Corte di cassazione
Sezione tributaria
Sentenza 28 novembre 2007, n. 24670

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il 30 agosto 2004 è notificato al Comune un ricorso del Fallimento per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, che ha rigettato sia l'appello principale del Fallimento sia l'appello incidentale del Comune contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Brescia n. 39/01/2001, che, dopo averli riuniti, aveva accolto i ricorsi del Fallimento contro due avvisi di accertamento dell'Ici limitatamente alle sanzioni irrogate.

2. I fatti di causa sono i seguenti:

a) il 19 luglio 1994 è dichiarato il fallimento della N.S. s.p.a.;

b) il Fallimento, pendente davanti al Tribunale di Brescia, acquisisce alla massa diversi immobili;

c) il 1 luglio 1999 il complesso di beni immobili acquisiti al Fallimento è aggiudicato alla I.B. s.p.a., che, l'11 agosto 1999, versa il relativo prezzo mediante deposito sul conto corrente della procedura;

d) il 5 novembre 1999 il curatore del Fallimento versa l'Ici relativa al periodo di imposta compreso tra la data della dichiarazione di fallimento e la data del deposito del prezzo di aggiudicazione, cioè tra il 19 luglio 1994 e l'11 agosto 1999, presentando la pertinente dichiarazione;

e) l'8 aprile 2000 il giudice delegato emette il decreto di trasferimento degli immobili in favore della società aggiudicataria;

f) il Comune notifica al Fallimento due avvisi di accertamento: 1) con il primo si contesta l'infedeltà della dichiarazione Ici presentata dal Fallimento, che avrebbe dovuto includere il possesso degli immobili fino al 31 dicembre 1999; 2) con il secondo si contesta l'omessa dichiarazione Ici per il 2000, perché il possesso degli immobili si sarebbe protratto in capo al Fallimento fino al 18 aprile 2000, data di emissione del decreto di trasferimento; 3) inoltre, in entrambi gli avvisi si assume conte base imponibile il valore contabile dei beni secondo i criteri ex art. 5 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e non il prezzo di aggiudicazione incassato dal Fallimento;

g) la Commissione tributaria provinciale, alla quale il Fallimento ha proposto due distinti ricorsi contro gli avvisi di accertamento, previa loro riunione li accoglie limitatamente alle sanzioni irrogate, che, pertanto, vengono annullate;

h) la Commissione tributaria regionale, poi, con la sentenza ora impugnata per cassazione, respinge sia l'appello principale del Fallimento sia l'appello incidentale dell'Ufficio.

3. La sentenza della Commissione tributaria regionale, oggetto del ricorso per cassazione, è così motivata:

a) in base all'art. 1 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, il presupposto è il possesso di fabbricati, cosicché l'imposta è dovuta da colui che giuridicamente vanta un titolo sul bene oggetto della pretesa erariale;

b) per l'ipotesi di beni immobili ceduti nel corso della procedura fallimentare, l'obbligo fiscale a carico del curatore grava, ex art. 10.6 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, fino a quando il prezzo non è stato incassato, momento dal quale decorre il termine di tre mesi per il versamento dell'imposta e per la presentazione della dichiarazione;

c) peraltro, l'avverarsi della condizione dell'incasso non coincide con il semplice versamento del prezzo di aggiudicazione da parte dell'acquirente, il quale, secondo le norme di procedura, provvede presso la Cancelleria del Tribunale ad un deposito infruttifero; l'incasso presuppone, invece, un requisito ulteriore, ovvero il fatto che il cedente entri effettivamente nella disponibilità dell'importo depositato dall'acquirente; ciò può avvenire esclusivamente una volta che sia intervenuto il decreto definitivo di aggiudicazione emesso dal Tribunale; è da quell'istante che si producono gli effetti di vendita, ivi compreso il passaggio della proprietà e del possesso del bene immobile;

d) ne deriva pure che, nel caso di specie, il curatore erroneamente ha provveduto al versamento dell'imposta, prendendo quale termine di riferimento il deposito del prezzo di aggiudicazione, in quanto in quel momento il prezzo, pur versato dall'acquirente, non poteva considerarsi concretamente incassato e, dunque, nella disponibilità del fallimento; egli avrebbe, invece, dovuto provvedere agli adempimenti fiscali, assumendo quale termine di riferimento il successivo decreto di trasferimento, atto idoneo a perfezionare la cessione;

e) con riguardo alla richiesta subordinata, relativa alla rideterminazione dell'imposta dovuta sulla base del prezzo di cessione, e non su quello contabile, si osserva che, per gli immobili compresi in un fallimento, l'imposta è prelevata sul prezzo ricavato dalla vendita del cespite, perché sia il tenore letterale della norma sia l'intitolazione dell'art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, evidenziano che il riferimento al prezzo di vendita è formulato esclusivamente ai fini della riscossione dell'imposta, senza che esso abbia alcuna incidenza sulla base imponibile, la cui determinazione è regolata in via generale del precedente art. 5, nel senso che, per gli immobili posseduti da imprese e contabilizzati, la base imponibile è determinata secondo i valori contabili, così come correttamente operato dal Comune;

f) non può essere accolto nemmeno l'appello incidentale proposto dal Comune relativamente all'applicazione delle sanzioni, perché, a prescindere dall'individuazione di una responsabilità colposa da parte del curatore del Fallimento, si deve riconoscere che le difficoltà interpretative delle disposizioni normative sono tali da rappresentare uno di quei casi di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni, che rendono non applicabili le sanzioni non penali previste dalla legge tributaria, ai sensi dell'art. 8 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dell'art. 6 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

4. Il ricorso per cassazione del Fallimento è sostenuto con tre motivi d'impugnazione e si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione.

5. L'intimato Comune resiste con controricorso e propone anche ricorso incidentale, sostenuto con un solo motivo di impugnazione, concludendo per il rigetto del ricorso principale e per l'accoglimento del ricorso incidentale, con ogni conseguente statuizione di legge. Il Comune produce anche una memoria.

6. Il Fallimento deposita, al termine della discussione della causa, brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del Pubblico Ministero, ai sensi dell'art. 379.4 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

7. Il ricorso principale e il ricorso incidentale sono riuniti ex art. 335 c.p.c.

8.1. Con il primo motivo del ricorso principale del Fallimento si denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504.

8.2. Secondo il Fallimento il periodo temporale di possesso da considerare ai fini dell'Ici, fermo il dies a quo coincidente con la dichiarazione di fallimento, dovrebbe avere come dies ad quem, non la data di emissione del decreto di trasferimento, ma la data in cui il Fallimento riscuote il prezzo della vendita del cespite.

A sostegno della sua tesi il Fallimento ritiene che il presupposto dell'Ici nel fallimento sia formato da una fattispecie complessa composta da due elementi: a) l'acquisizione all'attivo dell'immobile; b) la cessione dell'immobile stesso e la conseguente riscossione del prezzo. Ne deriverebbe che, se l'immobile non viene venduto e non si realizza, quindi, il presupposto dell'imposta, si dovrebbe specularmente riconoscere che l'incasso del prezzo sarebbe un elemento essenziale del presupposto del tributo quando il cespite viene alienato.

