Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 7 gennaio 2014, n. 76

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L'Ing. Claudio B., già dipendente dell'Enel, avvalendosi della facoltà di ricongiunzione prevista dalla l. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5, ulteriormente disciplinata dal d.m. 7 luglio 1973, trasferì l'anzianità contributiva maturata presso il Fondo elettrico (gestito dall'Inps) all'Inpdai, che gli liquidò una pensione nella misura pari ad Euro 58.926,91, quale importo massimo erogabile secondo il regime generale dell'Istituto, anziché - come preteso dall'assicurato - nella misura di Euro 83.710,00, pari al massimale dell'80% della retribuzione lorda media di Euro 104.638,00.

La domanda giudiziale avanzata dal B. per ottenere il riconoscimento del maggiore importo pensionistico veniva accolta in primo grado, ma respinta in appello a seguito di gravame proposto dall'Inps, succeduto all'Inpdai ai sensi della l. 27 dicembre 2002, n. 289, ex art. 42 (Finanziaria 2003).

Il pensionato proponeva ricorso per cassazione, che veniva respinto con sentenza n. 2223 del 1° febbraio 2007. Nell'occasione questa Corte affermava che, in tema di anzianità contributiva maturata presso l'Inpdai e presso ordinamenti previdenziali diversi dall'Inpdai, alla stregua della disciplina che regola la materia - art. 1 d.P.R. n. 58 del 1976, art. 5 l. n. 44 del 1973, d.m. 7 luglio 1973 - sono previsti due distinti calcoli, operanti su piani diversi (art. 1 del citato d.P.R. n. 58), l'uno rilevante per il calcolo della pensione, l'altro introdotto come limite "in ogni caso" all'importo della pensione, per cui questo non può essere superiore a quello della pensione massima erogabile dall'Inpdai "ai sensi del comma precedente", cioè secondo il regime generale dell'Inpdai, che non può non essere quello in vigore al momento della maturazione del diritto a pensione, con rinvio necessariamente formale, comprensivo dello "ius superveniens", nella specie l'introduzione del tetto pensionabile ed i coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale.

La Corte escludeva che tale disciplina ponesse dubbi di legittimità costituzionale, in quanto il limite era paritario per tutti i dirigenti assicurati all'Inpdai e non sussisteva lesione del principio dell'affidamento perché la riduzione delle aspettative di pensione rispetto al fondo di provenienza - nella specie, il fondo elettrico - dipendeva da un'opzione espressa in epoca successiva all'introduzione della norma comportante il limite; infine, il carattere formale del rinvio, confermato dall'art. 3 della d.lgs. n. 181 del 1997, in attuazione della delega di cui alla l. n. 335 del 1995, conferita per l'armonizzazione dei regimi pensionistici sostitutivi dell'assicurazione generale obbligatoria, escludeva la pretesa abrogazione implicita dell'altro limite ex art. 1, comma 2, d.P.R. n. 58 cit., ad opera del d.lgs. n. 181 del 1997, suscettibile di nuove disarmonie tra assicurati Inpdai.

Con successivo ricorso al Tribunale di Trento, depositato il 14 dicembre 2007, B. Claudio adiva nuovamente il giudice del lavoro rappresentando che l'Inps, presso altre sedi d'Italia, aveva lasciato passare in giudicato almeno ventiquattro sentenze di primo o di secondo grado favorevoli a cinquantasette pensionati ex dirigenti Enel, gestiti dalle sedi Inps di Torino, Roma e Napoli, mentre nei suoi confronti aveva opposto il giudicato formatosi con la suddetta sentenza n. 2223/2007 della Corte di cassazione. Deduceva di avere così subito un illegittimo ed ingiustificato trattamento discriminatorio da parte dell'Inps, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost., per effetto del quale percepiva una pensione d'importo notevolmente inferiore rispetto ai suddetti cinquantasette ex dirigenti Enel, e chiedeva che il giudice adito dichiarasse il suo diritto a vedere ricalcolata la pensione con i più vantaggiosi criteri utilizzati per gli altri pensionati che avevano beneficiato del passaggio in giudicato di sentenze a loro favorevoli. In via subordinata, chiedeva il risarcimento dei danni materiali e morali subiti in conseguenza del riferito comportamento tenuto dall'Istituto previdenziale. A tale domanda l'Inps resisteva eccependo che la questione era coperta da giudicato esterno, che rendeva immutabile il relativo accertamento.

