Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 25 febbraio 2014, n. 11110

RITENUTO IN FATTO

1. Il G.I.P. presso il Tribunale di Venezia, in data 4 aprile 2013, pronunciava sentenza ex art. 444 c.p.p. di applicazione della pena, su accordo delle parti, nei confronti di K.J., ritenuto il comma V dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 prevalente sulla contestata recidiva ed applicata la riduzione del rito, di anni 2 di reclusione ed euro 6.700,00 di multa.

All'imputato era stato contestato di avere illegalmente acquistato e detenuto a fini diversi dall'uso personale oltre 180 grammi di sostanza stupefacente del tipo marijuana suddivisa in 11 involucri parte della quale - 33 grammi circa suddivisi in 6 involucri - consegnava a M.S. Accertato in Venezia-Mestre il 10 ottobre. Con la recidiva specifica infraquinquennale.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione K.J., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.:

a. inosservanza e/o erronea applicazione, ex art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. degli art. 444, comma 2, e 129 c.p.p.;

b. in subordine, mancanza di motivazione sul punto ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. risultante dal testo del provvedimento impugnato.

Il ricorrente deduce la mancanza di motivazione in ordine all'impossibilità di pronunciare una sentenza di proscioglimento, in quanto il GIP si sarebbe limitato ad affermare che "... non vi siano elementi in forza dei quali fondare il proscioglimento secondo il disposto dell'art. 129 c.p.p.".

Deduce che in tal modo non è possibile ricostruire l'iter logico compiuto dal giudicante per giustificare l'esclusione dei requisiti di cui all'art. 129 c.p.p.

Chiede, pertanto, in accoglimento dei motivi, annullarsi con o senza rinvio ad altro giudice di merito la sentenza impugnata.

In data 20 febbraio 2014 il difensore ha depositato una memoria nella quale ripropone, in sintesi, i sopraindicati motivi di doglianza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato e pertanto va dichiarato inammissibile.

2. Preliminarmente ritiene il Collegio che ci si debba domandare quale influenza abbia sui processi ancora in corso, siano stati essi definiti con rito ordinario ovvero, come nel caso che ci occupa, con un rito alternativo, la modifica legislativa riguardante il quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 operata con l'art. 2, comma 1, lett. a), del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, senza modifiche sul punto, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10 (in G.U. Serie generale n. 43 del 21 febbraio 2014).

Com'è noto la modifica più importante attiene all'aver trasformato quella che per giurisprudenza consolidata di questa Corte era pacificamente ritenuta una circostanza attenuante (cfr. ex plurimis Sez. Unite n. 9148 del 31 maggio 1991, Parisi, rv. 187930; conf. sez. 1, n. 496 del 3 febbraio 1992, confl. comp. Pret. e Trib. Palermo in proc. Di Gaetano, rv. 191131; e, anche dopo le modifiche introdotte dall'art. 4-bis l. 49/2006, ancora Sez. Unite n. 35737 del 24 giugno 2010, P.G. in proc. Rico, Rv. 247910; conf. sez. 6 n. 458 del 28 settembre 2011 dep. 11 gennaio 2012, Khadhraoui Farouk e altro, rv. 251557; sez. 6, n. 13523 del 22 ottobre 2008 dep. 26 marzo 2009, De Lucia e altri, rv. 243827) in un'ipotesi autonoma di reato.

Le perplessità avanzate da taluno dopo l'emanazione del d.l. 146/2013 risultano fugate dall'analisi dei lavori parlamentari e dagli ulteriori "ritocchi" posti in essere con la citata legge 10/2014 di conversione laddove nei vari richiami operati alla fattispecie di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 il legislatore si è preoccupato di sostituire il riferimento alla "circostanza" di cui al comma 5 con quello al "delitto" (ad esempio all'art. 380, comma 2, lett. h, c.p.p. o all'art. 19, comma 5, delle disposizioni sul processo penale a carico di minorenni).

Del resto, già l'avere con il d.l. 146/2013 introdotto una clausola di riserva per circoscrivere negativamente l'applicazione della norma, scrivendo "salvo che il fatto costituisca più grave reato" lasciava chiaramente intendere che quello di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 voleva essere un titolo autonomo di reato. Conclusioni cui portava anche l'individuazione da parte del legislatore di un soggetto attivo ("chiunque") e di una condotta "commette", tipici delle norme incriminatrici autonome. O il fatto che lo stesso art. 2 del d.l. 146/2013 era rubricato "Delitto di condotte illecite in tema di sostanze stupefacenti o psicotrope di lieve entità".