Inoltre, l'art. 10, comma ultimo, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, addossando al curatore l'obbligo di versare il tributo e di presentare la dichiarazione entro il termine di tre mesi dalla data in cui il prezzo è stato incassato, chiuderebbe il periodo di imposta nel momento in cui viene incassato il prezzo della vendita. Ragionando diversamente, cioè supponendo che il periodo di imposta perduri sino alla data del deposito in cancelleria del decreto di trasferimento, si dovrebbe ammettere l'esistenza di uno stravagante periodo di imposta in cui la dichiarazione deve essere presentata prima che il periodo di imposta si chiuda e, alla medesima stregua, che la liquidazione e il versamento del tributo debbano anch'essi essere effettuati prima che l'obbligazione tributaria sorga, non essendo ancora concluso il periodo di imposta. Sennonché il curatore, il quale non sarebbe un rappresentante né un sostituto del fallito, sarebbe tenuto ad osservare esclusivamente gli specifici e tassativi obblighi relativi alle ipotesi in cui la legge introduce una deroga alla disciplina ordinaria.

Secondo il Fallimento l'estensione del periodo di imposta dell'Ici nel fallimento fino al decreto di trasferimento equivarrebbe ad una violazione del principio ordinamentale della par condicio creditorum. Infatti, la legge assicura all'Ici la prededuzione solo per il tributo maturato sino al versamento del prezzo da parte dell'aggiudicatario, mentre per l'Ici successiva, cioè per l'Ici che dovrebbe prolungarsi sino al decreto di trasferimento, non sarebbe prevista alcuna deroga alla par condicio, con la conseguenza che il curatore, comunque, non potrebbe né dovrebbe provvedere a versare l'imposta come spesa della procedura.

Il Fallimento contesta, poi, specificamente quella parte della sentenza d'appello nella quale si afferma che l'incasso presuppone, come ulteriore requisito, che il cedente entri effettivamente nella disponibilità dell'importo depositato dall'acquirente e che tale momento coinciderebbe con il decreto definitivo di aggiudicazione emesso dal Tribunale. In senso contrario si sostiene che il termine "incasso" esprimerebbe l'azione di chi riscuote o introita una somma di danaro, di cui acquisisce la disponibilità, ma l'immediata disponibilità del prezzo versato dall'aggiudicatario sarebbe proprio quello che è successo nel caso di specie all'atto del versamento del prezzo da parte dell'aggiudicatario. La sentenza impugnata, invece, si inventerebbe che l'aggiudicatario provvede ad un deposito infruttifero presso la Cancelleria del Tribunale secondo le norme di procedura. Tali norme, tuttavia, non sono citate perché non esisterebbero, mentre esisterebbe l'art. 585 c.p.c., secondo il quale l'aggiudicatario deve versare il prezzo nel termine e nel modo fissati dall'ordinanza che dispone la vendita.

Infine, sotto il profilo del quantum, si osserva che nell'ipotesi delle procedure concorsuali l'ufficio fallimentare non avrebbe né i mezzi né la capacità imprenditoriale per ritrarre dall'immobile acquisito alla massa quella redditività media ordinaria, in ragione della quale verrebbe studiata e modulata l'entità del prelievo. A maggior ragione emergerebbe l'irragionevolezza dell'entità del prelievo fiscale riguardo ad un immobile strumentale per natura, perché, mentre l'imprenditore utilizza il fabbricato industriale a fini produttivi, il fallimento, essendo il cespite destinato alla vendita, lo lascerebbe inutilizzato, accelerando al più l'iter della cessione. Ne deriverebbe che il medesimo trattamento impositivo per cespiti che versano in situazioni così diverse, per certi versi antitetiche, vulnererebbe ì parametri costituzionali dell'irragionevolezza e della capacità contributiva (art. 3 e 53 Cost.).

8.3. Il Pubblico Ministero ha concluso la sua requisitoria orale, chiedendo il rigetto del ricorso principale. In particolare, per quel che riguarda il primo motivo d'impugnazione proposto dal Fallimento, egli ha sostenuto che l'"incasso", di cui parla l'art. 10.6 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, dovrebbe intendersi come "disponibilità" o come "prelevabilità" della relativa somma, cosicché il giorno terminale del periodo d'imposizione Ici sarebbe quello di adozione del decreto di trasferimento del bene.

8.4. Il Fallimento ha depositato, al termine della discussione della causa, brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del Pubblico Ministero, e ha ricordato che l'art. 1.173.c) l. 27 dicembre 2006, n. 296, ha sostituito, nell'art. 10, comma ultimo, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, la locuzione "dalla data in cui il prezzo è stato incassato" con la locuzione "dalla data del decreto di trasferimento degli immobili". Ne deriverebbe che dall'1 gennaio 2007 il curatore del fallimento sarebbe tenuto a calcolare e a versare l'Ici entro tre mesi decorrenti, non più dalla riscossione del prezzo, ma dalla data del decreto di trasferimento. Per contro, sino al 31 dicembre 2006 il curatore avrebbe dovuto calcolare e versare l'Ici, sotto la comminatoria di sanzioni, entro tre mesi dalla data di riscossione del prezzo.

8.5.1. Tenuto conto delle questioni sollevate dal ricorrente Fallimento, dell'intervento del Pubblico Ministero e della replica del ricorrente principale, le disposizioni normative da tener in conto al fine d'individuare la norma, sotto la quale operare la sussunzione del caso di specie ultima oggetto della controversia, sono le seguenti:

a) l'art. 10.6 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, secondo cui "Per gli immobili compresi nel fallimento o nella liquidazione coatta amministrativa l'imposta è dovuta per ciascun anno di possesso rientrante nel periodo di durata del procedimento ed è prelevata, nel complessivo ammontare, sul prezzo ricavato dalla vendita. Il versamento dell'imposta deve essere effettuato entro il termine di tre mesi dalla data in cui il prezzo è stato incassato; entro lo stesso termine deve essere presentata la dichiarazione";

b) l'art. 1.173.c) l. 27 dicembre 2006, n. 296, il quale ha così sostituito il testo originario dell'art. 10.6 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504: "Per gli immobili compresi nel fallimento o nella liquidazione coatta amministrativa il curatore o il commissario liquidatore, entro novanta giorni dalla data della loro nomina, devono presentare al comune di ubicazione degli immobili una dichiarazione attestante l'avvio della procedura. Detti soggetti sono, altresì, tenuti al versamento dell'imposta dovuta per il periodo di durata dell'intera procedura concorsuale entro il termine di tre mesi dalla data del decreto di trasferimento degli immobili";

c) l'art. 108.4 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, secondo cui "Il giudice che procede [alla vendita degli immobili] può sospendere la vendita, quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto";

d) l'art. 586.1 c.p.c., per il quale "Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell'esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto ovvero pronunciare decreto col quale trasferisce all'aggiudicatario il bene espropriato...".

