Consiglio di Stato
Sezione VI
Sentenza 9 giugno 2008, n. 2767

FATTO

1. Con ricorso e motivi aggiunti proposti dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio Filippo Felini, Lucio Giuseppe Formaggi, Mario Spaziani, Vincenzo Antonelli, Mirko Carlos Tong Meneses, Domenico Vincenzo Reali, Cataldo Perfetti e Alessandro Corsi domandavano l'annullamento dei decreti del Prefetto di Frosinone nn. "3826/2007 Area II" del 21.2.2007 e "6242/07/Area II/S.E" del 22.3.2007.

A fondamento del ricorso deducevano plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere.

Si costituivano in giudizio per resistere al ricorso Ministero dell'Interno e la Prefettura di Frosinone.

Con sentenza n. 5802 del 26 giugno 2007 (preceduta dalla pubblicazione del dispositivo l'11 maggio 2007) il TAR accoglieva il ricorso.

2. Il dispositivo e la sentenza sono stati appellati dal Ministero dell'Interno e dalla Prefettura di Frosinone, che contrastano le argomentazioni del giudice di primo grado.

Si sono costituiti per resistere all'appello Giuseppe Demichela, Giovanni Gaia, Cinzia Biasibetti e Sabrina D'Addazio.

La causa è passata in decisione alla pubblica udienza dell'8 aprile 2008.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Filippo Felini, Lucio Giuseppe Formaggi, Mario Spaziani, Vincenzo Antonelli, Mirko Carlos Tong Meneses, Domenico Vincenzo Reali, Cataldo Perfetti e Alessandro Corsi hanno impugnato, nella qualità di consiglieri comunali, i provvedimenti con i quali il Prefetto di Frosinone ha, prima, "commissariato" il Comune di Sgurgola e, poi, disposto la convocazione dei comizi elettorali ai fini del rinnovo degli organi ordinari dell'ente.

Nel giudizio di primo grado è emerso che Antonio Corsi (Sindaco uscente del Comune di Sgurgola per la seconda volta consecutiva) era risultato vincitore nella competizione elettorale tenutasi il 28 e il 29 maggio 2006. In sede di convalida degli eletti, il Consiglio Comunale - pur rilevando la sussistenza della causa di ineleggibilità prevista dall'art. 51, 2° comma, t.u.e.l. (ma in considerazione del fatto che l'art. 141 non include una simile circostanza tra quelle censurabili da tale Consesso) - non ha ritenuto di dover adottare al riguardo alcuna determinazione.

Pur senza che ne venisse mai pronunciata la decadenza dalla carica con effetti ex tunc, l'ineleggibilità del Corsi era dichiarata dal Tribunale civile di Frosinone, con sentenza confermata dalla Corte d'Appello di Roma. Sulla base di questo presupposto l'Autorità prefettizia ha ritenuto da un lato che tutti gli organi dell'ente fossero "delegittimati" e, dall'altro, che l'ente stesso fosse assolutamente impossibilitato a funzionare, perciò disponendo il commissariamento e la successiva convocazione dei comizi elettorali.

Il TAR ha annullato detti provvedimenti, escludendo l'applicabilità dell'art. 19 r.d. 383/1934 (essendo quella di cui all'art. 141 t.u.e.l. norma speciale) e, comunque, insussistente la fattispecie legale del potere (impossibilità di funzionamento del Comune), sia perché la legge prevede un meccanismo compensativo della decadenza del sindaco (art. 53 d.lgs. 267/2000), sia perché detta decadenza era ancora sub judice alla data di adozione dei provvedimenti impugnati.

Insorge l'Amministrazione appellante, svolgendo un ampio excursus della materia - fondato sulla sostanziale assimilazione del divieto di terzo mandato alle ipotesi di incandidabilità, il cui accertamento ha natura dichiarativa ed efficacia ex tunc - e criticando la motivazione della sentenza appellata.

Resistono gli originari ricorrenti, ribadendo la posizione già sostenuta in primo grado.

2. L'appello è fondato.

Il Collegio ritiene opportuno procedere ad un esame complessivo delle questioni, nell'ordine logico in cui si pongono, inserendovi anche quelle riproposte dalle parti appellate e assorbite o non sviluppate dal giudice di primo grado.