La sanzione prevista dal nuovo reato autonomo è senza dubbio più favorevole per l'imputato.

Il nuovo art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 punisce, infatti, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 3.000 a euro 26.000 chiunque, salvo che il fatto costituisca più grave reato, commetta uno dei fatti previsti dal medesimo art. 73 che per i mezzi, le modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, sia "di lieve entità". La norma previgente prevedeva identica sanzione pecuniaria e, quanto alla pena detentiva, identico minimo edittale (anni uno di reclusione) ma una pena massima più alta (anni sei di reclusione).

La natura di reato autonomo sottrae poi oggi la norma al bilanciamento con eventuali circostanze aggravanti, che spesso finiva per portare il trattamento sanzionatorio, anche per fatti di lieve entità (a fronte ad esempio di una recidiva reiterata ritenuta equivalente all'ipotesi attenuata, qual era il quinto comma previgente) a dover necessariamente riferirsi alle ben più severe pene di cui al primo comma dell'art. 73.

L'abbassamento del massimo edittale produce inoltre effetti di maggior favore per l'imputato sui termini di custodia cautelare e su quelli per il computo della prescrizione.

3. Un cenno va fatto anche ai rapporti con l'intervenuta pronuncia della Corte costituzionale n. 32/2014, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del d.l. 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della l. 21 febbraio 2006, n. 49.

Sul punto va precisato che le motivazioni della sentenza della Consulta, pronunciata il 12 febbraio 2014, risultano depositate nella stessa data di cui viene in decisione il presente processo (25 febbraio 2014), ma non risulta ancora avvenuta la pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e pertanto, ai sensi del combinato disposto dell'art. 136 Cost. e dell'art. 30, comma 3, l. 87/1953, la stessa non è ancora produttiva di effetti.

Con la sentenza in questione, rimossa dal giudice delle leggi la novella del 2006 di cui alla c.d. legge Fini-Giovanardi, si ha la reviviscenza del primo e del quarto comma dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con quella apportate che, mentre prevedono un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette "droghe leggere" (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa contemplano sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette "droghe pesanti" (puniti, oltre che con la multa, con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni).

È la stessa Corte costituzionale a precisarlo in sentenza laddove afferma che "in considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza del presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate".

E anche per quanto riguarda i rapporti con il vigente quinto comma la Consulta è esplicita. Si legge in sentenza: "È appena il caso di aggiungere che, alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna incidenza sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall'art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10". "Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni non applicabili nel giudizio a quo - scrivono ancora i giudici costituzionali per giustificare il rigetto della richiesta in tal senso - non si ravvisa la necessità di una restituzione degli atti al giudice rimettente, dal momento che le modifiche, intervenute medio tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa l'applicazione nella specie, e sono tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti. Inoltre, gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest'ultima".

Né può ritenersi che un'abrogazione implicita del vigente quinto comma dell'articolo 73 la si possa desumere, in via interpretativa, dal passo conclusivo della sentenza 32/2014 laddove la Consulta riconosce al giudice comune il compito di individuare "quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto, in quanto rinviano a disposizioni caducate e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione".

Vi osta il chiaro dictum dei giudici costituzionali che riguarda, come detto, specificamente il quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, ma, soprattutto, la considerazione che tale norma non è divenuta priva del proprio oggetto dopo la reviviscenza della precedente normativa, in quanto i fatti-reato cui la norma rinvia sono gli stessi, anche se sanzionati diversamente.

4. Pare acclarato, dunque, che, anche quando avrà assunto piena vigenza la decisione della Corte costituzionale, ci troveremo di fronte ad una disciplina in materia di stupefacenti che punirà con pene diverse i fatti-reato riconducibili al primo comma quando riguardino le tabelle inclusive delle droghe "pesanti" e quelli di cui alle tabelle delle droghe "leggere" di cui al quarto comma. Ma punirà in maniera indifferenziata, sia per le droghe leggere che per quelle pesanti, i fatti di lieve entità".

In ogni caso, l'assetto normativo nel momento in cui interviene la presente sentenza vede ancora vigente l'art. 73, comma 1, d.P.R. 309/1990 punitivo in via indifferenziata delle droghe c.d. pesanti e di quelle leggere come introdotto dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272 conv. con modif. dalla l. 21 febbraio 2006, n. 49.

Orbene, come si è anticipato, va valutato il rapporto intertemporale che, in casi come quelli all'odierno esame intercorre tra la previsione di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 ante d.l. 146/2013 e quella, più favorevole, oggi vigente.