8.5.2. Le questioni che si sottopongono in maniera strettamente connessa all'esame della Corte riguardano, con riferimento ai fatti verificatisi prima del 2007, la durata del periodo d'imposizione Ici di un bene immobile, che, già acquisito alla massa fallimentare, sia alienato ad un terzo aggiudicatario, e la determinazione del giorno iniziale del periodo di tre mesi durante il quale il curatore del fallimento ha l'obbligo di presentare la dichiarazione Ici e di versare l'imposta.

La prima questione potrebbe essere risolta assumendo come periodo d'imposizione quello che va dalla dichiarazione di fallimento al versamento della somma da parte del terzo acquirente (tesi del Fallimento, ricorrente principale) o quello che va dalla dichiarazione di fallimento al decreto di trasferimento del giudice del fallimento (tesi del Comune, resistente). Il punto controverso riguarda, dunque, soltanto la data conclusiva del periodo.

Alla prima si connette la seconda questione, perché la tesi del Fallimento sulla minor durata del periodo d'imposizione, estesa dalla dichiarazione di fallimento solo fino alla data del versamento del prezzo, è sostenuta invocando, tra le possibili interpretazioni letterali dell'art. 10, comma 6, secondo periodo, prima proposizione, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, quella secondo cui la parola "incasso", ivi impiegata, significherebbe "versamento" o "pagamento", mentre la tesi del Comune sulla maggior durata del periodo d'imposizione, estesa dalla dichiarazione di fallimento fino alla data del decreto di trasferimento, si basa sull'attribuzione all'incasso" del significato di "definitiva disponibilità" o di "prelevabilità".

Poiché la soluzione della prima questione si fa dipendere dalla soluzione della seconda, questa dev'essere esaminata per prima.

Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sulla questione, adottando una decisione (Corte di cassazione 1 settembre 2004, n. 17636), che questo Collegio condivide e secondo la quale il termine per il versamento dell'Ici, previsto dall'art. 10.6 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, decorre dalla data del decreto di trasferimento dell'immobile aggiudicato:

a) perché la ratio della norma è duplice, in quanto si vuole "da un lato, consentire al curatore fallimentare di differire il pagamento dell'imposta maturatasi a carico della procedura fallimentare sino ai tre mesi successivi al momento in cui è possibile prelevarne il complessivo ammontare dal ricavato della vendita immobiliare [,e,] dall'altro, attribuire al comune la possibilità di un effettivo soddisfacimento (in prededuzione) della pretesa tributaria, in relazione a quel singolo immobile assoggettato ad Ici, in quanto posseduto dal fallimento e per il periodo di durata di tale possesso";

b) perché l'imposta "è prelevata, nel complessivo ammontare, sul prezzo ricavato dalla vendita" (art. 10.6.1 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504);

c) perché, conseguentemente, il versamento dev'essere effettuato in unica soluzione;

d) perché il versamento dell'Ici presuppone, quindi, il completamento del periodo di assoggettamento del fallimento all'Ici, in relazione all'immobile;

e) perché tale periodo si conclude solo con il decreto di trasferimento della proprietà del bene all'aggiudicatario;

f) perché il "prelievo" dell'Ici dal ricavato del prezzo di vendita presuppone la "prelevabilità", la quale non può darsi prima del decreto di trasferimento del bene in forza dell'art. 108 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, e dell'art. 586.1 c.p.c., i quali prevedono che nel periodo che va dal versamento del prezzo al decreto di trasferimento il giudice può sospendere la vendita; perché, in definitiva, "incasso" vale "prelevabilità".

La soluzione data alla questione della determinazione del giorno iniziale del periodo di tre mesi durante il quale il curatore del fallimento ha l'obbligo di versare l'imposta, identificandolo con la data del decreto di trasferimento, comporta che la questione relativa alla durata del periodo d'imposizione Ici si risolva nel senso che esso si estende dalla dichiarazione di fallimento fino ad arrivare, oltre la data del versamento del prezzo, fino alla data del decreto di trasferimento.

La norma da applicare al caso di specie è, pertanto, la seguente: "Il versamento dell'Ici deve essere effettuato, nel suo ammontare complessivo per il periodo che va dalla dichiarazione di fallimento fino al decreto di trasferimento, entro il termine di tre mesi dalla data in cui il prezzo versato dall'aggiudicatario è prelevabile, cioè dalla data del decreto di trasferimento degli immobili".

Nella composizione di questa norma non si utilizza affatto il materiale letterario introdotto dall'art. 1.173.c) l. 27 dicembre 2006, n. 296, perché già prima della sua entrata in vigore fissata all'1 gennaio 2007 dal comma 1364 dello stesso art., il regime dell'imposizione dell'Ici sui beni compresi nel fallimento era dettato da quella norma, già individuata dalla giurisprudenza di questa Corte e qui formulata nel capoverso precedente, che determina sia il periodo dell'imposizione sia il periodo dell'adempimento dell'obbligazione tributaria. Ne deriva che l'art. 1.173.c) l. 27 dicembre 2006, n. 296, è una disposizione normativa che, almeno per quel che riguarda la determinazione del giorno iniziale del termine entro il quale il curatore deve versare l'Ici, non innova in alcun modo rispetto al regime precedente, limitandosi ad esplicitare una norma che era già implicita nella normazione antecedente e di cui questa Corte aveva giurisprudenzialmente evidenziata l'esistenza.

8.5.3. Le considerazioni esposte conducono a riconoscere che è infondato il primo motivo d'impugnazione del ricorso principale.

9.1. Con il secondo motivo d'impugnazione, proposto in via subordinata, s'ipotizza la violazione e/o la falsa applicazione degli art. 5 e 10, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504.

9.2. Il Fallimento sostiene, in proposito, che la pretesa impositiva dovrebbe essere calcolata, non con il meccanismo forfettario indicato nell'art. 5 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, ancorché il valore così ricavato sia notevolmente superiore al valore reale, ma su una base corrispondente al valore reale del bene rappresentato dal prezzo ricavato dalla vendita del cespite, perché il prezzo finale di aggiudicazione corrisponderebbe, in principio, a quello effettivo di mercato previsto dall'art. 5.5 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504.

10.1. Con il terzo motivo di censura si lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell'art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504.

10.2. Secondo il ricorrente Fallimento la Commissione tributaria regionale, affermando che il riferimento al prezzo di vendita è formulato esclusivamente ai fini della riscossione dell'imposta, ignorerebbe la circostanza che, se l'immobile non viene venduto in seno al fallimento, non si perfeziona il presupposto d'imposta e, quindi, il curatore non dovrebbe né calcolare né versare l'imposta; per contro, il dato testuale della norma (art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504), secondo il quale l'imposta è prelevata sul prezzo ricavato dalla vendita, manifesterebbe chiaramente come il tributo sia agganciato alla ricchezza introitata mediante la vendita del cespite, escludendo espressamente che l'imposta sia parametrata su altri valori o con altri criteri; dovrebbe, infatti, prevalere il criterio che individua nel prezzo di aggiudicazione il valore del bene e, quindi, la base imponibile cui applicare l'imposta.

