Corte di cassazione
Sezione III civile
Sentenza 28 settembre 2010, n. 20340

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 20 gennaio 1994 il Comune di Messina conveniva in giudizio innanzi al locale Tribunale S.P.E. s.r.l. (di seguito S.P.E.) e, premesso che la convenuta società deteneva sine titulo un immobile di sua proprietà, dopo che con sentenza del 30 ottobre 1979 era stata dichiarata la risoluzione del contratto di locazione intercorrente con la ditta Fratelli Carifi, poi dichiarata fallita, ne chiedeva il rilascio, insieme al risarcimento dei danni.

Resisteva la convenuta la quale sosteneva che, sciolto giudizialmente il contratto, l'ente aveva stipulato una nuova locazione con la medesima ditta, poi fallita, alla quale era subentrata essa S.P.E.

La domanda veniva rigettata dal giudice adito, ma la Corte territoriale, investita del gravame, l'accoglieva e, con sentenza non definitiva, condannava la società appellata alla restituzione del cespite, rimettendo, con separata ordinanza la causa sul ruolo per la quantificazione dei danni dei quali il locatore aveva chiesto il ristoro.

Quindi, in data 22 dicembre 2005, definitivamente pronunziando, condannava S.P.E. al pagamento delle somme specificamente indicate per ciascuna annualità, a partire dal 1994 fino all'effettivo rilascio, oltre svalutazione, interessi e spese.

Avverso entrambe tali sentenze ha proposto ricorso per cassazione S.P.E. s.n.c. (già S.P.E. s.r.l.), formulando tre motivi.

Resiste con controricorso il Comune di Messina.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Col primo motivo l'impugnante denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1362 e segg. c.c., art. 1375 c.c., anche con riferimento alla l. n. 392 del 1978, art. 36 nonché difetto di motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il giudice di merito affermato che, estintosi l'originario rapporto di locazione per effetto della intervenuta pronuncia di risoluzione del contratto, era esclusa in radice la possibilità che altri subentrasse nel contratto già intercorso tra il Comune di Messina e la ditta Fr.lli Carifi, a seguito di cessione di azienda. Così argomentando, il giudice di merito aveva fatto malgoverno del materiale probatorio acquisito, dal quale emergeva in maniera inequivocabile la volontà dell'ente, chiaramente desumibile anche da atti formali, sottoscritti dal sindaco, di non dare esecuzione alla sentenza di risoluzione e anzi di confermare la perdurante operatività del precedente contratto. Ricorda che la giurisprudenza di legittimità costantemente ritiene che la rinuncia agli effetti della risoluzione del contratto che si sia già vetrificata per causa prevista dalla legge ovvero per effetto di pronuncia giudiziale, costituisce tipica espressione dell'autonomia privata, per la quale neppure è richiesta la forma scritta, ben potendo essa desumersi da un comportamento concludente della parte. Ora, nella fattispecie, sussistevano non solo condotte di entrambi i paciscenti di tal fatta, ma addirittura atti scritti dimostrativi della volontà del Comune di prorogare il contratto di locazione. In tale prospettiva legittimamente S.P.E., in quanto cessionaria dell'azienda dei F.lli Carifi, era subentrata nello stesso. E il Comune, incamerando quanto versato dalla società in conto canoni, aveva mostrato di aderire alla cessione.

1.2. Col secondo mezzo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1350 c.c., nonché vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere "la Corte territoriale ritenuto privi di rilievo gli atti posti in essere dall'Amministrazione, non avendo il Comune stipulato nella forma scritta, stabilita a pena di nullità, un nuovo contratto di locazione né con la ditta F.lli Carifi, né con la curatela del fallimento, né con la società S.P.E., senza considerare che la giurisprudenza di legittimità ritiene rispettato il requisito formale anche quando il consenso si formi in atti scritti successivi, che si atteggino come proposta e accettazione tra assenti. Nella fattispecie esistevano invero atti deliberativi e comunicazioni del Sindaco specificamente volti a manifestare la volontà di ripristinare e prorogare il rapporto locativo.

2. Le censure, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro connessione, sono infondate.

Esse hanno ad oggetto l'assunto del giudice di merito secondo cui tutte le argomentazioni volte a valorizzare che il Comune di Messina, da un lato, aveva rinunziato agli effetti della sentenza n. 1556 del 1979 e, dall'altro, aveva rinnovato la locazione con la ditta F.lli Carifi, non erano pertinenti, non essendovi stata una mera protrazione del rapporto dopo la scadenza del termine finale (ipotesi alle quali si riferivano le pronunce citate dall'appellato), ma una risoluzione giudiziaria del vincolo che ne aveva in pratica comportato la eliminazione. In tale prospettiva, ritenuta la piena operatività della regola per cui, ai fini della validità dei contratti di cui sia parte una pubblica amministrazione, è necessaria la forma scritta a pena di nullità, la Corte territoriale ha negato rilievo a elementi quali la delibera di Giunta 13 ottobre 1982, la nota inviata dal Sindaco alla Ripartizione legale, contenzioso e patrimonio, l'incameramento delle somme versate dalla società a titolo di canoni, nonché l'intervenuta cessione di azienda dei F.lli Carifi, non potendo in ogni caso ipotizzarsi il sub ingresso di S.P.E. in un contratto di locazione non più esistente.