Il Giudice del lavoro di Trento respingeva il ricorso, osservando che nella fattispecie era ravvisabile un'ipotesi di responsabilità contrattuale (art. 1173 c.c.) e, in base ai criteri di ripartizione dell'onere della prova quali delineati dall'art. 1218 c.c., il ricorrente aveva l'onere di allegare la fonte negoziale o legale del preteso diritto; che tale onere non era stato assolto, né le regole di imparzialità e buona amministrazione impongono all'Inps di praticare il trattamento più vantaggioso a tutti gli assicurati che si trovino in una situazione assimilabile a quella di coloro che fruiscono di una condizione di miglior favore; che, al contrario, ove l'Inps non avesse eseguito una sentenza passata in giudicato, sarebbe incorso in un'ipotesi di responsabilità contabile; che i principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. non formano obbligazioni autonome, ma operano come modalità di comportamento delle parti negoziali.

La Corte di appello di Trento, nel confermare tale pronuncia, osservava che la pretesa dell'appellante di vedere disapplicato il giudicato a sé sfavorevole per una presunta violazione di norme di rango costituzionale non aveva fondamento, non essendo stato denunciato il contrasto con alcuna legge ordinaria; che una questione di costituzionalità non potrebbe porsi con riferimento ad una sentenza passata in giudicato o con riferimento ai diversi (e più favorevoli) esiti giudiziari di asseritamente analoghe controversie intervenute tra l'Inps e altri soggetti, né la diversità degli esiti potrebbe giustificare la violazione del principio di intangibilità del giudicato, costituente insopprimibile garanzia di stabilità dei rapporti giuridici; che non era configurabile neppure l'ipotizzata violazione delle regole di buona amministrazione, non solo per i profili di responsabilità contabile che avrebbero potuto configurarsi per l'ente pubblico in caso di mancata esecuzione di una sentenza passata in giudicato, ma per l'assorbente considerazione che una condotta dell'Inps per effetto della quale lo stesso si era esposto ad esborsi superiori rispetto a quelli che avrebbe potuto verosimilmente sostenere se avesse diligentemente coltivato in sede giudiziaria le proprie ragioni non consentiva di ritenere illegittimo il comportamento tenuto invece nei casi in cui tale attenta considerazione vi era stata; che l'insussistenza di qualsiasi illiceità della condotta dell'Istituto conduceva al rigetto anche delle richieste risarcitorie; che l'istanza istruttoria diretta ad ottenere l'esibizione degli ordini di servizio, a parte la sua irrilevanza per la decisione, era inammissibile per avere natura solo esplorativa, come pure era irrilevante l'acquisizione di copia delle sentenze sfavorevoli all'Inps con riferimento alla questione del criterio di calcolo della pensione degli ex dirigenti Enel; che del pari inammissibile era l'istanza diretta all'ammissione della prova testimoniale degli altri ex dirigenti Enel.

Tale sentenza è ora impugnata da B. Claudio che, con unico articolato motivo, ne chiede la cassazione. Resiste l'Inps con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con unico motivo si denuncia violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.) con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. e agli artt. 6 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, sulla base delle seguenti considerazioni:

- "non è stato tenuto conto, con la sentenza della Corte di cassazione n. 2223/2007, delle situazioni analoghe di natura interna allo Stato italiano; difatti di fronte a fattispecie identiche, l'Inps non ha applicato uniformemente lo stesso criterio...", con ciò violando, oltre all'art. 97 Cost., anche i principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo di cui agli artt. 6 e 14, posto che la decisione di impugnare o di non impugnare le sentenze sfavorevoli all'ente pubblico era avvenuta senza alcun criterio logico o sistematico;

