultimo Cass. 10 novembre 2006, n. 24059; 20 luglio 2006, n. 16718; 30 agosto 2002, n. 12714; 28 gennaio 2001, n. 119; 14 luglio 2000, n. 8937).
Per stabilire la natura dell'arbitrato deve ricostruirsi la volontà delle parti, quale espressa nel compromesso o nella clausola compromissoria, secondo le regole dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c.
Va considerato in proposito che la sopra menzionata evoluzione giurisprudenziale in tema di ricostruzione sistematica dell'arbitrato, ancorché abbia trovato ragioni per dare fondamento al revirement anche nella riforma del 1994, in effetti ha ritenuto di prendere atto del preesistente effetto delle clausole compromissorie di rinuncia alla giurisdizione statuale, posto in evidenza da risalenti precedenti giurisprudenziali e persistenti orientamenti dottrinali.
In tale ottica, ritiene questo collegio che, in sede d'interpretazione del compromesso e della clausola compromissoria, sia in relazione alla precedente disciplina che alla disciplina dell'arbitrato del 1994, al fine di stabilire se le parti, con il compromesso o la clausola compromissoria abbiano voluto un arbitrato rituale o irrituale, l'indagine da compiere sia quella di accertare se esse, prevedendo il ricorso ad arbitri per la soluzione di determinate controversie, abbiano inteso demandarne la soluzione all'arbitrato regolato dal titolo ottavo del codice di procedura civile, con tutte le conseguenze sostanziali e procedimentali, ovvero abbiano inteso prevedere una forma, sostanziale e procedimentale, di soluzione di dette controversie, derogativa, in forza della libertà contrattuale prevista dall'art. 1322 c.c., della normativa generale dell'arbitrato contenuta nel codice di rito.
In tale ottica interpretativa non può essere omessa la considerazione - ab antiquo formulata dalla dottrina e alla quale ora, in un contesto normativo nuovamente mutato, ha dato base legislativa l'art. 808-ter della legge di riforma dell'arbitrato n. 40 del 2006 - secondo la quale, costituendo l'arbitrato irrituale un istituto atipico, derogatorio dell'istituto tipico regolato dalla legge e sfornito delle garanzie all'uopo previste dal legislatore, in mancanza di una volontà derogatoria chiaramente desumibile dal compromesso o dalla clausola compromissoria, il riferimento delle parti alla soluzione di determinate controversie all'arbitrato normalmente costituisce espressione della volontà di fare riferimento all'istituto tipico dell'arbitrato regolato dal c.p.c.
3. Nel caso di specie la clausola compromissoria, riportata nel ricorso, è del seguente tenore: "Le parti concordano che in caso di necessità di interpretare e dare esecuzione al presente" (contratto) "si appelleranno ad unico arbitro con tutti i poteri decisionali nella persona dell'avv. Giorgio Gozzi".
Con il ricorso si lamenta che sia mancata, nella sentenza impugnata, un'interpretazione della clausola secondo i principi di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. e si contesta la legittimità della regola interpretativa alla quale la Corte di appello ha fatto unicamente ricorso, secondo la quale, in caso di incertezza, l'arbitrato deve presumersi rituale.
In effetti la sentenza impugnata, al fine di stabilire l'ammissibilità dell'impugnazione ai sensi degli artt. 827 e ss. c.p.c., verificando se si trattasse di un lodo emanato in relazione ad un arbitrato rituale, non ha affatto proceduto, come avrebbe dovuto, all'interpretazione della clausola compromissoria secondo i principi stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c., cercando di ricostruire in concreto la volontà negoziale dei contraenti, sulla base degli elementi letterali e valutandone il comportamento complessivo, anche successivo alla conclusione del contratto, nonché tenendo conto che le espressioni ambigue debbono essere interpretate, nel dubbio, "nel senso più conveniente alla natura e all'oggetto del contratto" (art. 1369).
Ne deriva che il ricorso censura esattamente la sentenza impugnata. Peraltro la censura - sulla base dei principi sopra affermati in tema d'interpretazione della clausola arbitrale e per quanto appresso si dirà - può condurre unicamente alla correzione della motivazione ex art. 384 c.p.c. e non all'accoglimento del ricorso.
Questa Corte, infatti, involgendo la censura l'ammissibilità dell'impugnazione del lodo dinanzi alla Corte di appello, secondo quanto sopra detto deve procedere all'interpretazione diretta della clausola, ricostruendo la volontà delle parti in conformità delle regole d'interpretazione dei contratti e dei principi sopra enunciati, al fine di accertare se esse abbiano voluto un lodo rituale o irrituale.
A tal fine va considerato che la clausola ha attribuito all'arbitro unico un potere "decisionale" sulle controversie che potessero insorgere circa l'interpretazione e l'esecuzione del contratto, e non contiene alcuna specificazione circa la volontà delle parti di volere un arbitrato atipico, discostantesi da quello regolato dal codice di procedura civile. Essa, inoltre - in base ai principi sopra esposti - va interpretata tenendo conto del loro comportamento successivo, relativo all'instaurazione e all'espletamento dell'arbitrato ed alla loro volontà di ottenere un lodo suscettibile di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., ovvero un lodo privo di tali effetti.
In tale ottica acquista rilievo la circostanza che l'odierno ricorrente, nel formulare il quesito, ha chiesto espressamente all'arbitro, nell'avvalersi di tale potere "decisionale", di emettere "ai sensi dell'art. 2932 cod. civ., un lodo che produca gli effetti del contratto non concluso, e cioè della vendita delle quote della s.r.l. Wald Haus, pari al 15% del capitale sociale, dalla C. al C.". La formula "ai sensi dell'art. 2932", fa esplicito riferimento ad un lodo con "effetto di sentenza", ed è riferibile, per l'epoca in cui il quesito fu formulato - ed ancor più ove si consideri il tempo in cui la clausola fu stipulata - al lodo rituale, così offrendosi, con tale comportamento, un ulteriore elemento che induce a far ritenere che l'odierno ricorrente intendesse di avere stipulato una clausola arbitrale riferibile ad un lodo rituale. Né a diverso convincimento può indurre la circostanza che anche con l'arbitrato irrituale si possano conseguire effetti analoghi (Cass. 30 ottobre 1991, n. 11650), essendo la formula usata ("ai sensi dell'art. 2932 cod. civ."), in relazione all'epoca in cui il quesito fu formulato, espressiva dell'intenzione di ottenere un lodo idoneo ad avere gli stessi effetti di una sentenza, e non un lodo che non potesse essere dichiarato esecutivo ai sensi dell'art. 825. Ulteriore, univoco, indizio è costituito dal termine "condannarsi" usato a proposito delle domande subordinate, interpretabile, a sua volta, unicamente come diretto al conseguimento di un lodo munito degli effetti di cui all'art. 825 c.p.c.
A sua volta la controparte, nel corso del giudizio arbitrale, notificando all'arbitro la comunicazione prevista per il lodo arbitrale dall'art. 821 c.p.c. e facendo valere il decorso del termine di cui all'art. 820, ha mostrato anch'essa esplicitamente, con il proprio comportamento, di ritenere che la clausola arbitrale fosse riferibile ad un lodo rituale.
Ne deriva che, per il complesso delle ragioni sopra indicate, la clausola va interpretata nel senso che con essa le parti vollero devolvere le controversie nascenti dal contratto ad un arbitrato rituale. Cosicché, corretta la motivazione della sentenza impugnata, il ricorso deve essere rigettato.
In relazione al particolare carattere delle questioni prospettate con il ricorso ed alle incertezze interpretative ancora esistenti in giurisprudenza al riguardo, si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.