Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 17 giugno 2009, n. 14066
FATTO
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Siracusa, depositato in data 14 ottobre 2002, M. Salvatore, premesso di aver lavorato alle dipendenze della società Poste Italiane s.p.a. dal 1981 al 1999 come revisore contabile e successivamente sino al 30 aprile 2002 come addetto all'Area Operativa Tutti i Servizi, svolgendo da ultimo la propria attività presso l'Ufficio di Pachino Centro, esponeva di essere stato in tale data licenziato, a seguito di contestazione di addebito disciplinare del 28 marzo 2003, per avere apposto la firma falsa del Direttore dell'Ufficio di appartenenza su una domanda di indennità di missione in realtà non effettuata e per avere tenuto un comportamento scorretto nei confronti dei clienti consegnando loro somme di denaro inferiori a quanto dovuto. Rilevava la illegittimità del licenziamento intimatogli in quanto privo di giusta causa o giustificato motivo, e chiedeva che il giudice adito volesse procedere alla relativa declaratoria ordinando alla società la reintegra nel posto di lavoro e condannando la stessa al risarcimento del danno.
Con sentenza in data 2 dicembre 2003 il Tribunale accoglieva la domanda dichiarando la illegittimità del licenziamento.
Avverso tale sentenza proponeva appello la società Poste Italiane s.p.a. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo; e proponeva altresì appello incidentale il M.
La Corte di Appello di Catania, con sentenza in data 28 aprile 2005, accoglieva l'appello principale ritenendo la giusta causa dell'irrogato licenziamento, e rigettava l'appello incidentale proposto dal lavoratore.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione M. Salvatore con quattro motivi di impugnazione.
Resiste con controricorso la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Parte ricorrente ha depositato note di udienza in relazione alle conclusioni assunte dal Procuratore Generale.
DIRITTO
Col primo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ex art. 360, n. 5, c.p.c.
In particolare rileva il ricorrente che la Corte territoriale era incorsa in un evidente vizio di motivazione cagionato da una erronea valutazione dei fatti, in violazione dell'art. 116 c.p.c.; e cioè aveva erroneamente ritenuto che il documento sul quale il M. aveva apposto la propria firma in luogo dei Direttore dell'ufficio concernesse la richiesta di liquidazione del trattamento di missione, mentre in realtà concerneva solo ed esclusivamente la richiesta di autorizzazione all'uso di mezzo proprio per lo svolgimento della missione, non avendo esso ricorrente mai chiesto alcun tipo di indennità.
Col secondo motivo di gravame il M. lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ex art. 360, n. 5, c.p.c.
In particolare rileva il ricorrente che la Corte territoriale era incorsa in una evidente erronea valutazione dei fatti, avendo omesso di motivare sulla esistenza di una prassi aziendale, che risultava confermata dalle dichiarazioni del teste C. Gianni Piero, secondo la quale ai fini dell'autorizzazione all'uso del mezzo proprio per l'effettuazione della missione era sufficiente l'autorizzazione orale del Direttore.
Col terzo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 54, comma 6, del c.c.n.l. dell'11 gennaio 2001 per il personale non dirigente delle Poste Italiane s.p.a., e dell'art. 12 della l. 604/1966, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
In particolare rileva il ricorrente che laddove il contratto collettivo del settore contiene la tipizzazione, come nella specie, delle infrazioni commesse dal lavoratore punibili con specifiche sanzioni disciplinari, prevedendo una determinata sanzione per ogni predeterminato comportamento, secondo un principio di gradualità delle sanzioni, il giudice è tenuto ad uniformarsi alla previsione contrattuale, non potendo egli sovrapporre la propria valutazione sulla idoneità del fatto commesso a costituire giusta causa di licenziamento, essendo stato il giudizio di proporzionalità tra fatto e sanzione già operato dalle parti sociali con la specifica normativa contrattuale. E nel caso di specie la declaratoria contrattuale prevedeva, all'art. 54 del c.c.n.l. dell'11 gennaio 2001, la sanzione del licenziamento senza preavviso nei confronti del dipendente che avesse "alterato, falsificato o sottratto documenti, registri o atti della società o ad esso affidati, al fine di trarne profitto"; di conseguenza erroneamente la Corte territoriale aveva omesso di motivare sulla mancanza nel caso di specie di alcun profitto, per come risultava dalle prove documentali e dalle prove testimoniali in atti, atteso che il ricorrente non aveva inoltrato alla società datrice alcun modulo per la liquidazione di missione, ma solo un modulo di autorizzazione all'uso della propria autovettura. In tal modo la Corte territoriale aveva altresì violato il principio di inderogabilità dell'art. 2119 c.c. applicando al dipendente un trattamento sanzionatorio più sfavorevole rispetto a quanto previsto dal c.c.n.l. di settore.
