Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 17 febbraio 2015, n. 3136
Presidente: Roselli - Estensore: Roselli
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 28 novembre 2013 la Corte d'appello di Milano confermava la decisione del Tribunale, a sua volta confermativa dell'ordinanza di accoglimento del ricorso, proposto da Michele D.L. ai sensi dell'art. 1, comma 48, l. 28 giugno 2012, n. 92 contro la datrice di lavoro s.p.a. Poste italiane ed inteso alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli il 12 giugno 2012 in conseguenza di una sentenza penale, emessa su patteggiamento, di condanna alla reclusione di un anno e undici mesi e ad una multa di 330,00 euro per l'imputazione di usura ed estorsione.
Il licenziamento era fondato sugli artt. 2104 e 2105 c.c., richiamati dall'art. 52 del c.c.n.l. di categoria.
La Corte osservava che, trattandosi di reato non commesso nell'esercizio delle mansioni lavorative, occorreva valutare la sua idoneità ad interrompere il legame fiduciario necessariamente intercorrente tra datore e prestatore di lavoro, con riferimento alle specifiche mansioni affidate al secondo. Nella specie il D.L., operaio, era addetto ad una macchina di timbratura e smistamento di corrispondenza chiusa né gli era stata mai contestata alcuna condotta illecita in relazione alle sue mansioni. Era poi vero che l'art. 54 c.c.n.l. prevedeva il licenziamento immediato per condanna penale passata in giudicato e conseguente a fatti non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, ma quei fatti dovevano pur sempre essere così gravi da ledere il detto legame fiduciario, in relazione alla posizione occupata dal reo in azienda.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione la s.p.a. Poste italiane mentre il D.L. resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 156, 158, 159, 161 c.p.c., ossia la nullità della sentenza di primo grado emessa da giudice incompetente ossia dallo stesso magistrato che aveva accolto la domanda del lavoratore con l'ordinanza di cui all'art. 1, comma 49, l. n. 92 del 2012. Nullità che avrebbe dovuto essere rilevata d'ufficio dalla Corte d'appello.
Il motivo è inammissibile poiché l'asserito vizio della sentenza di primo grado, riconducibile all'art. 51, n. 4, c.p.c., avrebbe caso mai dovuto essere prevenuto dalla parte interessata con istanza di ricusazione (il nome del giudice dell'opposizione all'ordinanza era conoscibile attraverso il ruolo e l'intestazione del verbale d'udienza) e non comporta comunque nullità della sentenza (Cass. 10 settembre 2003, n. 13212; 26 maggio 2003, n. 8197; 22 marzo 2006, n. 6358; 15 giugno 2005, n. 12848).
Il vizio è peraltro insussistente.
La fase dell'opposizione ai sensi dell'art. 1, comma 51, l. n. 92 del 2012 non costituisce un grado diverso rispetto alla fase che ha preceduto l'ordinanza.
Essa non è, in altre parole, revisio prioris instantiae ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente. La Corte costituzionale con sent. n. 326 del 1997 ha dichiarato non fondata la questione avente ad oggetto l'art. 51 c.p.c., nella parte in cui impone l'obbligo di astensione nella causa di merito al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam. Vedi anche Cass. 13 agosto 2001, n. 11070; 12 gennaio 2006, n. 422.
E più recentemente la stessa Corte costituzionale, con ordinanza n. 205 del 2014, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità degli artt. 1, comma 51, l. n. 92 del 2012 e 51 cit., primo comma, n. 4, rilevando "l'improprio tentativo di ottenere, con uso distorto dell'incidente di costituzionalità, l'avallo dell'interpretazione proposta dal rimettente in ordine ad un contesto normativo che egli pur riconosce suscettibile di duplice lettura"; tanto più che il giudice rimettente riteneva preferibile, e costituzionalmente più compatibile, l'opposta interpretazione, che escludeva il contenuto impugnatorio dell'opposizione all'ordinanza in questione. Detto contenuto impugnatorio è stato poi escluso dalle Sezioni unite di questa Corte, che con ordinanza 18 settembre 2014, n. 19674 hanno espressamente definito quella successiva all'opposizione di cui all'art. 1, comma 51, cit. come fase del giudizio di primo grado.