- come affermato dalla Corte di Strasburgo, l'art. 14 C.e.d.u., nel proibire la discriminazione l'art. 14 vieta di trattare in modo diverso, senza alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole, persone poste in materia in situazioni comparabili (CEDU, Fredin n. 160); una distinzione è discriminatoria se manca una giustificazione oggettiva e ragionevole, cioè se non persegue uno scopo legittimo o se difetta di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (CEDU, Michael, 97); l'uguaglianza di trattamento è violata se la distinzione non ha giustificazione oggettiva e ragionevole, la quale deve essere valutata in relazione allo scopo e agli effetti della misura considerata, tenuto conto dei principi che prevalgono generalmente nelle società democratiche, e l'art. 14 è violato anche quando sia chiaramente provato che non esiste rapporto ragionevole di proporzionalità tra mezzi impiegati e scopo perseguito (CEDU, Cabales e Balkandali, 72);

- sono stati presentati alla Corte di Strasburgo tredici ricorsi che denunciano la violazione degli artt. 6 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, poiché lo Stato italiano, mediante l'Inps, in numerose cause dai 2004 al 2007, dinanzi alle competenti autorità giurisdizionali, in merito alla medesima fattispecie giuridica, ovvero al ricalcolo del trattamento pensionistico erogato dall'Inpdai secondo i criteri di cui all'art. 5 l. n. 44 del 1973 e d.m. 7 luglio 1973, non ha impugnato numerose sentenze ad esso stesso sfavorevoli e favorevoli alle parti che avevano proposto ricorso in quei giudizi.

Le censure mosse alla sentenza impugnata - contenenti anche riferimenti a pronunce della Corte di Giustizia estranee, tuttavia, alle indicazioni delle norme di diritto ritenute violate e specificate nella formulazione del motivo - sono tutte inammissibili o comunque infondate.

Invero, questa Corte ha chiarito che il giudice è tenuto al rispetto della Convenzione per come vive nelle decisioni con le quali la Corte europea dei diritti dell'uomo ha deciso casi analoghi, e dunque deve applicare, in senso però sostanziale tale principi (Cass. n. 1340/2004). Pertanto, la parte interessata che lamenta innanzi a questa Corte la violazione dei parametri anzidetti, è nondimeno onerata dell'allegazione di come il giudice di merito si sia discostato dai criteri CEDU e dall'indicazione di concreti elementi di analogia fra il suo caso, di cui deve indicare i profili, e gli altri casi consimili in cui, in sede europea, sono stati applicati i parametri più adeguati e comunque più favorevoli che invoca (cfr. Cass. n. 19638/2004).

È stato ulteriormente precisato che, se è vero che il valore di precedente delle decisioni della Corte di Strasburgo opera come guida ermeneutica vincolando il giudice nazionale, che non può disattenderle, occorre pur sempre che la denuncia sia sostenuta da concreti e specifici elementi di confronto, che consentano agevolmente la necessaria indagine comparativa (Cass. n. 1742/2006). Trattasi di un complesso di allegazioni che involgono sia l'enucleazione della regola desumibile dalle decisioni adottate in sede europea in casi analoghi, sia l'indicazione di elementi concretamente apprezzabili della fattispecie all'esame del giudice nazionale attraverso i quali condurre il confronto richiesto.

Tali oneri gravano su chi agisce in giudizio per far valere il diritto al ripristino di una situazione lesa dalla violazione delle norme della Convenzione; a tal fine spetta alla parte fornire al giudice gli elementi occorrenti per consentire l'operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, quale desumibile dalla giurisprudenza CEDU formatasi in casi simili.

L'operazione ermeneutica richiesta al giudice esige, dunque, che siano indicati tanto la regola desumibile dalle decisioni adottate dalla Corte di Strasburgo in casi analoghi, quanto gli elementi della fattispecie concreta occorrenti a radicare il raffronto richiesto.

Tanto chiarito, va osservato che nel ricorso in esame non è stato dedotto l'omesso o l'erroneo esame di particolari questioni (di fatto o di diritto) introdotte in appello che il giudice di merito abbia trascurato di considerare o abbia valutato non in conformità ai principi dettati dalla C.e.d.u., nell'interpretazione indicata dalla Corte di Strasburgo. Né sono state indicate le proposizioni, contenute nella sentenza di appello, che violerebbero la C.e.d.u. nel contesto di una corretta operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta. Invero, non è stata neppure indicata quale dovrebbe essere la regola, desumibile dalle decisioni della CEDU emesse in casi consimili, in ipotesi violata dai giudici di merito con la soluzione accolta nella sentenza impugnata. I richiami operati nell'illustrazione del motivo di ricorso sono generici e non pertinenti alla particolare fattispecie, non fornendo alcuna regola di giudizio che consenta di superare l'effetto vincolante del giudicato formatosi nei confronti dell'attuale ricorrente, argomento che la Corte di appello ha assunto a fondamento della decisione ora impugnata.