Col quarto motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 52 e 54 del c.c.n.l. dell'11 gennaio 2001 per il personale non dirigente delle Poste Italiane s.p.a., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ex art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.
In particolare rileva il ricorrente che, in relazione alla ulteriore contestazione riguardante i rapporti con la clientela, la Corte territoriale aveva omesso di valutare che la contestazione di addebito formulata il 28 marzo 2003 violava il principio della specificità dei fatti posti a fondamento della stessa, il principio della tempestività dell'applicazione della sanzione disciplinare, il disposto della norma contrattuale in tema di sanzioni disciplinari; ed aveva omesso altresì di valutare le prove assunte, ritenendo la responsabilità di esso ricorrente in ordine a tale ulteriore contestazione con motivazione apodittica, oltre che in contrasto con le prove acquisite in atti.
Ha infine rilevato il ricorrente che lo stesso era stato oggetto di un grave demansionamento, in relazione al quale aveva esposto le proprie reiterate e legittime richieste, subendo la ritorsione della società datoriale attraverso la contestazione di comportamenti che per altri soggetti erano stati considerati "normali" dallo stesso datore di lavoro.
Il ricorso non è fondato.
Ritiene innanzi tutto il Collegio dover procedere ad una trattazione unitaria dei primi tre motivi di ricorso, in considerazione della stretto collegamento ed interdipendenza delle argomentazioni svolte negli stessi.
Ed invero con i predetti motivi di gravame il ricorrente ha, in buona sostanza, lamentato la violazione dell'art. 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che lo stesso avesse apposto la propria firma in luogo di quella del Direttore su un modulo di autorizzazione alla effettuazione di una missione, mentre in realtà si trattava di un modulo di autorizzazione all'utilizzazione del proprio mezzo di trasporto, giungendo quindi alla conclusione che la condotta posta in essere non corrispondeva a quella tipizzata nel c.c.n.l. e sanzionata con il provvedimento espulsivo.
Orbene, rileva il Collegio che il proposto gravame involge in realtà la valutazione di specifiche questioni di fatto, valutazione non consentita in sede di giudizio di legittimità. Devesi in proposito evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell'iter logico-argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. I, 26 gennaio 2007, n. 1754; Cass. sez. I, 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. sez. lav., 20 aprile 2006, n. 9234; Cass. sez. trib., 1° luglio 2003, n. 10330; Cass. sez. lav., 9 marzo 2002, n. 3161; Cass. sez. III, 15 aprile 2000, n. 4916).
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi (quali, nel caso di specie, la carente, insufficiente o contraddittoria motivazione) che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.
Orbene nel caso di specie la Corte territoriale, nel rilevare la gravità della condotta posta in essere dal M., consistente nell'avere lo stesso in data 7 febbraio 2002 inoltrato all'insaputa del Direttore della filiale il modulo in questione recante la firma falsificata del Responsabile che autorizzava la missione, ha evidenziato come il detto modulo fosse finalizzato ad ottenere la liquidazione del trattamento di missione, coerentemente alla denominazione dello stesso quale "modulo invio in missione", articolato, per come risulta dalla descrizione del contenuto dello stesso effettuata dal M. in seno al proposto ricorso per cassazione, in una prima sezione nella quale sono descritte le caratteristiche della missione, una seconda sezione relativa alla richiesta per l'uso del proprio mezzo di trasporto per effettuare la detta missione, ed una terza sezione riservata al Responsabile che appone la sua firma con la quale "autorizza la missione".