Nello specifico di questa Corte di legittimità va valutato se possa considerarsi legale la pena inflitta dal giudice del merito che, quando ha pronunciato la propria sentenza, aveva come riferimento l'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990 nel testo previgente.

È fuori discussione che, ancorché i fatti siano accaduti sotto la legge previgente, trovi applicazione ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., per il principio del favor rei, la più favorevole legge sopravvenuta.

Ritiene tuttavia il Collegio che, a fronte di un'immutata previsione del fatto-reato sanzionato, un problema di successione di leggi penali nel tempo - e di necessità di ricalcolare una pena divenuta illegale, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato - si ponga soltanto nel caso in cui il giudice del merito sia partito da una pena base, oggi non più contemplata, superiore a cinque anni di reclusione. Oppure quando, considerata l'ipotesi di cui al quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 circostanza attenuante, ne abbia eliso la portata bilanciandola, in quanto ritenuta minusvalente o equivalente, rispetto a circostanze aggravanti.

Una conclusione in tal senso è conforme alla pacifica giurisprudenza di questa Corte di legittimità formatasi in materia di ius superveniens per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace commessi prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 274/2000, che ha affermato che, sulla base della disciplina transitoria ivi prevista, andavano applicate le nuove sanzioni indicate dall'art. 52 d.lgs. 274 cit. in quanto più favorevoli ai sensi dell'art. 2, comma 3, c.p.

In quel caso la pena applicata dal giudice sotto la legge previgente venne considerata "illegale" in quanto non più prevista dalla normativa disciplinante il reato per il quale si procedeva (ex plurimis, sez. 4, n. 1007 del 10 ottobre 2002 dep. il 14 gennaio 2003, Firpo, rv. 223490; sez. 2, n. 759 del 19 dicembre 2005 dep. l'11 gennaio 2006, Ballini Katy, rv. 232862; sez. 4, n. 36725 del 1° aprile 2004, Battisti, rv. 229679; in particolare, sulla disciplina sanzionatoria applicabile in quanto più favorevole al reo, sez. 4, n. 1017 del 22 ottobre 2002 dep il 14 gennaio 2003, Gismondi, rv. 223491; sez. 4, n. 4799 del 19 novembre 2002 dep. il 3 febbraio 2003, Clementi, rv. 223492; sez. 4, n. 7292 del 26 novembre 2002 dep. il 14 febbraio 2003, Alite, rv. 223493; sez. 4 n. 4852 del 20 dicembre 2002 dep. il 3 febbraio 2003, Cangiano, rv. 223495; sez. 4, n. 5933 dell'11 dicembre 2002 dep. il 7 febbraio 2003, PM in proc. Baisi, rv. 223496; sez. 4, n. 7343 del 16 gennaio 2003, Giovara, rv. 223497; sez. 4, n. 3982 del 12 novembre 2002 dep. il 28 gennaio 2003, Mancini, rv. 223501; sez. 5 n. 40009 del 6 ottobre 2003, Scalas, rv. 226785).

Caso analogo è stato quello in cui questa Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di patteggiamento impugnata con la quale la pena era stata concordata anche tenendo conto della contestata aggravante di cui all'art. 69, comma 1, n. 11-bis, c.p. dichiarata incostituzionale in epoca successiva alla pattuizione della pena (sez. 6, n. 4836 del 17 novembre 2010, Nasri, rv. 248533 nella cui motivazione viene evidenziato che l'annullamento è rilevato d'ufficio per una sopravvenuta causa di nullità che investe la qualificazione aggravata della condotta criminosa e la definizione del trattamento sanzionatorio applicato).

Di fronte, dunque, ad un giudice del merito che, ritenuto il quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 abbia pronunciato una sentenza di condanna partendo da una pena superiore a cinque anni di reclusione ovvero operando una comparazione di circostanze che non abbia comportato la prevalenza dell'allora ipotesi attenuata (giudizio di prevalenza possibile anche per la recidiva reiterata dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 251/2012 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69 c.p. laddove non lo consentiva) questo giudice di legittimità non potrebbe che prendere atto dell'illegalità della pena e annullare la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per un nuovo giudizio sul punto, al giudice di merito.

