Consiglio di Stato
Sezione V
Sentenza 23 giugno 2014, n. 3144
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sez. II-bis, con la sentenza 11 settembre 2013, n. 8206, ha accolto il ricorso proposto dall'attuale parte appellata Rete per la Parità ed altri, annullando, nei termini di cui in motivazione, il Decreto prot. n. 84 del 6 dicembre 2012, emesso dal Comune di Colleferro.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che il principio della parità di accesso alle cariche amministrative tra uomini e donne costituisce espressione di un principio fondamentale dell'ordinamento sopranazionale e del nostro ordinamento costituzionale, sancito dagli artt. 3, 49, 51 e 97 Cost., sicché lo stesso opera direttamente quale limite conformativo all'esercizio del potere amministrativo, anche in mancanza di specifiche disposizioni attuative.
Per il TAR, in una prospettiva di effettività di tutela in senso sostanziale, la concreta attuazione del principio di non discriminazione, in relazione ai principi di proporzionalità e adeguatezza discendenti dal diritto europeo e dall'attuazione della Corte di Strasburgo, deve essere individuata nella "garanzia del rispetto di una soglia quanto più approssimata alla pari rappresentanza dei generi, da indicarsi dunque nel 40% di persone del sesso sotto-rappresentato, altrimenti venendosi a vanificare la portata precettiva delle norme sin qui richiamate e l'effettività dei principi in esse affermati".
Il Comune appellante contestava la sentenza del TAR, deducendo:
- Errata interpretazione di legge; violazione del principio di irretroattività della legge nel tempo e del principio tempus regit actum; carenza di motivazione; violazione del principio di certezza del diritto; violazione art. 34, comma 1, c.p.a.;
- Omessa pronuncia; carenza di motivazione.
Con l'appello in esame, si chiedeva pertanto la reiezione del ricorso di primo grado.
Si costituiva l'associazione appellata chiedendo il rigetto dell'appello.
All'udienza pubblica del 15 aprile 2014 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il Collegio, sia sotto il profilo dell'interesse e della legittimazione ad agire, sia per quanto riguarda il merito della questione, non può che richiamare in toto quanto già espresso con la propria sentenza della sezione V, 27 luglio 2011, n. 4502, confermativa della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione I, 7 aprile 2011, n. 1985, con cui è stato annullato l'atto del Presidente della Giunta regionale di nomina di un assessore, per violazione del principio della c.d. "quote rose" nel caso sancito dall'art. 46, comma 3, dello Statuto della Regione Campania che richiede una equilibrata presenza tra uomini e donne; parimenti, i medesimi argomenti sono già stati espressi nella propria sentenza della sezione V, 21 giugno 2012, n. 3670, che ha riformato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Milano, sezione I, 4 febbraio 2011, n. 354, con cui è stata dichiarata l'illegittimità della composizione della Giunta regionale lombarda, per violazione del principio della c.d. "quote rose" di cui all'art. 11, comma 3, dello Statuto lombardo; così anche la propria sentenza della sezione 5 dicembre 2012, n. 6228 che ha, invece, ritenuto non applicabile il principio in difetto di una disposizione all'uopo specificamente vincolante contenuta nello Statuto.
Le soluzioni giurisprudenziali date da questa Sezione alla questione in oggetto sono state ancora ribadite da questo Consiglio, Sez. I, con parere 16 marzo 2012, n. 1306 (affare n. 1263-2011, Adunanza di Sezione del 18 gennaio 2012) ed autorevolmente confermate dalla stessa Corte costituzionale con sentenza 5 aprile 2012, n. 81.
In sintesi, e procedendo dal secondo motivo d'appello che introduce una questione preliminare di legittimazione al ricorso, si deve rilevare che questo Consiglio ha asserito che, attualmente, il problema è quello di rendere giustiziabili posizioni giuridiche sempre più standardizzate e sempre meno connotate di "individualismo" (almeno in riferimento al profilo del pregiudizio subito), ampliando nei limiti del possibile i confini dell'azione processuale ed estendendola, se non a tutti i cittadini, ad una pluralità di soggetti accomunati da un'identica situazione di danno (la classe), o identificati dall'appartenenza ad un particolare contesto ambientale (es. lo stesso mercato) o fisico/spaziale (es. la vicinanza a un bene ambientale compromesso o, nel caso di specie, il sesso), confermando una tendenza all'allargamento delle situazioni giuridiche giustiziabili sotto il profilo della legittimazione ad agire.
Nel caso di specie, con riguardo all'Associazione appellata, e a prescindere dalla posizione dei singoli cittadini elettori pur riuniti in comitato (e, dunque, comunque organizzati in vista della protezione di un interesse meritevole di tutela come quello di specie), si deve rilevare che le finalità statutarie dell'Associazione, relative alla coscienza e militanza politica delle donne (di cui lo Statuto dell'Associazione contempla espressamente la promozione), prevedono ragionevolmente anche la tutela delle pari opportunità e la promozione del riequilibrio tra i generi nella composizione degli organi collegiali che ne costituiscono senz'altro espressione, giustificandosi così la legittimazione ad agire della medesima, a prescindere dal fatto che non sia stata indicata alcuna candidata di genere femminile, poiché ciò che rileva, nella prospettiva dell'associazione è la violazione del principio di tendenziale parità di genere.