E pertanto correttamente la Corte territoriale ha evidenziato che la firma in questione concerneva l'autorizzazione alla effettuazione della missione (e non già solo all'uso del mezzo proprio), e quindi l'autorizzazione alla liquidazione del relativo trattamento.
Alla stregua di quanto sopra deve ritenersi che la motivazione dei giudici di merito si appalesa completa ed esaustiva, coerente alle acquisizioni documentali in atti, non apparendo l'accertamento del fatto - operato dagli stessi - inficiato da alcun vizio conoscitivo o espositivo, sotto il profilo della erronea rappresentazione della realtà effettuale, della illogicità dell'iter logico-argomentativo seguito e della mancata esplicitazione delle argomentazioni svolte per giungere alla soluzione adottata.
Appare pertanto chiaramente non condivisibile, alla luce dei principi di diritto sopra enunciati e della ricostruzione in concreto del processo logico seguito dai giudici del merito per giungere alla soluzione adottata, l'assunto di parte ricorrente in base al quale la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare secondo un criterio di coerenza e logicità il documento in parola, che doveva essere considerato come una semplice richiesta di autorizzazione all'uso della propria autovettura e non come una richiesta di liquidazione della relativa indennità di missione.
E ad analoghe conclusioni ritiene il Collegio di dover pervenire in ordine all'altro motivo di gravame concernente la omessa valutazione da parte della Corte territoriale di una prassi interna all'Ufficio Postale di Pachino, secondo cui l'autorizzazione veniva data oralmente dal Direttore, avendo in particolare il ricorrente precisato di essere stato autorizzato oralmente dal Direttore dell'Ufficio, alla stregua di tale prassi.
Trattasi anche in tal caso di rilievo in punto di fatto, in ordine al quale la Corte territoriale ha, con motivazione sintetica ma esaustiva oltre che corretta sotto il profilo logico-formale, evidenziato che la Responsabile del detto ufficio, escussa in qualità di teste, aveva escluso di aver mai apposto la propria firma sul modulo in questione, ed aveva escluso altresì di aver mai autorizzato alcuno, e tantomeno il M., a firmare in sua vece il detto modulo, giungendo alla motivata conclusione che l'esistenza della dedotta prassi interna era rimasta priva di riscontro probatorio.
In ordine alla mancata valutazione della deposizione del teste C., osserva il Collegio che il giudice del merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle risultanze istruttore che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione di tale convincimento, essendo sufficiente, al fine della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, a quelli utilizzati, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non accolti, anche se allegati (Cass. sez. lav., 10 maggio 2002, n. 6765); e nel caso di specie risulta evidente il preminente rilievo attribuito dalla Corte territoriale alla deposizione della Responsabile dell'Ufficio che aveva escluso l'esistenza di alcuna prassi in tal senso.
Consegue da quanto sopra esposto la inconsistenza del terzo motivo di gravame, laddove il ricorrente ha lamentato che il giudice di merito avrebbe sovrapposto la propria valutazione a quella operata, in via generale e preventiva, dalle parti sociali nel contratto collettivo di settore. Il rilievo è palesemente infondato, alla stregua delle argomentazioni in precedenza svolte, ove si osservi che l'art. 54, comma 6, del c.c.n.l. dell'11 gennaio 2001, prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso nei confronti del lavoratore che abbia "alterato, falsificato o sottratto documenti, registri o atti della società o ad esso affidati, al fine di trarne profitto"; e nel caso di specie la Corte territoriale ha posto in chiaro rilievo come il M., con condotta volontaria e quindi dolosa, avesse falsificato la firma del Direttore dell'Ufficio Postale sul modulo autorizzativo della missione, "per conseguire un risultato non autorizzato né comunque autorizzabile... al chiaro scopo di trarre un illecito profitto", evidenziando altresì come il mancato conseguimento di tale profitto non rilevasse ai fini della valutazione della gravità della condotta.