Punto di partenza dell'analisi non può che essere quello relativo alla vigenza dell'art. 19 r.d. 383/1934, non abrogato dal t.u.e.l. (cfr. art. 273).

La questione si pone sotto due distinti profili, attinenti alla sua eventuale incompatibilità con il quadro costituzionale derivante dalla riforma di cui alla legge costituzionale 3/2001 ed alla pretesa specialità dell'art. 141 t.u.e.l.

Il Collegio ritiene che il potere statale di commissariamento in ipotesi di impossibilità di funzionamento dell'ente locale sia coerente con il nuovo modello costituzionale delineato dalle autonomie locali, in cui lo Stato mantiene una posizione di supremazia, desumibile dagli artt. 114, comma 2, 117, 120 della Costituzione. In particolare, la funzione in esame ricade nella materia di cui all'art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione ("legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane").

Lo stesso potere è previsto tanto dall'art. 19 r.d. 383/1934, quanto dal combinato disposto degli artt. 141 e 53 t.u.e.l., senza che al riguardo sia ravvisabile alcuna relazione sussumibile nel fenomeno del concorso apparente di norme. La tesi che vuole sussistere un rapporto di specialità è non solo erronea, ma illogica, posto che conduce a ritenere che il caso in esame - astrattamente riconducibile alla disposizione che si assume generale - ricadrebbe nella disposizione asseritamente speciale (141 t.u.e.l.), la quale però non lo contempla affatto, così dando luogo non ad una deroga (lex specialis derogat generali), ma ad una abrogazione. Vero è, piuttosto, che le due norme regolano fattispecie diverse e proprio quella remota è confacente alla presente vicenda, in cui viene in gioco - come si dirà tra breve - l'impossibilità del regolare funzionamento dell'ente locale.

Dall'applicabilità dell'art. 19 r.d. 383/1934 discende, inoltre, l'inconferenza del richiamo all'art. 53 t.u.e.l. - operato dal TAR e sostenuto dalle parti appellate - che è volto a disciplinare le ipotesi di decadenza contemplate dall'art. 141 t.u.e.l.

Peraltro, anche a voler prescindere da questo argomento relativo al rapporto tra le fonti, non può sottacersi - in sostanziale adesione alla tesi della difesa erariale - che la fattispecie di decadenza del sindaco per violazione del divieto del terzo mandato (art. 51, comma 2, t.u.e.l.) è affatto diversa.

Il limite del terzo mandato è stato inquadrato dalla dottrina come punto di equilibrio tra il modello dell'elezione diretta dell'esecutivo e la concentrazione del potere in capo a una sola persona che ne deriva, con effetti negativi anche sulla par condicio delle elezioni successive, suscettibili di essere alterate da rendite di posizione. Sullo sfondo l'idea bilaterale della democrazia rappresentativa, che esige un'opera di self-restraint degli istituti di partecipazione popolare, in accordo con la formula di sintesi cristallizzata nell'art. 1 della Costituzione. Tale esigenza appare particolarmente pressante nei livelli di governo locale, data la prossimità tra l'eletto e la comunità, onde il rischio di una sorta di regime da parte del primo in caso di successione reiterata nelle funzioni di governo.

Il principio di libertà dei cittadini, sotteso al divieto del terzo mandato elettorale, conduce a collocare la fattispecie tra le ipotesi di incandidabilità, piuttosto che tra quelle di ineleggibilità, cui pure formalmente appartiene. In tal senso milita l'analisi della giurisprudenza costituzionale sulla distinzione tra i due istituti, richiamata nella memoria dell'appellante.

Ad ogni modo, in disparte ogni disputa nominalistica, appare evidente che la causa ostativa in oggetto ha carattere originario ed irremovibile, realizzandosi sin dalla presentazione del candidato alle elezioni e non trovando rimedi possibili da parte sua una volta eletto, sicché il successivo accertamento da parte degli organi competenti non può che avere natura dichiarativa ed effetto "naturalmente" retroattivo. In tal senso è corretto annoverarla tra le ipotesi di nullità dell'elezione, certamente sottratta alla disciplina di cui all'art. 53 t.u.e.l., la quale postula che la decadenza si fondi su un fatto che acquisti rilevanza solo in epoca posteriore all'elezione e, comunque, con l'insediamento dell'eletto nella carica pubblica.