11.1. Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere esaminati congiuntamente, perché essi propongono la medesima questione di diritto, consistente nel domandare se l'Ici sui beni immobili compresi nel fallimento debba essere calcolata con il meccanismo forfettario indicato nell'art. 5 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, o non piuttosto sulla base corrispondente al valore reale del bene rappresentato dal prezzo ricavato dalla vendita del cespite.

11.2. I due motivi sono infondati per le stesse ragioni già addotte a sostegno dell'identica questione risolta dalla sentenza di questa Sezione 24 ottobre 2005, n. 20575, in una controversia apertasi tra le stesse parti, e che, pienamente condivise da questo Collegio, possono essere così sintetizzate:

a) la quantità dell'oggetto dell'Ici, la cosiddetta base imponibile, è determinata dall'art. 5.2 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nel valore "costituito da quello che risulta applicando all'ammontare delle rendite risultanti in catasto... i moltiplicatori" ex art. 52, comma ultimo, primo periodo, d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131;

b) la quantità dell'oggetto dell'imposta è un elemento fondamentale del tributo, che soggiace alla riserva di legge ex art. 23 Cost.;

c) l'art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, intitolato "Versamenti e dichiarazioni", riguarda, non la struttura del tributo, ma quel profilo del procedimento di attuazione della norma impositiva, che è dato dalla dichiarazione e dal versamento, e il suo comma 6, senza occuparsi degli elementi dell'Ici, detta un regime specifico per la dichiarazione e per il versamento con riguardo ai beni immobili compresi nel fallimento;

d) la qualità dell'oggetto dell'Ici, il cosiddetto presupposto dell'imposta, è individuato dal legislatore nel bene immobile posseduto e il possesso dell'immobile si verifica allo stesso modo sia in una situazione di normale titolarità sia in una situazione anormale, qual è quella del fallimento;

e) quanto al fallimento, mentre non si può configurare alcuna ragione giustificativa per un diverso trattamento degli elementi statici dell'Ici, costituiti dalla qualità e dalla quantità del suo oggetto, con conseguente effetto sulla quantità del suo contenuto, si giustifica lo speciale regime di quegli aspetti dinamici del tributo che sono costituiti dalle modalità della dichiarazione e dalle modalità del pagamento dell'imposta.

12. In conclusione, la riconosciuta infondatezza di tutti i motivi del ricorso principale conduce al suo rigetto.

13.1. Con l'unico motivo d'impugnazione, proposto con il suo ricorso incidentale, il Comune denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 8 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e dell'art. 6 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, oltre all'insufficiente e/o alla contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine ad un punto decisivo della controversia.

13.2. Sostiene, in proposito, il Comune che la decisione della Commissione tributaria regionale di respingere il suo appello incidentale, relativo all'applicazione delle sanzioni amministrative, per l'obiettiva incertezza della norma tributaria, contrasterebbe con la legge, perché tale scusante troverebbe applicazione solo quando sia riscontrabile una seria perplessità sul significato della disposizione normativa da applicare, cioè quando il dato normativo non è oggettivamente in grado di assolvere correttamente alla sua funzione. Nel caso di specie poi, sarebbe la stessa Commissione tributaria regionale a riconoscere, contraddittoriamente, la chiarezza della disposizione applicabile, quando afferma che "sia il tenore letterale della norma, che l'intitolazione dello stesso art. 10 ... evidenziano che il riferimento al prezzo di vendita è formulato esclusivamente ai fini della riscossione dell'imposta, senza che esso abbia alcuna incidenza sulla base imponibile".

13.3.1. Delle due questioni proposte conviene esaminare subito la seconda, relativa alla motivazione della sentenza impugnata, perché essa è malamente posta e il suo preliminare accantonamento facilita la soluzione della prima e principale questione di violazione della legge.

Si deve sottolineare, al riguardo, che, nonostante nell'epigrafe del motivo si preannunci che si censurerà la motivazione della sentenza impugnata sotto il duplice profilo dell'insufficienza e della contraddittorietà, le argomentazioni, subito dopo addotte a sostegno della duplice tesi, illustrano soltanto le ragioni dell'illogicità della motivazione, mentre viene completamente trascurata la pur annunciata ipotesi di insufficienza, che, pertanto, rimane nella sfera dell'astrattezza e si ferma sulla soglia dell'inammissibilità.

L'unica ipotesi coltivata, quella di contraddittorietà della motivazione della sentenza d'appello, è priva di fondamento, perché è vero che la frase attribuita dal Comune alla Commissione tributaria regionale è contenuta nella sua sentenza, ma essa è collocata, all'interno della motivazione, in un contesto diverso (vedasi retro § 3.e)) da quello ipotizzato dal ricorrente incidentale; il contestò è la trattazione di quella, delle due questioni controverse, riguardante il criterio di determinazione della quantità dell'oggetto dell'Ici, che è diversa da quella relativa alla determinazione del periodo d'imposizione. Inoltre, e in ogni caso, è di per sé risolutiva la considerazione che la dichiarazione del giudice d'appello, secondo cui la lettera dell'art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, evidenzia "che il riferimento al prezzo di vendita è formulato esclusivamente ai fini della riscossione dell'imposta senza che esso abbia alcuna incidenza sulla base imponibile, la cui determinazione è regolata in via generale dal precedente art. 5", non è altro che l'enunciazione del giudizio della Commissione tributaria regionale sulla struttura della norma giuridica individuata, la quale non è affatto incompatibile con il riconoscimento, effettuato successivamente e separatamente (vedasi retro § 2.f)), che tutte le disposizioni normative investite dalle questioni controverse - tutte, e non solo quella riguardante la quantità dell'oggetto dell'Ici - sono d'interpretazione obiettivamente incerta. La censura relativa all'ipotizzato vizio di motivazione della sentenza impugnata è, pertanto, sfocata rispetto alla decisione e confonde il giudizio di "oggettività", formulato dal giudice d'appello, sull'incertezza della normazione tributaria con il giudizio che egli si è sentito, doverosamente in osservanza del principio di non liquet, di formulare con riguardo al caso sottoposto al suo esame.

13.3.2. Resta, così, da valutare la fondatezza della prima subcensura, secondo la quale non esisterebbero, nel caso dell'art. 10 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, le difficoltà interpretative, previste dalla legge come causa di sottrazione del contribuente alle sanzioni amministrative tributarie, che il giudice d'appello ha invece riconosciuto esistenti.