In proposito ritiene innanzi tutto il Collegio di dover riaffermare che rientra nel compito del giudice del merito l'interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune (Cass. sez. lav., 3 aprile 1999, n. 3249; Cass. sez. lav., 14 luglio 1997, n. 6407), avuto riguardo alla loro natura contrattuale, essendo detta interpretazione censurabile in sede di legittimità solo per vizi logici e per violazione dei principi di ermeneutica contrattuale; posto ciò devesi altresì evidenziare che nell'ambito di tali principi, finalità dell'interpretazione è la individuazione della comune intenzione delle parti, nella cui ricerca assume funzione fondamentale il senso letterale delle parole, con la ulteriore precisazione che l'atto deve essere interpretato non sulla base della lettura non d'un suo isolato brano, bensì del suo integrale contenuto (Cass. sez. lav., 27 giugno 1998, n. 6389).
Orbene, nel caso in esame non si ravvisa alcuna carenza nella motivazione della Corte territoriale in relazione alla operazione ermeneutica di sua competenza, avendo in buona sostanza la Corte territoriale correttamente rilevato che la finalità del conseguimento del profitto costituisce ontologicamente concetto ben diverso dall'effettivo conseguimento di tale profitto; e, osserva il Collegio, tale finalità è di per sé sufficiente a minare quel rapporto di fiducia che deve sussistere tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato.
Tale rilievo rende palesemente inconferente l'assunto del ricorrente secondo cui lo stesso non avrebbe in realtà mai inoltrato alcuna richiesta di liquidazione del trattamento di missione - richiesta da effettuarsi mediante la presentazione di ulteriore modulo, diverso da quello relativo alla domanda di autorizzazione all'uso del mezzo proprio -, ove si osservi che, per come detto, ciò che rileva in relazione all'applicazione della sanzione prevista dal predetto art. 54 del c.c.n.l. dell'11 gennaio 2001 non è in realtà il conseguimento del profitto, bensì il fine di trarre profitto; e l'esistenza di tale fine appare altresì dimostrato dalla circostanza che il M., il giorno 7 febbraio 2002 in cui ebbe ad inoltrare il modulo oggetto del presente giudizio concernente la missione che avrebbe dovuto effettuare il successivo 8 febbraio 2002 a Siracusa dalle ore 16,00 alle ore 18,00, aveva già in corso di effettuazione altra missione ad Avola, che si svolgeva dal 5 al 9 febbraio 2002 dalle ore 15,00 alle ore 18,00, di talché deve escludersi ogni ipotesi di errore da parte dell'interessato circa la possibilità di poter partecipare anche al seminario di Siracusa.
Pertanto tale condotta si incasella senz'altro nella declaratoria contrattuale prevista dalle parti sociali, di talché deve escludersi la dedotta violazione del principio della inderogabilità in peius del trattamento sanzionatorio rispetto alle previsioni contenute nel c.c.n.l. di categoria, e deve escludersi altresì qualsiasi violazione dell'art. 2119 c.c., dovendosi ravvisare, per come emerge dall'impugnata sentenza, sia il fatto obiettivo costituito dall'avvenuta falsificazione della firma del Direttore responsabile della missione, sia lo scopo di trarre profitto essendo tale documento finalizzato alla fruizione della relativa indennità di missione; di conseguenza nessuna violazione né dell'art. 2119 c.c. né del disposto contrattuale in tema di sanzioni disciplinari può nel caso di specie ritenersi sussistente, dovendosi escludere che il giudice abbia sostituito la propria valutazione - applicando un trattamento sanzionatorio più sfavorevole - a quella effettuata in via preventiva dalle parti sociali nel contratto collettivo di settore.
Sul punto ritiene il Collegio di dover altresì evidenziare che l'art. 1 della l. n. 604/1966 - con l'indicazione della nozione di "giusta causa" del licenziamento e del presupposto del carattere di "proporzionalità" tra il fatto addebitato e la sanzione inflitta - rientra nell'ambito delle "norme elastiche", cioè delle norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un'opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione.
Il che comporta che anche la sanzione tipizzata nel contratto collettivo può non giustificare il licenziamento sotto il profilo della proporzionalità di tale sanzione rispetto alla infrazione (Cass. sez. lav., 2 novembre 2005, n. 21213).