Ciò posto, deve ricordarsi che nella giurisprudenza del Consiglio di Stato si è consolidato, sia pure in sede cautelare, l'indirizzo (leading case ord. n. 2120/2007 e 2477/2007) che vuole la decadenza del sindaco - indifferentemente nei comuni con popolazione inferiore o superiore a 15.000 abitanti - travolgere gli organi comunali che esprimono la stessa funzione di rappresentanza politica (Giunta, Assessori, Vicesindaco), stante il collegamento che lega, nei sistemi fondati sull'elezione diretta del capo dell'esecutivo, questo agli altri organi di governo, accreditato nell'ordinamento locale dall'art. 46 t.u.e.l. (potere di scelta del vicesindaco e degli assessori da parte del sindaco). Con la conseguente attivazione, stante l'impossibilità di regolare funzionamento dell'ente locale, del potere prefettizio di cui all'art. 19 r.d. 383/1934.

Il parere 1392/2002 del Consiglio di Stato, invocato dalle parti appellate, non smentisce tale ricostruzione, muovendo dall'incerta qualificazione - poi chiarita - del divieto del terzo mandato come ipotesi di ineleggibilità.

La soluzione appena indicata non viene meno nelle ipotesi in cui l'ineleggibilità per violazione del divieto del terzo mandato venga accertata con sentenza non definitiva, o che non disponga esplicitamente l'efficacia retroattiva della decadenza.

In primo luogo non si evince né da singole disposizioni, né dal sistema l'inidoneità della sentenza non definitiva - ma dotata di esecutività - a determinare il meccanismo di decadenza a cascata appena delineato. Anzi, la normativa di settore (art. 84, comma 3, d.P.R. 570/1960) accredita la tesi opposta, stabilendo una peculiare disciplina dell'esecutività delle sentenze rese in materia di ineleggibilità. Con il che cade anche l'assunto del TAR secondo cui il concetto di esecutività è incompatibile con la natura dichiarativa della sentenza, peraltro frutto di una risalente opinione dottrinale, superata dalla banale constatazione che l'esecutività è un corollario della forza delle sentenze non definitive, e non si lega alla capacità di essere portata ad esecuzione coattiva, ma più generalmente alla affermazione di fatto e di diritto ivi contenuta, suscettibile di avere effetto sotto i più svariati profili.

In secondo luogo la mancanza nel dispositivo di sentenza dell'effetto retroattivo della decadenza non incide sulla sua portata, che si ricollega automaticamente alla natura della fattispecie dedotta in giudizio. Deve, infatti, da un lato richiamarsi il principio di strumentalità del processo all'attuazione del diritto sostanziale, dall'altro l'atipicità delle sentenze dichiarative, in cui il potere del giudice è circoscritto all'accertamento del rapporto, non spettando a lui - sia pure, come è ovvio, sulla base di una norma che regoli l'azione in tal senso - costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico.

Quanto, infine, al rilievo contenuto nella sentenza appellata secondo cui il commissariamento non avrebbe comunque potuto portare all'indizione dei comizi elettorali, in assenza del d.P.R. di scioglimento del Consiglio Comunale, il Collegio condivide il richiamo operato dall'appellante all'art. 2, comma 1, l. 182/1991, che non pare affatto esigere - per le ipotesi di elezioni rese necessarie da "motivi diversi dalla scadenza del mandato" - il d.P.R. di scioglimento del Consiglio Comunale.

Non considerata dal TAR, ma parimenti infondata, è la censura formulata nel ricorso di primo grado di violazione dell'art. 7 l. 241/1990, palesemente vertendosi in situazione di urgenza tale da giustificare la deroga all'obbligo di comunicazione. D'altronde coglie nel segno la difesa erariale nel ritenere applicabile alla fattispecie la sanatoria di cui all'art. 21-octies, comma 2, prima parte.

Inammissibile per difetto di interesse è, invece, la censura di contraddittorietà tra la circolare posta a base del provvedimento impugnato e la corrispondenza prima intercorsa tra il Ministero e talune Prefetture, che ha valenza interna e, peraltro, è superata proprio dalla predetta circolare, unico atto ufficiale con cui l'amministrazione detta la propria interpretazione.

3. L'appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza gravata, deve essere respinto il ricorso di primo grado. La criticità delle questioni trattate, la natura della controversia, l'esito alterno dei giudizi, giustificano la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie l'appello e, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado.

Compensa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.