2.1. Ritiene il collegio che la scelta decisoria del giudice di merito sia giuridicamente corretta e congruamente motivata.

È anzitutto incontestabile il rilievo che la pronuncia della sentenza di risoluzione ha comportato l'ablazione del vincolo di talché la lunghezza dei tempi con la quale l'Amministrazione comunale l'ha materialmente portata ad esecuzione giammai poteva determinare la continuazione di un vincolo che non esisteva più.

In realtà la perdurante operatività del rapporto avrebbe potuto essere interpretata come instaurazione di fatto di un nuovo contratto di locazione ove a tanto non si fosse opposto il principio generale fondamentale per cui la pubblica amministrazione non può assumere impegni o concludere contratti se non nelle forme stabilite dalla legge e dai regolamenti (vale a dire nella forma scritta), forme il cui mancato rispetto produce la nullità assoluta dell'atto, rilevabile anche d'ufficio (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 17 in materia di contabilità generale dello Stato). La forma scritta ad substantiam è invero considerata strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, sia nell'interesse del cittadino, costituendo remora ad arbitri, sia nell'interesse della stessa pubblica amministrazione, rispondendo all'esigenza di identificare con precisione l'obbligazione assunta e il contenuto negoziale dell'atto e, specularmente, di rendere possibile l'espletamento della indispensabile funzione di controllo da parte dell'autorità tutoria. In questo senso, il requisito in parola può considerarsi espressione dei principi di buon andamento od imparzialità dell'amministrazione sanciti dalla carta costituzionale (art. 97).

Infine, quanto alla enucleabilità in concreto di manifestazioni di volontà formali dirette alla costituzione di un nuovo contratto di locazione, escluse dal giudice di merito, le relative argomentazioni si risolvono nella sollecitazione della rilettura del materiale istruttorio, preclusa in sede di legittimità.

3.1. Col terzo motivo l'impugnante denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225 e 1227 c.c., nonché difetto di motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento alla sua condanna al risarcimento dei danni in favore del Comune. Secondo la società tali pregiudizi sarebbero stati apoditticamente quantificati in misura pari ai canoni di locazione, in contrasto con la giurisprudenza di legittimità che costantemente ne esclude la sussistenza in re ipsa, onerando della prova chi li domanda (confr. Cass. n. 378 del 2005; n. 14624 del 2004; n. 13628 del 2004). In ogni caso errati sarebbero anche i criteri di calcolo utilizzati dal consulente tecnico, che, basati su presunzioni, prescindevano completamente dagli accordi intercorsi tra le parti (confr. Cass. n. 8240 del 2003). Né aveva il decidente considerato che il mancato pagamento era dipeso esclusivamente dal fatto che la società era stata costretta ad anticipare spese di straordinaria manutenzione che sarebbero state di pertinenza del Comune, di talché i relativi esborsi andavano, quanto meno, defalcati dalle somme dovute a titolo risarcitorio. Infine contraddittoriamente il giudice di merito avrebbe liquidato ingenti importi a ristoro dei pregiudizi subiti dall'Ente, pur dopo aver riconosciuto lo stato di degrado dell'immobile e la sua ubicazione in zona non di pregio.

3.2. Anche tali censure non colgono nel segno.

Nella sentenza definitiva il decidente ha esplicitato di essersi attenuto, nella quantificazione dei danni spettanti al Comune di Messina per il ritardato rilascio dell'immobile, ai valori espressi dal consulente tecnico che, nel quantificarli, aveva operato la media tra i valori locativi unitari e la fruttuosità lorda del cespite. Gli importi così ottenuti erano poi stati decurtati del 20% in considerazione dello stato di degrado dell'edificio e delle condizioni scadenti della zona in cui esso ricadeva. Ha infine rilevato che nessuna prova era stata fornita circa i pretesi esborsi effettuati per spese di manutenzione straordinaria, e tanto a prescindere anche dal rilievo che nessuna domanda era stata formulata in tal senso nella comparsa di appello.

3.3. Non è dunque vero che le somme a carico della società siano state determinate facendo tout court riferimento al valore di un ipotetico canone di locazione, per giunta stabilito senza alcun riferimento alle condizioni effettive dell'immobile e all'ubicazione dello stesso. In realtà le critiche del ricorrente, deducendo in termini puramente assertivi violazioni di legge e vizi motivazionali, in realtà inesistenti, mirano a sollecitare una rivalutazione del materiale istruttorio preclusa in sede di legittimità. Segnatamente, quanto ai pretesi esborsi per spese di manutenzione straordinaria, valga considerare che nessuna argomentazione svolge l'impugnante per confutare l'assunto del giudice di merito in ordine alla mancanza assoluta di ogni prova al riguardo, di talché le doglianze difettano altresì della necessaria specificità rispetto alle ragioni della decisione.

4. Consegue infine, da tutto quanto sin qui esposto, l'assoluta infondatezza del quarto mezzo di ricorso, col quale la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c. e vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. È evidente infatti che la condanna della società S.P.E. al pagamento delle spese processuali, lungi dal costituire violazione delle regole della soccombenza, ne rappresenta coerente e corretta applicazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.200,00 (di cui Euro 200,00 per spese), oltre IVA e CPA, come per legge.