Ed invero, ove la contrattazione collettiva preveda, quale ipotesi di "giusta causa" di licenziamento, un determinato comportamento del lavoratore, la decisione sulla legittimità del licenziamento, motivato da una di tali ipotesi, non è affidata alla mera assunzione del concreto comportamento del lavoratore nell'ipotesi "tipizzata" contrattualmente, ma, secondo l'insegnamento costante di questa Corte, postula, altresì, il controllo sulla conformità alla nozione "legale" di giusta causa (art. 2119 c.c.), della previsione contrattuale (per gli effetti di cui all'art. 1418, 1 comma, c.c.) e, poi, dello stesso comportamento in concreto tenuto dal lavoratore (Cass. sez. lav., 4 ottobre 1988, n. 5350).
Orbene, questa Corte ha più volte ribadito che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell'infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (in tal senso; Cass. sez. lav., 10 aprile 2008, n. 9425; Cass. sez. lav., 8 settembre 2006, n. 19270, e, con riferimento alla circostanza che ai fini della valutazione della gravità dell'addebito, da parte del giudice di merito, debba tenersi conto anche dell'elemento soggettivo: Cass. sez. lav., 19 agosto 2004, n. 16260; Cass. 15 maggio 2004, n. 2999).
Dall'enunciato principio si evince che il giudice di merito - in considerazione del fatto che il licenziamento costituisce di certo per il lavoratore la più grave delle sanzioni in ragione dei suoi effetti - deve tenere conto della gravità della condotta addebitata al dipendente, da valutare non soltanto nella sua oggettività ma anche con riferimento all'elemento soggettivo che può assumere i connotati del dolo o della colpa, al fine di parametrare la singola sanzione al grado di illiceità della infrazione alla stregua del principio di proporzionalità, essendo possibile solo all'esito di tale iter conoscitivo decidere sulla configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento e quindi sulla legittimità o meno dello stesso.
Con la ulteriore precisazione, trattandosi di principio indiscusso, che la valutazione della gravità dell'infrazione, della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento e della proporzionalità della sanzione rispetto alla infrazione contestata, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. sez. lav., 27 gennaio 2004, n. 1475; Cass. sez. lav., 26 luglio 2002, n. 11118).
Pertanto anche sotto questo profilo la sentenza impugnata si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità, ove si osservi che i giudici di merito hanno correttamente proceduto alla verifica della gravità dei fatti contestati al lavoratore, in relazione sia alla portata oggettiva che soggettiva, rilevando come le circostanze concrete della condotta posta in essere dal M. ne evidenziassero l'obiettivo disvalore dal punto di vista sia oggettivo che soggettivo, ed integrassero senz'altro un fatto di gravità tale da non consentire, neanche provvisoriamente, la ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro.
Tanto basta per rigettare, siccome infondati, i suddetti motivi svolti dal ricorrente nel proposto gravame.
In tale statuizione di rigetto rimangono assorbiti, in considerazione della sufficienza del primo addebito di cui alla contestazione in data 28 marzo 2002 a giustificare la legittimità dell'impugnato licenziamento, gli ulteriori rilievi mossi dal ricorrente con il quarto motivo di ricorso.
Palesemente inammissibili, in quanto relative a circostanze dedotte per la prima volta con il presente ricorso per cassazione e sulle quali non ha avuto pertanto modo di istaurarsi il relativo contraddittorio, devono ritenersi infine le ulteriori censure concernenti il dedotto demansionamento del ricorrente.
In conclusione il ricorso va rigettato per essere la sentenza impugnata supportata da un iter argomentativo congruo, privo di salti logici, e per avere la Corte territoriale correttamente applicato i principi regolanti la materia in esame.
In ordine al regolamento delle spese ritiene il Collegio, avuto riguardo alla peculiarità della materia ed alla obiettiva controvertibilità delle questioni proposte, che hanno dato esito a differenti decisioni nei due gradi del giudizio di merito, che sussistono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese relative al presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio di cassazione.