Col secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 52 e 54 c.c.n.l., 2119, 2697 c.c., 115, 116 c.p.c., 7 l. 20 maggio 1970, n. 300, notando che la sentenza penale di patteggiamento della pena avrebbe dovuto essere equiparata ad una sentenza di condanna e che il reato di estorsione, accertato nei confronti del lavoratore, era di gravità tale da interrompere il legame fiduciario con la datrice di lavoro, e perciò da giustificare il licenziamento.
Il motivo è improcedibile nella parte in cui invoca clausole del contratto collettivo nazionale, non depositato ai sensi dell'art. 369, cpv., c.p.c.
Esso è inammissibile nella parte in cui parifica la sentenza penale di condanna su patteggiamento al giudicato di condanna, giacché la parificazione, per quanto qui interessa, non è stata negata dalla Corte d'appello.
Esso è invece fondato in relazione al parametro normativo dell'art. 2119 c.c.
Anche una condotta illecita estranea all'esercizio delle mansioni del lavoratore subordinato può avere rilievo disciplinare poiché egli è assoggettato non solo all'obbligo di rendere la prestazione bensì anche agli obblighi accessori di comportamento extralavorativo tale da non ledere né gli interessi morali o patrimoniali del datore né la fiducia che, in diversa misura e in diversi modi, lega le parti di un rapporto di durata.
Detta condotta indisciplinata comporta la sanzione espulsiva soltanto se presenti caratteri di gravità che debbono essere apprezzati, tra l'altro, in relazione alla natura dell'attività svolta dall'impresa datrice di lavoro, attività in cui s'inserisce la prestazione resa dal lavoratore subordinato. Comportamenti illeciti di questo, che possono essere considerati non di gravità tale da giustificare l'espulsione da un'azienda svolgente un'attività puramente privatistica, possono al contrario rompere il legame fiduciario ed il connesso requisito di affidabilità che sta alla base di un rapporto di lavoro costituito per l'espletamento di un servizio pubblico, ancorché in regime giuridico privatistico.
È infatti noto che l'attività, dello Stato o degli enti pubblici, intesa a soddisfare pubblici interessi, assenti nei fini dei medesimi soggetti pubblici, può essere svolta attraverso attività costituenti diretta manifestazione dell'autorità degli stessi soggetti ossia come attività della pubblica amministrazione, che si trova in posizione di supremazia nell'interesse generale della collettività, oppure attraverso un'attività privatistica, caratterizzata dalla posizione di parità del soggetto che opera per la soddisfazione dell'interesse pubblico e soggetti collaboratori ovvero fruitori del servizio. Quest'attività privatistica può essere svolta, come avviene spesso e in particolare per il servizio postale, mediante la costituzione di società con capitale prevalentemente o totalmente pubblico.
La natura privatistica di questi soggetti societari spiega perché essi debbano operare in regime di concorrenza oppure perché siano assoggettati al comune regime della contribuzione previdenziale (Cass. 10 dicembre 2013, n. 27513) o delle garanzie legislative a tutela dei lavoratori contro situazioni di precariato (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23702).
Tuttavia l'impegno di capitale pubblico e la pubblicità del fine perseguito, che sottomettono l'attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., non è senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell'utenza, anche nella condotta extralavorativa.
Erroneamente perciò il giudice d'appello ha ritenuto che la pena per usura ed estorsione non ostasse al proseguimento del rapporto di lavoro dell'agente postale.
Cassata la sentenza impugnata, la non necessità di nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto permettono di decidere nel merito col rigetto della domanda originaria.
Le spese possono essere compensate in considerazione dell'incertezza iniziale della lite, incertezza che quasi sempre si connette all'interpretazione-applicazione di una clausola generale come quella di giustificato motivo di licenziamento e che qui spiega l'alterno esito dei gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Spese compensate per l'intero processo.