Quanto alla presunta violazione di canoni costituzionali, la Corte territoriale ha correttamente argomentato che il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) non può essere interpretato nel senso di giustificare la violazione del principio di intangibilità del giudicato, costituente insopprimibile garanzia di stabilità dei rapporti giuridici, ove si formino pronunce di diverso tenore con riferimento a posizioni individuali accomunate dalla medesima (o da analoga) situazione giuridica azionata.

Deve poi osservarsi che l'esecuzione, da parte dell'INPS, di sentenze passate in giudicato (tanto di quelle favorevoli, quanto di quelle sfavorevoli) costituisce un comportamento che, per sua natura, contraddice l'ipotesi della disparità di trattamento, essendosi l'INPS uniformato alla corretta osservanza del principio di diritto dell'ordinamento secondo cui il giudicato (art. 324 c.p.c.) costituisce garanzia di stabilità dei rapporti giuridici.

Come opportunamente rilevato dai giudici di merito, è l'inosservanza del giudicato a costituire violazione dei principi dell'ordinamento e potenziale fonte di disparità di trattamento, nonché fonte di responsabilità per la pubblica amministrazione che non esegua statuizioni ormai definitive nei suoi confronti, indipendentemente dal diverso esito che il giudizio da cui il giudicato scaturisce possa avere avuto.

Quanto alla denunciata violazione del principio di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione (art. 97, secondo comma, Cost.), si deduce che vi sarebbe contraddizione logica nel ragionamento che ritiene conforme a buona amministrazione il comportamento tenuto dall'Inps nei confronti dell'attuale ricorrente, ma al contempo si esclude la violazione del medesimo principio nei casi in cui si era dato atto che l'Inps si era esposto ad esborsi superiori.

Anche tale censura non può trovare accoglimento perché generica rispetto alla motivazione adottata nella sentenza impugnata, avendo la Corte territoriale evidenziato che nei confronti dell'appellante si era formato un giudicato che aveva reso intangibile il relativo accertamento, con la conseguenza che l'eventuale inosservanza del dictum giudiziale avrebbe esposto l'istituto a responsabilità contabile, oltre a costituire essa stessa violazione del canone costituzionale di cui all'art. 97 Cost.

Del resto, il fatto che in altre occasioni l'Istituto possa essersi esposto a maggiori esborsi rispetto a quelli che avrebbe potuto sostenere se avesse diligentemente coltivato in sede giudiziaria le proprie ragioni non può costituire ragione di illegittimità della condotta tenuta nei confronti dell'attuale ricorrente; nessun diritto potrebbe scaturire per costui dalla inerzia che l'Istituto previdenziale possa avere (o abbia effettivamente) tenuto nei confronti di altri assicurati, quand'anche in posizione analoga, nel far valere giudizialmente le ragioni dell'amministrazione. Ed infatti, se l'omissione in cui (in via di mera ipotesi) sia incorsa la P.A. è espressione della violazione del principio costituzionale di cui all'art. 97 Cost., non può la stessa omissione - se non contraddicendo la premessa - costituire fonte di diritti per gli amministrati, nemmeno se versano nella medesima situazione di fatto; né essa può costituire parametro attraverso il quale pervenire ad affermare l'illegittimità della condotta che invece a tali canoni si sia conformata. È difatti contra ius, oltre che irragionevole ed intrinsecamente contraddittorio, argomentare che, per ripristinare l'equilibrio turbato da una disomogenea gestione di situazioni accomunate dai medesimi presupposti di fatto occorrerebbe dichiarare l'illegittimità dei comportamenti conformi ai canoni generali di diligenza, prudenza e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ma che abbiano prodotto conseguenze meno favorevoli agli amministrati di quelli che invece a tali canoni non si siano conformati.

Per quanto esposto il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.