13.3.2.1. Si deve sottolineare, al riguardo, che la censura formula un'ipotesi di violazione di legge, ai sensi dell'art. 360.1, n. 3, c.p.c., trascurando ogni profilo d'invalidità della motivazione della sentenza impugnata, sul quale il ricorrente si sofferma, successivamente e a parte, esclusivamente sotto la specie della contraddittorietà, ma che, come s'è appena veduto, è privo di fondamento. Si consideri che il giudice d'appello ha testualmente affermato che «si deve riconoscere che le difficoltà interpretative del disposto normativo sopra evidenziate sono tali da rappresentare uno di quei casi di "obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni"». Egli ha, dunque, adottato, per il suo giudizio sull'esistenza dell'incertezza normativa oggettiva tributaria, una motivazione per relationem interna alla stessa sentenza, e precisamente alle sue precedenti pagine 5-7, che contengono il ragionamento, qui sintetizzato nel § 3. a)-e), attraverso il quale il giudice d'appello è giunto alla decisione sulle due questioni sollevate dal Fallimento appellante principale. Ora, con il ricorso incidentale per cassazione il Comune non chiede che questa Corte verifichi la correttezza della decisione d'appello sul merito della controversia e la validità della sua motivazione, perché, tra l'altro, tale verifica era stata chiesta con il suo ricorso principale dal Fallimento, al quale la Corte ha già risposto nei precedenti §§ 8-12. Il Comune chiede, invece, che questa Corte controlli se, fermi l'accertamento dei fatti e la loro categorizzazione operati dal giudice di merito, intorno alle questioni dibattute sussista, oppure no, incertezza normativa oggettiva, a prescindere dalla verifica dell'invalidità della motivazione, sul punto, della sentenza impugnata, che è stata contestata, infondatamente, solo sotto il profilo della contraddittorietà.

Poiché, dunque, il ricorso incidentale investe solo la sussumibilità sotto la norma sull'incertezza oggettiva di fatti già accertati e categorizzati dal giudice d'appello, esso è ammissibile in sede di legittimità, perché si propone una questione di diritto, senza impegnare la Corte in un giudizio di fatto. In questo senso è orientata in prevalenza la giurisprudenza di questa Corte, che si è ripetutamente pronunciata sulla questione relativa alla violazione di legge riferita alla norma sull'incertezza normativa oggettiva tributaria (vedansi, in proposito, le sentenze: 2 aprile 2007, n. 8187; 9 febbraio 2007, n. 2933; 20 dicembre 2006, n. 27222; 17 novembre 2006, n. 24483; 27 ottobre 2006, nn. 23228 e 23229; 25 ottobre 2006, n. 22890; 7 luglio 2006, nn. 15551 e 15552; 23 giugno 2006, n. 14670; 1 giugno 2006, n. 13079; 6 febbraio 2006, n. 2478; nello stesso senso, a contrario, Corte di cassazione 18 maggio 2007, n. 11586). Né tale orientamento si pone in contrasto, se non apparente, con quell'altro filone giurisprudenziale, secondo il quale è insindacabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione, la valutazione della scusabilità della violazione tributaria, in quanto essa si sostanzierebbe in un giudizio di fatto (Corte di cassazione: 12 gennaio 2007, n. 561; 13 novembre 2006, n. 24190; 27 marzo 2006, n. 6943; 21 marzo 2001, n. 4053). Infatti, il principio stabilito dalla seconda serie di sentenze conserva la sua validità se il ricorrente, invece di limitarsi a chiedere, come ha fatto il Comune in questa causa, la verifica della sussumibilità, sotto la norma sull'incertezza oggettiva, di fatti già accertati e categorizzati dal giudice di merito, chieda alla Corte l'adempimento di compiti - accertamento di fatti e loro categorizzazione - riservati all'esclusiva competenza del giudice di merito (Corte di cassazione: 9 marzo 2005, n. 5105; 29 settembre 2005, nn. 19083 e 19084; 4 novembre 2003, n. 16491).

13.3.2.2. Dopo queste necessarie precisazioni preliminari, passando all'esame della questione sollevata, si deve ricordare che l'incertezza normativa oggettiva è prevista, come causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, da varie disposizioni, così formulate:

a) l'art. 8.1 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede che "La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce";

b) l'art. 6.2 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, per il quale "Non è punibile l'autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono ...";

c) l'art. 10.3.1 l. 27 luglio 2000, n. 212, secondo il cui testo originario "Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria ..."; l'art. 1.1 d.l. 17 giugno 2005, n. 106, conv. in l. 31 luglio 2005, n. 156, vi ha aggiunto la seguente disposizione: "in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria".

13.3.2.3. Le prime due disposizioni normative riprodotte utilizzano la medesima formula: "obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni", mentre la terza usa, in luogo di "disposizioni" l'espressione "norma tributaria". Tali formule soffrono di qualche impurità lessicale, che, in quanto si presti a celare una corrispondente improprietà concettuale, induce ad intervenire con un adeguato lavoro di riscrittura.

La conversione linguistica della formula legislativa deve tener conto, anzitutto, del fatto che il riferimento dell'incertezza alle disposizioni dev'essere rettificato nel duplice senso che esso dev'essere inteso, non solo come assunzione ad oggetto di incertezza delle disposizioni "normative", ma anche e soprattutto della norma giuridica che da esse si trae, come correttamente fa l'art. 10.3.1 l. 27 luglio 2000, n. 212. Alla base della sostituzione, nella formule legislative che si prestano al rilievo, della parola "norma (giuridica)" alla parola "disposizioni" sta la considerazione che la disposizione normativa è, nella stragrande maggioranza dei casi, soltanto un frammento di norma e che la norma risulta solo quando, attraverso la composizione del materiale linguistico contenuto nelle varie disposizioni, si riesca a confezionare una dichiarazione completa di tutti i suoi elementi essenziali e, in particolare, dei suoi elementi non standardizzati che sono costituiti dall'oggetto, dai destinatari e dal contenuto.

In secondo luogo, la sostituzione di "norma" a "disposizioni" è resa necessaria dal fatto che solo con riferimento alla norma si può parlare di "portata" come equivalente del suo "contenuto", mentre non ha senso parlare di "portata" di una disposizione normativa, perché essa si pone alla norma come un suo frammento, che solo eventualmente può constare del contenuto di quella norma che possa comporsi anche attraverso la sua combinazione con altri frammenti.

Infine, per le medesime ragioni appena esposte per la cosiddetta "portata", non ha senso sicuro riferire l'"ambito di applicazione" alla disposizione normativa, perché il solo significato tecnico dell'espressione è quello che s'individua riferendosi alla norma giuridica per indicare un fenomeno strutturale di genere, che si manifesta nelle due specie dell'oggetto della norma (ambito di applicazione oggettivo) e dei suoi destinatari (ambito di applicazione soggettivo).

La prima provvisoria conclusione che può trarsi dalle precedenti considerazioni è che le formule legislative "obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni" e "obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della norma tributaria" possono, e devono, essere convertite nella seguente: "obiettive condizioni di incertezza sul contenuto, sull'oggetto e sui destinatari della norma tributaria".