Passando ora all'esame del primo motivo d'appello, si deve evidenziare che la contestazione risulta essere indirizzata avverso la statuizione del TAR che stabilisce la soglia del 40% nella composizione della Giunta comunale e avverso l'inapplicabilità della legge n. 215 del 2012 e delle altre norme nazionali e sovranazionali che non potrebbero, secondo la prospettiva dell'appellante, fungere da parametro di legittimità del decreto impugnato.
Intesa in questo senso la censura è accoglibile.
Infatti, premesso che relativamente all'insindacabilità degli atti politici che costituiscono espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14 aprile 2001, n. 340) e sono liberi nella scelta dei fini, non può certo riconoscersi natura di atto politico alla nomina degli assessori (sezione V, 27 luglio 2011, n. 4502), si deve evidenziare l'assenza nello Statuto di qualsivoglia disposizione che individui un vincolo o un limite alla discrezionalità di nomina da parte del Sindaco eletto.
Come ha asserito la Sezione, infatti, lo Statuto Comunale, diversamente dalle ipotesi prese in considerazione dalla Sezione in relazione allo Statuto regionale della Campania e della Lombardia (sentenze della sezione V, 27 luglio 2011, n. 4502 e 21 giugno 2012, n. 3670), non dispone né predetermina alcun vincolo specifico in ordine alla composizione degli organi di governo comunale.
Le disposizioni statutarie, neppure in specifico invocate, quindi, sono inidonee a veicolare in concreto la discrezionalità politica in questo settore, essendo chiaramente prive di contenuti precettivi, in ragione della loro vaga e generica formulazione, di rilievo puramente enfatico, non contenente neppure una regola di cd. "positive action" di tipo promozionale, che deve sempre essere enunciata in modo specifico, determinato e preciso, come è proprio delle norme giuridiche, anche di principio.
Peraltro, il contenuto non precettivo delle norme statutarie non può nemmeno essere integrato in via interpretativa in conformità alle norme costituzionali e internazionali rilevanti in materia.
In primo luogo, infatti, l'art. 51, comma 1, Cost., non può che ritenersi (nella parte che legittima le c.d. azioni positive, che il legislatore deve, però, formulare in concreto) norma meramente programmatica, come è evidente dal tenore letterale della disposizione, la quale così recita: "la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini".
Facendo riferimento l'art. 51 cit. ad "appositi provvedimenti" per l'applicazione del principio, è evidente che in mancanza di appositi provvedimenti legislativi di carattere attuativo il principio non può trovare concreta ed immediata applicazione; al contrario, un carattere immediatamente precettivo può essere individuato solo nella sua accezione negativa, ovvero nel cd. divieto di discriminazione tra i sessi; condotta che, nella specie, chiaramente non sussiste.
In secondo luogo, le norme internazionali invocate, ed elencate nella sentenza impugnata, non impongono nessun vincolo positivo, trattandosi di norme di principio non direttamente invocabili quali parametri di legittimità degli atti amministrativi nazionali se non nel significato di vietare ogni condotta discriminatoria.
I predetti principi generali anche di rango sovranazionale riguardanti l'equilibrio di genere possono, semmai, configurare parametri di legittimità dello Statuto comunale che non preveda vincoli specifici come sopra indicati, da far valere con gli strumenti di tutela previsti dal nostro ordinamento (ad es., impugnando lo Statuto nei modi e nei termini di legge); ma non possono essere direttamente invocati, come detto, quali parametri di legittimità degli atti amministrativi nazionali.
Inoltre, non può nemmeno essere accoglibile la tesi secondo cui sarebbe ricavabile da tali principi una soglia quantitativa di presenza del sesso femminile nelle compagini di governo degli Enti Locali.
Come ha già affermato questo Consiglio (Sez. I, parere 16 marzo 2012, n. 1306, affare n. 1263-2011, Adunanza di Sezione del 18 gennaio 2012), infatti, di certo non è possibile che l'interprete si sostituisca alla sede normativa e determini egli stesso, estemporaneamente ed arbitrariamente, il numero minimo di componenti di ciascun sesso.
Infine, non può ritenersi mutato siffatto quadro giurisprudenziale alla luce della sopravvenienza della legge n. 215/2012, inapplicabile al caso di specie ratione temporis, diversamente da quanto opinato da questa Sezione, in modo sintetico e senza un'esauriente disamina della giurisprudenza della Sezione medesima sul tema in esame, con la sentenza Consiglio di Stato, sez. V, 18 dicembre 2013, n. 6073.
Infatti, come è noto, detta legge è intervenuta in modo importante nel procedimento elettorale dei comuni (art. 2), riservando a ciascun sesso almeno un terzo delle candidature ed introducendo la doppia preferenza di genere; in tal modo sono state create le condizioni per un concreto riequilibrio della rappresentanza in seno ai Consigli e, di riflesso, nelle Giunte (che, in concreto, tendenzialmente riflette sempre gli equilibri politici creatisi con il voto per il consiglio).
Anche il nuovo disposto di cui all'art. 6, comma 3, del TUEL (d.lgs. n. 267/2000), novellato nel senso che gli statuti debbano ora "garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte", non è rilevante, poiché esso implica che, per il futuro, non potranno più ammettersi giunte monogenere, al di fuori del caso estremo di concreta e motivata impossibilità di assicurare tale presenza, imponendo la compresenza dei generi, ma non anche il loro riequilibrio, rimesso all'autonomia statutaria dell'Ente in base a quanto sopra argomentato.
Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l'appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere respinto il ricorso di primo grado in quanto infondato.
Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate, sussistendo le eccezionali ragioni richieste dalla legge.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Compensa le spese di lite del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.