Nella medesima situazione, in caso di patteggiamento, discenderebbe l'esclusione della validità dell'accordo siglato tra le parti e ratificato dal giudice, per cui, al fine di rispettare la volontà delle parti, dovrebbe operarsi un annullamento senza rinvio, con ritrasmissione degli atti, per consentire alle parti del processo, se lo ritengono, di rinegoziare l'accordo su altre basi, con riferimento alle più favorevoli sanzioni, ovvero di proseguire con il rito ordinario (in tal senso questa sez. 3, n. 1883 del 22 settembre 2011, P.G. in proc. La Sala, rv. 251796; sez. 1, n. 16766 del 7 aprile 2010, P.G. in proc. Ndiaye, rv. 246930; sez. 3, n. 34302 del 14 giugno 2007, P.G. in proc. Cotugno, rv. 237124; sez. 5, n. 1411 del 22 settembre 2006, P.G. in proc. Braidich e altro, rv. 236033; sez. 3, n. 30851 del 12 giugno 2001, n. 30851, Santullo, rv. 220046; sez. 3, n. 641 del 16 febbraio 1999, PM in proc. Zanon, rv. 213274; sez. 1, n. 1571 del 14 marzo 1995, PM in proc. Panariello, rv. 201163).

Orbene, non pare esservi dubbio alcuno che non si debba rideterminare la pena - e che in caso di patteggiamento ci si trovi di fronte ad un accordo ancora pienamente valido - quando, ritenuto il quinto comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990, si sia rimasti significativamente in prossimità del minimo edittale, rimasto immutato.

Qualche dubbio potrebbe sussistere nei soli casi in cui il giudice (in proprio o ratificando una pena da applicare sottopostagli) sia partito da una pena base assai vicina ai cinque anni, attuale massimo edittale. Si può ritenere in quel caso, infatti, tenendo conto anche del caso concreto, che la pena non possa dirsi più attuale "in peius" per l'imputato, perché, quando è stata irrogata, la stessa non costituiva, come oggi, il massimo edittale.

La valutazione andrà, però, operata in concreto, caso per caso, tenendo conto di tutti gli elementi valutati dal giudice del merito nella dosimetria della pena.

5. Ebbene, alla luce dei principi di diritto sopra ricordati, non pare sussistere alcun dubbio in un caso come quello all'odierno esame in cui, a fronte di un quantitativo di marijuana di 180 grammi e della prova della cessione a terzi, si è partiti nel computo della pena patteggiata da una pena base di anni tre di reclusione ed euro 10.000 di multa, con un operato giudizio di prevalenza dell'allora ipotesi attenuata di cui al V comma dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 sulla contestata recidiva.

Quanto ai motivi di ricorso, gli stessi paiono manifestamente infondati.

Va evidenziato, quanto alla memoria depositata in data 20 febbraio 2014 dal difensore, ovvero cinque giorni prima dell'udienza pubblica di fronte a questa Corte, che la stessa è in larga parte riproduttiva dei motivi già proposti e, comunque, è inammissibile per tardività. Trova, infatti, applicazione il disposto degli artt. 585, comma 4, e 611, comma 1, ultimo periodo, c.p.p., secondo i quali le parti possono presentare motivi nuovi e memorie solo fino a 15 giorni prima dell'udienza. Il mancato rispetto di tale termine comporta decadenza, ai sensi di quanto disposto dal successivo comma 5 del richiamato art. 585.

Quanto ai proposti profili di doglianza, è ormai principio consolidato di questa Corte di legittimità, anche a Sezioni Unite, quello secondo cui, nell'ipotesi di impugnazione di una decisione assunta in conformità alla richiesta formulata dalla parte secondo lo schema procedimentale previsto dall'art. 444 c.p.p., l'esigenza di specificità delle censure deve ritenersi addirittura "rafforzata" rispetto ad ipotesi di diversa conclusione del giudizio, dato che la critica al provvedimento che abbia accolto la domanda dell'imputato deve impegnarsi a demolire, prima di tutto, proprio quanto dalla stessa parte richiesto (Sez. Un., n. 35738 del 27 maggio 2010, P.G., Calibè e altro, rv. 247839; Sez. Un., n. 11493 del 24 giugno 1998, Verga, rv. 211468).

Con particolare riferimento all'onere di verifica dell'insussistenza delle cause di proscioglimento immediato, questa Corte ha altresì precisato che la sentenza del giudice di merito che applichi la pena su richiesta delle parti, escludendo che ricorra una delle ipotesi proscioglimento previste dall'art. 129 c.p.p., può essere oggetto di controllo di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, soltanto se dal testo della sentenza impugnata appaia invece evidente la sussistenza di una causa di non punibilità (Sez. 1, n. 4688 del 10 gennaio 2007, Brendolin, rv. 236622).