Se, poi, si considera che alla norma si giunge dopo aver individuato le fonti di produzione delle disposizioni normative e dopo averne tratto i materiali linguistici per la composizione di tutti gli elementi necessari per aversi una dichiarazione della specie del comando normativo, e poiché tali due operazioni sono le prime e più rilevanti attività di cui consta l'interpretazione normativa, si deve riconoscere che nella formula proposta si può ben sostituire la parola "norma" con "interpretazione normativa", onde la formula legislativa può più precisamente essere convertita in questa: "obiettive condizioni di incertezza sull'interpretazione normativa tributaria". Per comodità di espressione si può, infine, sempre in via provvisoria, comprimere l'espressione "obiettive condizioni" nella qualificazione di "oggettivo" e ridurre l'espressione "interpretazione normativa" al solo aggettivo "normativa", cosicché il fenomeno di cui si deve determinare la natura può essere più brevemente indicato come quello dell'incertezza normativa oggettiva tributaria", che è l'espressione usata all'inizio di questo paragrafo e di cui, quindi, si è dato conto.

13.3.2.4. Tale determinazione richiede che, dopo aver chiarito che la parola "normativa" designa nell'interpretazione normativa e, quindi, nella norma l'oggetto dell'incertezza, si individuino i significati delle altre due parole: "incertezza" e "oggettiva", che, a parte la specificazione di "tributaria", sono impiegate per comporre l'espressione, e richiede anche che s'individui il senso della loro relazione.

Quanto all'incertezza, essa è, in natura, uno stato intellettivo del soggetto rispetto ad un dato oggetto - la norma tributaria, per quel che qui interessa -, che topicamente si caratterizza per la sua collocazione mediana tra la conoscenza piena e sicura e l'ignoranza e che strutturalmente si caratterizza, sotto il profilo quantitativo, per la sua insufficienza e, sotto il profilo qualitativo, per la sua insicurezza o per la sua equivocità. L'incertezza, dunque, non è ignoranza, non è assenza totale di conoscenza, ma è una conoscenza insufficiente e insicura, od equivoca.

L'incertezza acquista, poi, rilevanza giuridica in quanto la legge la consideri idonea a produrre effetti nell'ambito di un rapporto giuridico e colleghi, quindi, la naturale relazione cognitiva soggetto-oggetto con una relazione tra il soggetto incertamente conoscente e un altro soggetto.

L'incertezza normativa, inoltre, consiste nella situazione in cui si viene a trovare un soggetto, quando egli, dopo aver percorso tutte le fasi proprie del procedimento d'interpretazione normativa, giunge a confezionare più norme, cui si connettono necessariamente più significati, o a confezionare una norma alla cui formula linguistica sia possibile attribuire più significati, senza avere, in entrambi i casi, la sicurezza che il risultato conseguito sia l'unico tecnicamente possibile.

13.3.2.5. All'incertezza normativa la legge applica la qualificazione di "oggettiva". Ciò significa che essa assume come giuridicamente rilevante, non lo stato di conoscenza insufficiente e insicura di un soggetto, quale che sia, ma l'esistenza di un'incertezza in sé e per sé, oggettivamente considerata appunto. È evidente che la legge impiega un ossimoro, perché inserisce nella stessa locuzione parole che designano concetti contrari, cosicché viene affidato all'interprete il compito di individuare il significato che può essere dato all'oggettività di uno stato cognitivo, qual è l'incertezza, che è una condizione mentale e, quindi, un fenomeno soggettivo per la sua stessa natura.

Intanto, se l'incertezza è oggettiva, si distingue da altre forme, giuridicamente rilevanti, di conoscenza a posizione intermedia tra l'ignoranza e la conoscenza. In particolare, essa di differenzia dalla conoscibilità, o conoscenza potenziale, che, pur collocandosi in un'altra posizione mediana tra ignoranza e conoscenza tout court, è strutturalmente diversa dall'incertezza oggettiva. Infatti, la conoscibilità è lo stato nel quale si trova il soggetto che è ancora ignorante, ma che, impegnandosi nello sforzo di associarsi alla conoscenza di altri ed adottando un idoneo comportamento, può acquisire la conoscenza resagli possibile e transitare dall'ignoranza alla conoscenza effettiva; l'incertezza oggettiva, invece, non è più ignoranza, perché è conoscenza insicura ed equivoca di qualcosa, ma chi si trova calato in essa non è in grado di addivenire ad una conoscenza effettiva, piena e sicura.

Se questa è, in natura, l'incertezza oggettiva, per risolvere il problema posto dal legislatore con l'adozione di un ossimoro, è conveniente ragionare per assurdo e ipotizzare che, dato il legame necessario, per la natura delle cose, tra l'incertezza, come stato cognitivo, e il soggetto, possa aver senso parlare di incertezza normativa oggettiva solo se si afferma che l'incertezza normativa è così generale da estendersi a tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico.

Per la verità non mancherebbero seri e validi argomenti per non escludere a priori che l'incertezza normativa non potrebbe essere che totale.

Si potrebbe considerare, a tal fine, che il codice linguistico, usato per necessità dai produttori delle norme, è intrinsecamente equivoco e che i produttori delle norme sono inevitabilmente plurimi sia sotto il profilo soggettivo (pluralità dei soggetti titolari del potere di normazione) sia sotto il profilo cronologico (inesauribilità di ciascuno dei poteri normativi previsti dall'ordinamento) sia sotto il profilo della struttura del sistema normativo (gerarchia e competenza), per prevedere che non un solo problema d'interpretazione normativa potrebbe sottrarsi all'incertezza generalizzata fino al punto da estendersi alla totalità dei soggetti.

A dimostrare, tuttavia, l'assurdità delle conseguenze cui condurrebbe la concezione dell'incertezza normativa oggettiva come incertezza soggettivamente totale, si schierano le seguenti considerazioni.

Anzitutto, si deve constatare l'ineliminabile equivocità del codice linguistico, che crea problemi di conoscenza, in termini d'incertezza, che si superano solo riconoscendo che esso ha natura convenzionale, nel senso che si può avere certezza intorno a quel che si trasmettono dichiarante e destinatario (legislatore e destinatario della norma) o, in sede applicativa, due destinatari della norma (amministrazione finanziaria e contribuente, per quel che interessa in questa sede), solo se essi sono d'accordo sul significato della dichiarazione che li collega comunicativamente; se, poi, la convenzione non riesce a formarsi, perché i soggetti non hanno raggiunto autonomamente la certezza necessaria per disciplinare il loro rapporto, essi sono costretti dalla legge a chiederla ad un'autorità, che, nel nostro ordinamento, è il giudice, la cui attività è regolata dal principio del non liquet. Una tale visione del funzionamento del linguaggio giustificherebbe anche le teorie processualistiche, secondo le quali l'unico vero diritto sarebbe quello che è pronunciato dal giudice, se non fosse che - e il rilievo vale anche con riferimento al modo d'intendere il diritto vivente esclusivamente come il diritto giurisprudenziale - esse trascurano la parte dell'esperienza giuridica non autoritativa, perché convenzionalmente vissuta.

La seconda considerazione è diretta conseguenza della prima e consiste nell'osservare che nell'ordinamento giuridico non si può ammettere che, alla fine del procedimento interpretativo, vi sia incertezza intorno alle norme giuridiche, perché essa contraddirebbe la funzione ordinante dello stesso ordinamento, tant'è che la certezza è d'uopo che si realizzi comunque, per convenzione o per autorità. Stando così le cose in natura ed essendo così organizzata la vita del gruppo sociale eretto in ordinamento giuridico, se si ammettesse l'incertezza normativa oggettiva come incertezza di tutti i soggetti dell'ordinamento, da un lato si negherebbe alla normazione nel suo complesso e alle singole sue norme la loro funzione direttiva e, quindi, la loro funzione ordinante, e dall'altro si negherebbe la funzione istituzionale del giudice, cui è attribuito il potere, ad esercizio vincolato (principio del non liquet), di creare la certezza non raggiunta convenzionalmente dagli altri soggetti dell'ordinamento. Senza la certezza normativa lo stesso ordinamento giuridico non potrebbe sorreggersi e, a maggior ragione, non potrebbero mantenersi né il sistema tributario né il suo subsistema sanzionatorio.

In conclusione, ammettere che l'incertezza normativa oggettiva sia l'incertezza normativa di tutti i soggetti contrasta con la natura dell'ordinamento giuridico; più specificamente, ammettere che l'incertezza normativa oggettiva tributaria sia quella che investe tutti i soggetti paralizzerebbe il sistema tributario. Si tratta di conseguenze assurde, che inducono a ritenere che sia errato il presupposto, sul quale le si sono ipoteticamente e argomentativamente costruite, dell'incertezza normativa oggettiva come incertezza di tutti i soggetti dell'ordinamento.

Ne deriva che l'incertezza normativa oggettiva dev'essere intesa come l'incertezza normativa oggettivamente esistente solo per alcuni soggetti o per alcune categorie di soggetti.

13.3.2.6. Così avviato a chiarificazione l'ossimoro legislativo, per il completamento dell'opera d'interpretazione sovviene il concetto di situazione giuridica oggettiva, come fenomeno di genere di cui l'incertezza normativa è stata configurata come una specie. Secondo le più rassicuranti prospettazioni dottrinali il legislatore attribuisce talvolta rilevanza giuridica al risultato della verificazione di una serie di fatti giuridici, naturali e/o umani, tra loro connessi in maniera tale da dar vita ad un "ambiente fattuale", che, indipendente da comportamenti soggettivi, si manifesta come presupposto per l'esercizio di situazioni soggettive: quando la legge collega tale ambiente di fatto con un soggetto o con una categoria di soggetti, essi sono collocati all'interno di un rapporto giuridico, perché tutte le situazioni oggettive sono giuridicamente rilevanti in quanto stabilite in ordine all'azione di un soggetto, non nel senso che esse attengano alla condotta del soggetto, perché allora sarebbero delle situazioni soggettive, ma nel senso che, in presenza di esse, viene determinato e modellato l'esercizio delle situazioni soggettive. In altri termini, una situazione oggettiva è giuridicamente rilevante se essa è collegata dal legislatore con dei soggetti, in modo da influenzarne gli status giuridici e le situazioni giuridiche soggettive che li compongono.

Si tratta, conseguentemente, di stabilire, per quel che riguarda l'incertezza normativa oggettiva tributaria, quali siano i soggetti con i quali il legislatore intende che essa, in quanto situazione oggettiva, debba essere collegata in modo tale che le si possa riconoscere la delicatissima rilevanza giuridica di esimente dalla responsabilità amministrativa tributaria per il contribuente.

Una parte della dottrina tributaristica si è occupata del problema, ma, dopo aver constatato che l'incertezza oggettiva è "elemento poco incline ad essere definito concettualmente", si è limitata a sostenere che la sua struttura si baserebbe sull'inferenza tra elemento soggettivo ed oggettivo e che essa presupporrebbe la buona fede del soggetto agente da valutarsi alla stregua di parametri oggettivi.

Questo orientamento dottrinale non può essere condiviso, perché, a parte la rinuncia alla definizione concettuale dell'incertezza normativa oggettiva, non convince la riconduzione dell'istituto nell'ambito di operatività del principio generale della scusabilità dell'ignoranza di diritto incolpevole e, quindi, la rilevanza attribuita alla buona fede del contribuente, che, tenuto conto della descrizione che contestualmente, da parte della stessa dottrina, si dà del sistema normativo in generale e di quello tributario in particolare, dovrebbe presupporsi sempre ed automaticamente, con la conseguenza che l'incertezza normativa oggettiva coinciderebbe con quella, appena rigettata, della totalità dei soggetti dell'ordinamento.

La natura dell'incertezza, la natura normativa del suo oggetto e la funzione dell'ordinamento giuridico e della sua normazione orientano, invece, come s'è cercato di dimostrare, verso una concezione dell'incertezza normativa come una situazione oggettiva, che, deve aggiungersi a questo punto, è rilevante giuridicamente in quanto sia riferita soggettivamente ai soli giudici. Infatti, l'efficacia di esenzione dalla responsabilità amministrativa tributaria, che il legislatore attribuisce all'incertezza normativa oggettiva, comporta che essa debba essere intesa in maniera molto restrittiva, dovendosi escludere anzitutto che l'ambiente fattuale di incertezza creato dai fatti produttivi delle norme sia da rapportare, non di fatto, ma giuridicamente, non solo al generico contribuente, ma anche a quei contribuenti che pure, per la loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale) (Corte di cassazione 28 maggio 2007, n. 12442). Inoltre, è da escludere che l'incertezza oggettiva sia da rapportare all'ufficio tributario, perché il titolare del potere d'imposizione tributaria deve svolgere continuamente un'attività d'interpretazione normativa, del cui risultato sì deve dichiarare certo a prescindere dalle difficoltà incontrate, con la conseguenza che l'ufficio tributario non disapplicherà mai, di sua iniziativa, le sanzioni amministrative tributarie; esso, infatti, al pari del giudice, ma in ragione di un dovere diverso - il dovere d'ufficio amministrativo - non può avere incertezze, perché è tenuto a dare attuazione alla norma giuridica tributaria, dopo averla previamente individuata (un'implicita conferma sembra potersi desumere dalla sentenza di questa Corte 18 aprile 2003, n. 6251). La conferma deriva dalla constatazione che delle disposizioni normative che prevedono l'incertezza normativa oggettiva tributaria una s'indirizza espressamente al giudice tributario e le altre due non a caso si esprimono, quanto al destinatario dell'attribuzione del potere di disapplicazione delle sanzioni, in modo elusivo, perché devono essere interpretate come rivolte esclusivamente al giudice.