È altrettanto pacifico, poi, che in caso di patteggiamento ai sensi dell'art. 444 c.p.p., "l'accordo intervenuto tra le parti esonera l'accusa dall'onere della prova e comporta che la sentenza che recepisce l'accordo fra le parti sia da considerare sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (deducibile dal capo d'imputazione), con l'affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all'art. 129 c.p.p. per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27 Cost." (sez. 4, 13 luglio 2006, n. 34494, P.G. in proc. Koumya, rv. 234824; vedasi anche, Sez. 1, n. 3980 del 27 settembre 1994, Magliulo, rv. 199479). E ancora, di recente, si è precisato che nella motivazione della sentenza di patteggiamento il richiamo all'art. 129 c.p.p. è sufficiente a far ritenere il giudice abbia verificato ed escluso la presenza di cause di proscioglimento, non occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al riguardo (Sez. 2, n. 6455 del 17 novembre 2011 dep. 17 febbraio 2012, Alba, rv. 252085). In tale pronuncia è stato chiarito, in motivazione, che il semplice e testuale rinvio al medesimo articolo, il cui contenuto entra in tal modo a far parte per relationem del ragionamento decisorio, esprime l'avvenuta verifica, da parte del giudice, dell'inesistenza di motivi di non punibilità, senza che occorra una ulteriore e più analitica disamina, purché dal testo della sentenza medesima non emergano in modo positivo elementi di segno contrario.

Del resto, già agli albori del vigente codice di rito era stato affermato che la motivazione della sentenza in ordine alla mancanza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 129 c.p.p. potesse essere meramente enunciativa (Sez. Un., 27 marzo 1992, Di Benedetto; Sez. 1, 12 gennaio 1994, Di Modugno).

Né può ritenersi in contrasto con tale orientamento l'annullamento senza rinvio disposto in una pronuncia di questa Corte (Sez. 4, 21 aprile 2010, n. 31392, rv. 248198) in base al principio secondo il quale "il giudice del patteggiamento deve, nei limiti di una motivazione semplificata della sentenza, indicare le ragioni dell'accoglimento dell'accordo e dare conto dell'accertamento sull'assenza di cause di non punibilità, sull'esatta qualificazione del fatto, sulla correttezza della valutazione delle circostanze e sull'adeguatezza della pena". Nel caso-limite in concreto esaminato nella pronuncia 31392/2010 si era, infatti, di fronte ad una sentenza la cui motivazione era affidata a tre righe di un modulo prestampato, in cui non vi era neanche un riferimento all'art. 129 c.p.p.

La proposta doglianza, nel caso di specie, è manifestamente infondata in quanto l'esigenza minima di motivazione della sentenza a seguito di "patteggiamento" della pena può ritenersi adempiuta, in relazione all'assenza di cause di proscioglimento di cui all'art. 129 c.p.p., dal semplice testuale rinvio al medesimo articolo, il cui contenuto, come detto, è entrato in tal modo a far parte per relationem del ragionamento decisorio ed esprime l'avvenuta verifica, da parte del giudice, dell'inesistenza di motivi di non punibilità.

Il GUP di Venezia, peraltro, non si limita ad un semplice richiamo del dato nominativo, se è vero che scrive: "si ritiene che non vi siano elementi in forza dei quali fondare il proscioglimento secondo il disposto dell'art. 129 c.p.p. atteso che la perquisizione dell'abitazione dell'imputato è seguita ad attività di osservazione e controllo dei Carabinieri di Spinea, che hanno potuto, prima, vedere la cessione di droga al coimputato, ora separatamente giudicato, M.S., e poi recuperare l'involucro che conteneva stupefacente gettato dalla finestra dal K." (così pag. 2 della sentenza Impugnata). Successivamente, poi, passa ad affermare la correttezza della qualificazione giuridica del fatti, quindi a verificare la congruità della pena patteggiata, che lo porta a recepire integralmente le statuizioni concordate applicando la pena stabilita.

Come si vede, secondo i principi di diritto sopra richiamati, il giudice di merito, con motivazione del tutto esauriente ha dato conto in maniera più che sufficiente della insussistenza delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. e quindi la sentenza impugnata si sottrae certamente alla censura mossa, non emergendo da essa in modo positivo alcun elemento di segno contrario, ma anzi l'esistenza di elementi indiziari di responsabilità.

Il ricorso appare tendere solo a rimettere in discussione i termini dell'accordo finalizzato all'applicazione della pena oggetto del patteggiamento, il che non è consentito.

6. Non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost., sentenza 13 giugno 2000, n. 186), alla condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 616 c.p.p. nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Depositata il 7 marzo 2014.