L'unico soggetto che, al fine voluto dal legislatore, può ritenersi collegato giuridicamente all'incertezza normativa come situazione oggettiva è, dunque, il giudice, perché il giudice è il solo soggetto dell'ordinamento giuridico che, di fronte alla mancata stipulazione di qualsiasi convenzione tra i soggetti destinatari della norma, ha il potere di accertare se, prima che ci si rivolgesse a lui, davvero esistessero le condizioni perché una convenzione non potesse essere ragionevolmente stipulata. Invero, non basta certo agire in giudizio per ritenere che la questione proposta sia oggetto di un'incertezza normativa oggettiva, come sta a dimostrate sia il potere del giudice di dichiarare una pretesa manifestamente infondata sia l'espressa previsione legislativa che "in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria" (art. 10.3.1, ultimo periodo, l. 27 luglio 2000, n. 212).

13.3.2.7. Quando il giudice si trovi in una situazione giuridica oggettiva di incertezza normativa tributaria è circostanza che spetta allo stesso giudice di valutare, perché tale attività rientra nello svolgimento del suo fondamentale compito di creare certezza. Poiché l'incertezza normativa oggettiva tributaria è quella situazione giuridica oggettiva che coincide con il risultato inevitabilmente equivoco dell'interpretazione normativa condotta dal giudice, chiedere la verificazione della sua esistenza con riguardo ad un caso di specie ultima già accertato e categorizzato dal giudice di merito, com'è accaduto nella controversia in esame, significa proporre una questione di diritto, con la conseguenza che di essa può essere investito anche il giudice di legittimità, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, di cui s'è già riferito.

13.3.2.8. Se ne trae conferma anche dalla, sia pur approssimativa, comune impostazione, che, senza porsi il problema del rapporto effettivo tra fatti giuridici (essenza/manifestazione, causa/effetto, significante/significato; presupponente/presupposto; presumente/presunto, ed altri configurabili), indica in una serie di fatti quelli che vengono chiamati i "sintomi" dell'incertezza normativa oggettiva, come, per esempio:

1) la difficoltà d'individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge (Corte di cassazione 8 marzo 2000, n. 2604),

2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica (Corte di cassazione: 2 aprile 2007, n. 8187; 3 ottobre 2006, n. 21328);

3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata (Corte di cassazione 25 ottobre 2006, n. 22890; per alcune ipotesi di riconoscimento di piena chiarezza del risultato dell'interpretazione normativa Corte di cassazione: 4 maggio 2007, n. 10262; 1 dicembre 2006, n. 25614; per l'esclusione che, ad integrare un'obiettiva incertezza sulla portata di una norma, sia sufficiente di per sé una sua formulazione letterale non assolutamente chiara, Corte di cassazione 23 agosto 2001, n. 11233);

4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà;

5) la mancanza di una prassi amministrativa o l'adozione di prassi amministrative contrastanti;

6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali (Corte di cassazione 5 settembre 2006, n. 19115; 23 agosto 2001, n. 11233);

7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti (Corte di cassazione: 24 agosto 2007, n. 18039; 14 maggio 2007, nn. 11051 e 11052; 21 febbraio 2007, n. 4044; 22 dicembre 2006, n. 27473; 20 dicembre 2006, nn. 27257 e 27258; 1 dicembre 2006, n. 25618; 7 luglio 2006, n. 155551 e 15552; 23 giugno 2006, n. 14670; 1 giugno 2006, n. 13079; 6 febbraio 2006, n. 2478), magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale (Corte di cassazione: 12 gennaio 2007, n. 533; 20 dicembre 2006, n. 27216; 17 febbraio 2006, n. 3510);

8) la formazione di un consolidato orientamento giurisprudenziale (Corte di cassazione 27 ottobre 2006, nn. 23228 e 23229);

9) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale;

10) il contrasto tra opinioni dottrinali;

11) l'adozione di norme d'interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente (Corte di cassazione: 3 agosto 2007, n. 17105; 10 novembre 2006, n. 24064); e altri ancora.

In questa elencazione è, tuttavia, ben evidente la diversità del ruolo da attribuire ai fatti 1)-3), che coincidono con il fenomeno dell'interpretazione normativa, rispetto agli altri, che possono operare come fatti indice.

13.3.2.9. A conclusione delle considerazioni fin qui esposte, sollecitate dalla peculiare impostazione del motivo d'impugnazione proposto dal ricorrente incidentale, si ritiene vigente il seguente principio di diritto, la cui formula è modellata per integrazione di quella dell'art. 10.3.1 l. 27 luglio 2000, n. 212: "Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da incertezza normativa oggettiva tributaria, cioè dal risultato equivoco dell'interpretazione delle norme tributarie accertato dal giudice, anche di legittimità".

13.3.2.10. Tale principio dev'essere ora applicato al caso di specie ultima, qui oggetto di controversia.

Il giudice d'appello ha ritenuto di dover confermare l'inapplicabilità delle sanzioni per le difficoltà interpretative che s'incontrano nella risoluzione della controversia.

La decisione merita di essere condivisa, perché, come risulta evidente dal percorso interpretativo seguito nel § 8.5, s'è dovuto ricorrere alla combinazione di più disposizioni tratte da diversi sistemi normativi settoriali (quello sostanziale dell'ICI; quelli, sostanziale e processuale, del fallimento; quello processualcivilistico) per comporre la formula della norma giuridica tributaria sotto la quale operare la sussunzione del fatto controverso. Inoltre, si è dovuto far ricorso a considerazioni sistematiche per attribuire alla parola "incasso" un significato tecnico, specifico del diritto tributario e del diritto fallimentare, diverso da quello comune ed usuale. Inoltre, la sentenza d'appello è stata pubblicata nel 2003 e il ricorso per cassazione è stato notificato (nell'agosto 2004) prima che fossero pubblicate le sentenze di questa Corte (1° settembre 2004 per la sentenza n. 17636 (v. § 8.5.2) e il 24 ottobre 2005 per la sentenza n. 20575 (v. § 11.2)), al cui orientamento s'è qui aderito. Infine, l'intervento con cui il legislatore del 2006 [art. 1.173.c) l. 27 dicembre 2006 n. 296] ha modificato l'art. 10.6 d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, stabilendo che il termine per il pagamento dell'ICI decorre, non dalla data dell'incasso, ma quella del decreto di trasferimento dell'immobile, senza peraltro innovare nella normazione, dimostra, proprio perché la nuova formula ha lasciato immutata la norma estraibile dalla formula sostituita, che il legislatore precedente si era espresso in modo equivoco e, quindi, creando una fonte di incertezza normativa tributaria tale da esigere una nuova, precisa e inequivoca disposizione normativa.

Ne risulta che è infondata anche la seconda subcensura dell'unico motivo d'impugnazione del ricorso incidentale del Comune.

14. Sulla base delle precedenti considerazioni si deve rigettare sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale.

15. La natura delle questioni proposte e la reciproca soccombenza comportano la compensazione delle spese processuali del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Sono compensate tra le parti le spese processuali relative al giudizio di cassazione.